Frontiere, confini, limiti nel mondo greco

di Mauro Corsaro

 

 

Che cos’è una frontiera?

La risposta potrebbe sembrare semplice ma non lo è affatto in quanto non esiste una definizione di frontiera che sia valida, allo stesso modo, per l’impero assiro, per la polis greca, per il limes romano o per l’Europa del 1914. Non esiste una definizione semplice perché tracciare una frontiera significa delimitare un territorio e conferirgli una identità: parlare di frontiera significa dunque parlare di identità e le identità (come le frontiere) sono per eccellenza fragili perché si fanno e si disfano nel corso del tempo.

Se, con questa premessa, ritorniamo al mondo greco, ci accorgiamo che nell’Iliade il termine che si usa per confine (ouros) sta a indicare, in genere, la pietra posta a delimitare campi che sono oggetto di contesa. Ciò ben si comprende se teniamo presente che la comunità rappresentata da Omero è quella che si è venuta a creare dopo la fine dei palazzi micenei: si tratta di una comunità, per così dire, pre-statuale che ha al suo centro deboli figure di re (basileis) e che è nelle mani di casate (oikoi) aristocratiche che spesso si scontrano per accumulare terre e aspirare al potere. A differenza dell’Egitto, della Mesopotamia e della Cina (le cosiddette “società idrauliche”), il mondo greco non conosce quindi alle sue origini un forte potere centrale di carattere monarchico-burocratico, il che ha determinato la presenza al suo interno di un alto tasso di conflittualità (basti pensare ai contrasti fra Achille ed Agamennone nell’Iliade e al comportamento che nell’Odissea tengono i proci a Itaca durante l’assenza di Odisseo). L’aristocrazia guerriera che domina la società omerica è conflittuale perché si basa su un sistema di valori costruito attorno alla prodezza guerriera e all’onore (arete e time). L’una è l’attributo essenziale dell’eroe, l’altro la sua maggiore aspirazione. Le due principali figure dell’Iliade, Ettore e Achille, mettono l’onore anche al di sopra della stessa vita e della sopravvivenza del loro popolo: Ettore potrebbe comportarsi in maniera più prudente salvando se stesso e il suo popolo, ma preferisce una morte onorevole, che comporta anche la rovina della sua ‘patria’; Achille, per questioni d’onore, abbandona i combattimenti e nulla può convincerlo a ritornare alla lotta se non la morte di Patroclo. Del resto, l’Achille omerico preferisce morir giovane ma ricoperto di gloria (kleos) alla mediocre vita eterna che avrebbe goduto da essere semidivino. Gli eroi omerici dunque, all’interno di un assetto sociale in cui la sfera pubblica è ancora allo stato embrionale, hanno un comportamento individualistico ed eccessivo, che mette al centro la lotta (agon) e l’eccellenza sugli altri. Si tratta di quella caratteristica dell’uomo greco definita da Burckhardt e Nietzsche “agonale” e che trova la sua massima espressione nel principio dell’eccellere sempre sugli altri (aien aristeuein).

 

La nascita della polis e la ricerca dell’eunomia. La città “sostenibile”

È in questo contesto eroico, in cui le strutture di potere sono piuttosto deboli, che nasce e si sviluppa la polis, una polis che a partire dall’VIII secolo si afferma in maniera autonoma, e cioè senza alcuna forma di subordinazione a poteri monarchici forti né interni né esterni. In questa situazione, il principale problema che la polis arcaica doveva risolvere era quello del modo in cui si potevano comporre gli interessi divergenti dei clan (ghene) aristocratici (sia al loro interno, sia nei confronti della parte restante della popolazione) e i conflitti che ne derivavano. I nobili avevano un forte senso della loro autonomia e a volte anche un notevole spirito di corpo, e questo rendeva difficile trovare un’intesa sia al loro interno sia col resto della popolazione. Diventava dunque difficile concepire una nozione di interesse comune. Il potere politico restava quindi sostanzialmente debole e ciò faceva sì che in momenti di particolare crisi venisse fuori un personaggio che, magari appoggiandosi agli strati medio-bassi, si impadroniva del potere assoluto (il tyrannos), anche se difficilmente il potere tirannico riusciva a consolidarsi nelle generazioni successive.

Ma nella Grecia arcaica esistevano anche, per così dire, specialisti della legislazione (si pensi a legislatori come Caronda e Zaleuco) o figure di saggi, che in taluni casi potevano essere legati al potere tirannico, ma che in genere avevano una posizione ‘autonoma’ (si pensi ai sette sapienti) o anche a centri religiosi come Delfi, che erano in grado di elaborare un pensiero politico capace di guardare alla comunità nel suo insieme. Tra di essi spicca la figura di un intellettuale che, in un momento di grave crisi, seppe imprimere una svolta in senso ‘politico’ alla storia ateniese. Mi riferisco a Solone, il quale agli inizi del VI secolo fu chiamato dalla città ad assumere una posizione di mediatore fra le parti (aisymnetes), al fine di trovare una soluzione all’impasse in cui Atene si era cacciata. Per Solone le origini della crisi erano da ricercarsi nella stoltezza dei cittadini, proni alla ricchezza, e nella mente ingiusta dei capi del popolo, che non riuscivano a contenere la loro tracotanza (hybris). Nella città non c’era alcun rispetto né dei beni sacri né dei pubblici, né tantomeno degli Altari di Dike, silenziosa testimone degli oltraggi ma pronta a farne pagare il fio. Una parte della popolazione era stata ridotta in schiavitù e anche venduta all’estero e questo alimentava la sedizione civile e la guerra silenziosa. Solo con l’aiuto di Zeus e di Atena sarebbe stato possibile porre rimedio a tutto ciò. Il rimedio consisteva nell’instaurare ad Atene, al posto della dysnomia esistente, il buon governo (eunomia), che, per usare le parole di Solone, leviga le asperità, fa cessare l’insolenza (koros), fiacca la tracotanza (hybris). Ma perché ciò potesse avvenire era necessario che i cittadini non se ne stessero rinchiusi nelle loro case, attendendo che il male venisse a colpirli sin dentro il talamo, ma che si mobilitassero e partecipassero attivamente alla vita cittadina.

Utilizzando quindi nozioni che, per un verso, risalivano ad Esiodo come quella della giustizia figlia di Zeus o a temi propri della saggezza delfica, che invitava a conoscere se stessi e a rifuggire dagli eccessi (gnothi seauton e meden agan), Solone elaborava una complessa ideologia dell’equilibrio sia personale sia fra le parti, raggiungibile attraverso il rifiuto della tracotanza (hybris) e la ricerca della giustizia (dike). Nasceva in tal modo nella polis un nuovo spazio, quello del politico, inteso come luogo di confronto al fine di superare la guerra civile (stasis): ed è su queste basi eunomiche, poste da Solone, che successivamente si sarebbero affermate nel mondo greco e in particolare ad Atene prima l’isonomia e poi la demokratia.

 L’eunomia era, del resto, la parola d’ordine attorno alla quale avvenne nel VI secolo quella rivoluzione che mise termine a Sparta a un lungo periodo di cattivo governo (kakonomia) e che portò all’instaurazione di un nuovo ordine. L’eunomia a Sparta implicò, più che ad Atene, una rigida affermazione della sfera statuale rispetto a quella familiare: gli uguali (homoioi) vivevano una vita pubblica, lontano dalle famiglie, in una comunità esclusivamente maschile, anti-individualistica e in cui vigeva la massima conformità; i giovani, sin da bambini, erano sottoposti ad una rigida educazione (agoghe), anch’essa fatta in comune e al di fuori dall’ambito familiare, per diventare guerrieri. Al fine di evitare ogni forma di eccesso, furono introdotti uno stile di vita austero e anche il divieto di dedicarsi agli affari (chrematismos), di possedere oro e argento e di usare la moneta coniata. Il fatto che Sparta avesse, nei secoli precedenti, allargato i suoi confini più di qualsiasi altra città greca (in particolare grazie alle guerre messeniche) comportò, di riflesso, per gli Spartani la necessità di chiudersi in se stessi (autarkeia) e di auto-reprimersi ancor più degli altri.

 La stessa tendenza all’auto-controllo e al rifiuto dell’ideologia dell’eccesso, che abbiamo analizzato nella politica interna, si può anche rilevare nella politica estera delle città greche, che, a partire dal VI secolo, cercano in tutti i modi di trovare un equilibrio di potenza fra di loro, in modo da impedire che nel continente greco si innescassero processi espansionistici e di messa in discussione dei confini. Si cercò quindi di risolvere, in maniera pacifica o ritualizzata o con l’intervento arbitrale di terzi, i problemi di confine che di tanto in tanto sorgevano tra poleis vicine. Ad esempio, il conflitto di confine fra Sparta e Argo per la regione della Tireatide (le cui origini risalgono forse all’VIII secolo ma che dura fino all’epoca ellenistica) assunse ben presto le forme di uno scontro ritualizzato che si ripeteva nel tempo senza avere mai un esito definitivo. Esso si svolgeva, innanzitutto, secondo regolamenti pattuiti che contemplavano in qualche caso la limitazione del numero dei combattenti (secondo Erodoto, a combattere nel VI secolo erano stati solo trecento guerrieri per parte), in qualche altro il divieto d’inseguimento; inoltre esso aveva implicazioni di carattere religioso che mettevano in contatto le due città: la rievocazione rituale dei combattimenti per la Tireatide avveniva a Sparta durante le feste delle Gimnopedie nel quadro del culto di Apollo Pythaeus, un dio considerato d’origine argiva ma venerato in entrambe le città, in santuari fuori le mura posti in aree estreme (eschatiai).

 

Fra barbari e tiranni. Poleis e frontiere oltre la Grecia

Il confine dunque da una parte separa, ma dall’altra unisce: e ciò può spiegare perché l’agone rituale non si concludesse mai e servisse, in un certo senso, a mantenere stabile la linea di confine dato che, ad un tempo, essa divideva e univa le due poleis. Inoltre, sia a Sparta sia ad Atene le zone estreme di frontiera svolgevano una funzione fondamentale nei riti di passaggio dell’efebia e nell’educazione dei giovani a quella disciplina che li avrebbe portati a diventare opliti. Le selvagge eschatiai, dove erano posti i cippi di confine della città (horoi chiamati a testimoni – assieme a orzo, ulivi, vigne e fichi – nel giuramento oplitico) e dove i giovani efebi praticavano il pattugliamento e la caccia (che a Sparta acquistava talora l’aspetto cruento della caccia all’ilota nel rituale della krypteia), servivano a liberare i giovani guerrieri dall’ethos della prodezza individuale (che rientrava nella sfera del furor, del menos e della lyssa) per prepararli all’ordine e alla disciplina della falange oplitica. La progressiva affermazione della polis comportò dunque la nascita di processi di disciplinamento sotto il segno del controllo di sé (enkrateia), processi che portarono a poco a poco gli eroi omerici, soggetti facilmente all’ira, a diventare ordinati e rispettosi cittadini.

Ciò fu forse reso possibile anche dal fatto che le ambizioni frustrate dei nobili e le insoddisfazioni della parte più bisognosa della società, a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo, si riversarono nella colonizzazione del Mediterraneo occidentale, dove si venne a creare una situazione ‘aperta’ che, per certi aspetti, si può avvicinare al modello espansionistico, tipico nel mondo moderno, della frontiera americana. La continua espansione verso occidente creò, per il teorico della frontiera Turner, il tratto caratteristico delle istituzioni americane, consistente nel fatto che esse erano continuamente costrette ad adattarsi ai cambiamenti di un popolo in espansione. Allo stesso modo possiamo dire che l’allargamento che conosce il territorio delle colonie greche d’Occidente, che non trovano nelle popolazioni indigene in età arcaica una forza in grado di porre ad esse un serio freno, favorisce al loro interno una sorta di instabilità istituzionale. Se guardiamo, ad esempio, alla situazione della Sicilia ci accorgiamo che, già nel VI secolo, ad Agrigento nasce un tipo di potere assoluto, quello di Falaride, che si distingue dalla tradizionale tirannide greca, soprattutto per il fatto che esso si caratterizza per l’azione espansiva che esercita anche nei confronti del mondo indigeno. La hybris tirannica ha dunque modo nel mondo coloniale di manifestarsi, oltre che nei tradizionali eccessi, anche in una nuova forma di pleonexia (avidità), quella espansionistica, volta a mettere continuamente in discussione limiti e confini territoriali.

Questa caratteristica della tirannide siceliota, che contrasta con la contemporanea tendenza del mondo greco a conservare l’equilibrio di potenza fra le varie poleis, resterà un aspetto strutturale delle grecità di Sicilia anche nei secoli successivi. Basti pensare agli sconvolgimenti, che non hanno eguali nel resto del mondo greco, provocati nel V secolo prima dall’espansionismo di Gela e poi da quello di Siracusa: un espansionismo anch’esso connesso a forme di potere tirannico, che portò allo spopolamento di città, alla concessione di cittadinanza a soldati mercenari e a popolazioni di varia provenienza, alla creazione di stati territoriali che andavano ben al di là dei confini della polis tradizionale. Si deve alla politica di Gelone e Ierone e successivamente a quella di Dionisio I se in Sicilia il modello di polis, presente nel mondo greco continentale, non si è probabilmente mai affermato: i cambiamenti continui di popolazione e di confini, subìti dalle città nel V e IV secolo, non hanno permesso infatti che prendesse forma nell’isola quella identità cittadina che, proprio all’epoca delle guerre persiane, si consolidò altrove in maniera definitiva. Ancora dopo, alla vigilia della spedizione in Sicilia, Alcibiade poteva sostenere che le poleis siceliote erano piuttosto deboli e soggette a staseis (contrasti civili), perché erano abitate da masse miste e disomogenee (ochloi xymmiktoi), incapaci di stabilire tra di loro una vera e propria convivenza.

All’interno dell’ideologia eunomica che prevale nelle città greche del VI secolo è dunque la tirannide a incarnare quella hybris da cui bisognava tenersi lontani se si voleva evitare la peggiore fra le malattie della vita cittadina, cioè la stasis appunto (diciamo qui la ‘guerra civile’). Ma alla metà del secolo si verifica un evento che influenzerà profondamente tanto la vita politica, quanto quella intellettuale del mondo greco, vale a dire la conquista persiana dell’Asia Minore. Per la prima volta i Greci entrano in contatto con una monarchia orientale di carattere assoluto che mette fine alla koine culturale che aveva contraddistinto i rapporti con l’Asia fino a quel momento e che appare ben diversa dai piccoli regni orientali, come quello lidio o frigio, coi quali fino ad allora i Greci avevano avuto a che fare. Lo scontro col mondo persiano diventò frontale solo nel V secolo, e da questo scontro sarebbe nata una definizione dell’identità greca destinata a lasciare tracce profonde nella storia della cultura europea fino ai nostri giorni.

Innanzitutto nasce in quest’epoca la nozione di barbaro come di colui che è estraneo ai valori della grecità, e questo avviene in connessione al fatto che la barbarie è rappresentata dai Persiani e, in particolare, da un re che diventa, per eccellenza, l’incarnazione della tirannide: egli comanda in maniera autocratica su masse sterminate di sudditi che vivono in territori sconfinati, nutre l’idea che il suo impero debba raggiungere i confini del mondo e pratica una politica di continua espansione che lo porta a non rispettare alcun limite. Il Gran Re rappresenta quindi il prototipo dell’uomo affetto da dismisura: ma è l’impero persiano stesso che, di per sé, è luogo e forma della dismisura. È in questo contesto di contrapposizione che avviene la scissione fra Asia ed Europa (scissione testimoniata dall’opera di Erodoto). Asia ed Europa, nel sogno di Atossa dei Persiani di Eschilo, sono rappresentate come due donne in stasis fra di loro, che vengono aggiogate dal Gran Re Serse a un carro, ma mentre quella in vesti persiane accetta docile le briglie, l’altra, in vesti doriche, spezza le bardature e rompe il giogo, perché rappresenta la libertà (eleutheria) greca rispetto alla sudditanza persiana. La hybris dell’impero consiste dunque nella sua assolutezza: è l’impero di ‘uno’ solo, che si distende illimitatamente, sovrastando ogni voce contrastante. Esso ha un unico despotes, il Gran Re: anche nelle poleis greche, abitate da uomini liberi, c’è un padrone, ma questo padrone è la legge (nomos), di cui i cittadini hanno un timoroso rispetto, che è anche superiore a quello che i sudditi hanno nei confronti del re persiano.

Ritorna, nelle parole del re spartano in esilio Demarato, il tema della centralità della legge (nomos basileus), il cui rispetto rappresenta l’unica possibilità data alla polis per superare gli egoismi e le divisioni che la lacerano all’interno e favoriscono il sorgere della stasis. Il nomos è dunque il vero re (basileus) della città: ma qual è il significato preciso di nomos nel mondo greco? Noi oggi lo traduciamo con il termine astratto di ‘legge’, ma in origine nomos, che è un nomen actionis derivante dal verbo nemein, ha il significato di ‘appropriazione, distribuzione e produzione dei beni’ (beni che, nelle società antiche, si identificavano soprattutto con la terra). Ciò vuol dire, in altri termini, che la città, se vuole evitare la stasis, deve far sì che la legge si accompagni alla giustizia nella appropriazione e distribuzione della terra e nella produzione dei beni. Come si ricorderà, Dike è figlia di Zeus ed è cara a Esiodo e a Solone, che l’aveva invocata per metter fine alla hybris dei potenti che avevano occupato abusivamente le terre pubbliche e avevano ridotto in schiavitù per debiti parte dei cittadini ateniesi. La battaglia decisiva consiste dunque nel connettersi a quel despota infinitamente più esigente del Gran Re, che è la Legge, di fronte alla quale i cittadini sono uguali. La libertà che permette a tutti la parresia (‘il parlar franco’) ha un senso e un valore solo se si armonizza con l’uguaglianza di ognuno di fronte al nomos.

 

Polis e hybris. Ricerca del limite, dissoluzione delle frontiere

Come si diceva, il problema sta soprattutto nel fatto che la città non è ‘una’, a differenza della famiglia (Aristotele, Politica, 1277a, 5-12), ma è divisa perché consiste di elementi dissimili. La stabilità isonomica è continuamente messa in discussione dal fatto che l’eguaglianza verso la legge è solo di carattere formale e riguarda, sostanzialmente, la sfera politica, lasciando al di sotto di essa un ginepraio di diseguaglianze. La polis dunque, come leggiamo nella Repubblica di Platone, lungi dall’essere armonica, è percorsa da desideri, passioni, interessi vari e contrastanti, che la costringono a ingrandirsi, a cercare nuove terre, nuovi pascoli da sfruttare. Da ciò deriva una conseguenza, e cioè che la techne polemike (‘l’arte della guerra’) è rimasta sempre una parte essenziale della politica cittadina e che i custodi (phylakes) della città e i suoi politai devono anche essere guerrieri. In particolare, l’Atene di Pericle, che era diventata una potenza imperiale e che pretendeva di costituire, con la flotta, la sua cultura e la sua arte, un modello esemplare per tutta la Grecia (paideusis tes Hellados), si poteva ritenere affetta da una hybris simile a quella persiana: la città si era infatti trasformata, secondo Tucidide, in una polis tyrannos.

 Ciò era dovuto al fatto che Atene aveva conquistato il dominio del mare nel momento in cui si era trasformata in una democrazia: l’anonimo autore della Costituzione degli Ateniesi individuava, anzi, una stretta correlazione fra le due cose (la parte peggiore della società, grazie al fatto che aveva trovato occupazione nella flotta, era riuscita a imporre ai migliori il proprio governo). Il maggiore analista dell’Atene periclea, Tucidide, non poteva, a sua volta, fare a meno di osservare che gli Ateniesi erano ossessionati da una demoniaca febbre di novità (neoteropoioi). Essi, quindi, a differenza degli Spartani, erano rapidi nel concepire e rapidi nell’attuare ciò che avevano pensato, non avevano alcuna tranquillità e non intendevano concederla nemmeno agli altri. La polis talassocratica ateniese era dunque affetta da una ‘volontà di potenza’ che la portava a cercare la guerra esterna (polemos), guerra esterna che, però, aveva come riflesso l’acuirsi del conflitto interno (cioè la stasis).

 Il rapporto tra dominio del mare, audacia innovativa, ricerca dell’utile e hybris (già intravvisto dallo Pseudo-Senofonte e da Tucidide) è approfondito da Platone, che ben individua la continua instabilità che l’abbandono della ‘solidità’ della terraferma e lo slancio verso il mare procura alla polis. La prossimità di una contrada al mare è infatti, secondo il filosofo (Platone, Leggi, 705a), circostanza ben amara e salata perché, affollando la città di traffici e di affari legati al commercio e instillando nelle coscienze attitudini incostanti e infide, rende tale città infida e ostile tanto a se stessa quanto agli altri uomini. A sua volta, Aristotele sostiene che, per evitare che l’esistenza in una città di una flotta potente dia troppo potere all’apistos demos (‘popolo infido’), sarebbe meglio che i marinai non fossero reclutati fra i cittadini (Aristotele, Politica, 1327b). Infine ancora Platone, quando deve pronunciarsi sui mali che affliggono l’ormai decaduta Atene del IV secolo, non esita a indicarne la causa nella hybris della passata Atene imperiale e nei suoi politici che, privi di temperanza (sophrosyne) e di giustizia (dikaiosyne), dicevano di aver fatto grande la città, ma non si accorgevano che essa era gonfia e marcia perché l’avevano riempita di porti, mura, tributi e di altre simili cose di nessun valore (Platone, Gorgia, 518d-519a).

La crisi che alla fine della guerra del Peloponneso colpisce l’illimitata democrazia imperiale ateniese, oltre che le difficoltà in cui viene a trovarsi la pur vittoriosa Sparta – che vede a poco a poco dissolversi la ‘licurghea’ eunomia, a causa sia della riduzione del numero degli spartiati sia dell’accrescimento delle disuguaglianze sociali per il desiderio individualistico di chrematismos – segnano una profonda crisi del «politico», così come si era definito nei secoli precedenti. In particolare, entra in crisi quella separazione tra sfera pubblica e sfera privata attorno alla quale si era costruita l’ideologia della legge sovrana, il nomos basileus (basti pensare all’aspro contrasto fra la legge della città e la legge non scritta dell’oikos, allo scontro fra la giustizia pubblica e privata che già nel V secolo possiamo osservare nell’Antigone di Sofocle). Ad esempio, in un intellettuale d’origini socratiche come Senofonte si manifesta, per un verso, un interesse per la sfera dell’oikos (che corrisponde a un parallelo disinteresse che comincia a diffondersi in tutti i ceti per la partecipazione alla vita politica) e, per l’altro, un interesse per le forme di potere monarchico (basti pensare a un’opera come la Ciropedia, che in qualche modo rivaluta agli occhi dei Greci la monarchia persiana). Intellettuali come Senofonte o Isocrate, che è vicino a Filippo il Macedone ed esalta dinasti come il cipriota Evagora, rappresentano bene lo spirito del loro tempo, un tempo che comincia ad intravedere nell’emergere della figura di ‘buon re’ la soluzione ai problemi posti dalla crisi del ‘politico’ della città classica.

 Il trionfo di Alessandro Magno e l’inatteso crollo dell’impero persiano misero la riflessione politica greca di fronte al dilemma di come valutare un personaggio come il giovane re macedone, che era ormai diventato l’erede della hybris imperiale persiana. Per un verso, Alessandro appariva come un eroe omerico, amante dell’aristeuein (‘eccellere’) e dello spirito agonale, uno spirito che lo portava a superare ogni limite: egli stesso riteneva, del resto, di essere discendente ed erede di Achille, Eracle e Dioniso, oltre che rinnovatore, nella sua conquista dell’Asia, delle grandi imprese di re orientali come Semiramide e Ciro. Nello stesso tempo, però, Alessandro voleva superare anche i limiti che separavano l’umano dal divino: nella sua visita all’oasi di Siwah in Egitto, avvenuta in un’atmosfera miracolistica, egli fu proclamato figlio di Zeus. Ed è questo l’evento da cui ha inizio quel processo che porterà alla divinizzazione prima di Alessandro e poi dei sovrani ellenistico-romani. La cultura greca, fondendosi con elementi tratti dalle culture orientali (egizia, persiana, giudaica), elabora quindi una nozione di regalità d’origine divina, che agli inizi è centrata sull’idea del re sapiente, benefattore e sottoposto alla legge, ma che poi acquista sempre più caratteri di assolutezza (il re, non appena ci inoltriamo in età ellenistico-romana, diventa prima la stessa incarnazione della legge, nomos empsychos, e infine per i cristiani il «vicario di Dio» sulla terra). Ma questa ‘teologia politica’ di carattere monarchico, che si costruisce lentamente attorno alla figura del sovrano, trova un contraltare nell’idea di limite, tipica della tradizione classica. Quando, ad esempio, l’alone miracolistico e dionisiaco che circondava Alessandro cominciò a dileguarsi, nacquero nel suo stesso ambiente le congiure e i mormorii che diedero origine a una serie di aneddoti sul sovrano e sul suo stile di vita eccessivo. E in questo caso, a esser messi in evidenza, erano piuttosto i suoi eccessi viziosi, vale a dire i mirabolanti banchetti, gli scatti d’ira, le bevute, l’amore per il lusso. Dalla storiografia su Alessandro comincia dunque a svilupparsi una tendenza di carattere biografico e negativo che costruisce racconti aneddotici attorno alla vita dei sovrani: un filone che indaga soprattutto sulle loro stranezze, sui loro vizi e sui loro eccessi, che troverà il suo culmine nelle vite degli imperatori romani di Svetonio e nella Historia Augusta.

 In conclusione, si potrebbe dire che la cultura greca, nata nella piccola comunità della polis ma che poi si è sviluppata all’interno di forme di potere imperiali e nel loro contrasto, ha sentito profondamente il problema del confine e del limite e ha cercato, in qualche modo, di regolarlo. Da ciò è derivata una particolare conseguenza, e cioè che la nozione di impero è stata, in genere, connessa dai Greci a quella di hybris e quindi a quella di decadenza. Dai Persiani, ai Macedoni, ai Romani, tutti gli imperi che, spinti da hybris, hanno cercato di raggiungere i confini del mondo, non hanno fatto altro che preparare il loro declino. Ma questo principio non vale solo per i popoli, vale anche per gli individui: solo chi è capace di controllare i propri desideri illimitati, di tenere a freno la propria avidità, può salvare se stesso da sicura rovina. Si tratta forse di un ethos repressivo, ma non posso fare a meno di osservare che esso mi pare piuttosto ‘inattuale’, perché è in contrasto col modo di rapportarsi alla realtà che, in genere, prevale nel mondo moderno: un mondo che individua i suoi centri propulsori nell’amore delle novità, nell’avidità e nel desiderio senza limiti.


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GRECIA ANTICA , CONFINI , FRONTIERE , POLIS , ATENE , LIMITE , SICILIA


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Antichistica

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