Identità, ospitalità, ostilità.
La storia degli ebrei tra déracinement e cittadinanza

di Ernesto De Cristofaro

 

Per riassumere diremo: che l’ebreo
è per i viventi un uomo morto,
per gli indigeni è uno straniero,
per i cittadini un vagabondo,
per i ricchi un mendicante,
per i poveri uno sfruttatore ed un milionario,
per i patrioti un uomo senza patria,
per tutte le classi un concorrente odiato.

L. Pinsker, Auto-emancipazione.
Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli
(1882).

La teoria delle razze come argomento in una lotta
di civiltà si riduce sempre ad un’antropologia. Un
teorico della razza ha mai scoperto con terrore e
vergogna che la razza a cui egli dice di appartenere
ha da venir bollata come inferiore? No: si tratta sempre
di innalzare sé e i suoi sugli altri, e a spese degli altri.
La tesi razzistica è sempre bellicosa, ostile, anti-qualcosa
(antiasiatica o antiafricana o antiproletaria o antisemita).

J. Huizinga, La crisi della civiltà (1935).

 

 

Dalla »Terra promessa» alla teologia della discriminazione

La condizione di erranza, mobilità, precarietà è un elemento costitutivo dell’identità ebraica. La parola ‘ebreo’ nella Bibbia è legata alla radice ‘avar, che significa ‘passare’. L’ebreo è, dunque, etimologicamente ‘colui che passa’.[1]

In principio era la migrazione. I primi esseri umani, Adamo ed Eva, sono cacciati da Gan Eden, il Paradiso terrestre. Il fondatore del monoteismo, Abramo, segue l’ordine di Dio, «lech lechà» («va’ via») e si mette in cammino da Ur, la sua patria, in Mesopotamia, verso la terra di Canaan, dalla quale il pronipote Giuseppe, a sua volta, si trasferirà in Egitto. Molte generazioni più tardi Mosè ricondurrà gli ebrei nella patria loro assegnata, in quella terra che avrà d’ora in poi il nome del popolo stesso, ovvero Israele, secondo il nome del nipote di Abramo, Giacobbe.[2]

«Un israelita di nome Mosé»,[3] dopo molte vicissitudini, riuscì a guidare il suo popolo nella terra abitata un tempo dai suoi avi intorno a una data remota che la storiografia colloca, con molte cautele, alternativamente tra il 1445 e il 1227 a. C. Il libro dell’Esodo, secondo libro della Torah,[4] racconta la liberazione dalla schiavitù egiziana e, sebbene in esso confluiscano elementi mitici e poetici che è difficile discernere da una trama dotata di oggettività, tale testo rimane di fondamentale importanza per l’auto-comprensione storica del popolo ebraico. La festa di Pasqua (Pesach) commemora questo evento ed esso viene ricordato nella preghiera ebraica della mattina e della sera. Israele si considera il popolo tratto da Dio fuori dall’Egitto e liberato dalla schiavitù.[5]
Alcuni secoli più tardi, nel 586 a. C. si consuma la conquista babilonese di Gerusalemme per opera di Nabucodonosor e con essa un nuovo esilio («Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion», recita il Salmo 137) dal quale solo nel 538 a. C. il popolo ebraico farà ritorno per cominciare a «riannodare le fila del suo destino».[6]  In epoca romana, per due volte, nel 70 d. C. e nel 132 d. C. ribellioni ebraiche vengono violentemente soffocate e la città di Gerusalemme e il suo tempio distrutti e rimossi persino dalla memoria dei nomi: la Giudea si chiamerà Syria Palestina (più tardi solo Palestina) e Gerusalemme diverrà Aelia Capitolina. Tali ultimi eventi favoriscono il compiersi della più massiccia dispersione o diaspora (dal greco διασπορá½±, derivato di διασπεá½·ρω – ‘disseminare’ –) del popolo ebraico presso terre lontane da Israele. Benché tale processo si fosse già gradualmente verificato nei decenni precedenti e anche in virtù di ragioni, di natura commerciale tra l’altro, diverse dall’esilio forzato. Ma adesso esso avveniva in modo che si inverasse drammaticamente un passo della Torah che recita: «Il Signore ti disperderà fra tutti i popoli, da un’estremità all’altra della terra. Là servirai altri dei che né tu, né i tuoi padri avete conosciuto».[7] L’allontanamento coattivo dalla terra dei Padri determina, pertanto, il condensarsi di una dinamica identitaria che ha il proprio centro di gravitazione nella testualità biblica (Torah) e nella tradizione, originariamente orale poi scritta, di precetti giuridico – morali, apologhi sapienziali, narrazioni edificanti ed esegesi rabbiniche su una sterminata e plurisecolare casistica che incorporano la legge divina nella trama esistenziale quotidiana degli Ebrei (Talmùd).[8] Sul punto, Erich Fromm scrive:

La specificità della Diaspora ebraica potrebbe formularsi così: nonostante la perdita dello stato, del territorio e di una lingua profana, il giudaismo è sopravvissuto come gruppo parentale e unito nella continuità di un comune destino, un gruppo che ha concentrato le sue energie soprattutto nell’impregnare il corpo sociale dell’idea religiosa di cui era depositario.[9]

Se da un lato questo processo rafforza i vincoli di unità e di reciproco riconoscimento tra correligionari, dall’altro esso è motivo di tensione e diffidenza con gli altri popoli con cui gli ebrei entrano in contatto. Alcuni elementi della tradizione israelitica – il monoteismo, la presentazione della propria storia come storia del popolo ‘eletto’, la circoncisione, le regole sulla purezza e sugli alimenti – concorrevano non di rado a sottolineare le differenze rispetto a quanti praticavano riti religiosi e stili di vita sociale differenti.[10] Ma su questa base di separazione se ne costruisce una, di gran lunga più incisiva, che decorre, almeno, dall’Editto di Teodosio (380 d. C.) e dall’assunzione del cristianesimo come religione di Stato nei vasti territori dell’Impero romano.[11] Nell’Europa cristiana della tarda antichità e, poi, del Medioevo, sulla base di un’autorevole tradizione testuale che, partendo da alcuni passi della Lettera ai Tessalonicesi di Paolo di Tarso giunge ad Origene, Eusebio, Girolamo e Giovanni Crisostomo e che ne richiama con ossessiva metodicità le inestinguibili colpe, gli ebrei vengono ricorsivamente designati come ‘popolo deicida’, in modo esplicito a partire dal III secolo d. C.[12] Intorno ad essi si dispone una fitta maglia di regole, divieti, limitazioni. Ad alcune delle quali attingeranno, secoli più tardi, le dittature nazista e fascista, che nel Novecento daranno corso alla più sistematica, capillare e violenta persecuzione del popolo ebraico di cui si abbia storicamente memoria.[13] Gli ebrei sono oppressi ma, al contempo, essi vanno preservati come prova vivente dell’ostinata mancanza di fede nella missione redentrice e salvifica di Gesù e nel carattere divino della sua natura ma, altresì, in vista della loro possibile salvezza una volta superato tale rifiuto. Solo nella seconda metà del Novecento, dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965), verrà rimossa dalla liturgia cattolica del venerdì santo una preghiera per la conversione degli Ebrei, «Oremus et pro perfidis iudaeis», che sin dal VII secolo ne faceva parte e che esprimeva l’auspicio che gli ebrei rinunciassero alla durezza del loro cuore e accogliessero Gesù come il Messia.[14] Dagli ultimi decenni di vita dell’Impero romano a tutto il periodo medievale, sulla discendenza israelita gravano vincoli che aumentano sensibilmente in presenza di particolari circostanze. Nel 535, il sinodo di Clermont interdice agli ebrei la facoltà di ricoprire cariche pubbliche; tre anni più tardi il terzo sinodo di Orleans proibisce loro di avere servitori cristiani e li obbliga a non mostrarsi in pubblico durante la settimana santa. Nel 681, il dodicesimo sinodo di Toledo decreta il rogo del Talmùd e l’anno dopo il sinodo Trullano vieta ai cristiani di farsi curare da medici ebrei. Altre restrizioni provengono dal recupero basso-medievale della legislazione giustinianea e dall’edificazione scientifica del sistema del diritto comune. L’interdizione dalle cariche pubbliche stabilita dal diritto canonico è presente nel diritto comune come effetto di una norma introdotta da Teodosio e Valentiniano nel 438 e poi ripresa da Giustiniano nel 527. La dottrina la ammette pacificamente, sicché essa diventa così consueta da essere «quasi sempre sottaciuta negli ordinamenti particolari».[15] Oltre l’esclusione dagli uffici e i forti limiti all’esercizio delle professioni, persino la laurea, in quanto «dignitas» che consente la giurisdizione sugli scolari, secondo un’opinione di Bartolo, va vietata agli ebrei, così come alle donne, agli apostati, agli infedeli, agli infames.[16] Ma è in occasione dell’elezione al soglio pontificio di Innocenzo III che l’antigiudaismo religioso tocca uno dei suoi picchi storici. Il Papa proclama sin dal 1198, primo anno del suo pontificato, la necessità di una quarta crociata per liberare la Terra Santa dagli infedeli e, dal 1209, promuove una massiccia persecuzione nei confronti degli aderenti all’eresia catara nella Francia meridionale. In questa cornice culturale, il IV Concilio lateranense del 1215 stabilisce che gli ebrei debbano distinguersi attraverso segni sui loro abiti. La medesima prescrizione verrà poi estesa verso gli eretici, le prostitute, i lebbrosi. «L’ossessione della purezza e il bisogno di separazione dagli immondi ebrei – scrive Adriano Prosperi – si associavano a progetti di crociata all’esterno e di riforma interna della Chiesa elaborati da un papato che si presentava come titolare di poteri universali».[17] L’ebreo si presenterà d’ora in avanti nei maggiori Paesi europei con un tondo giallo cucito sui vestiti, con un cappello a punta, con due strisce di stoffa appuntate sul petto, in modo da apparire come «un essere fisicamente diverso dagli altri uomini, appartenente a un regno diverso da quello del genere umano».[18] Nel giugno 1242 a Parigi si consuma il rogo di migliaia di copie del Talmùd, libro che due anni prima nella medesima città e nel 1263 a Barcellona subisce un simbolico processo pubblico. Esso viene additato coram populo come il testo che, alterando il contenuto e gli insegnamenti della Torah, determina l’ostinata riluttanza degli ebrei a convertirsi al cristianesimo.[19] Nel corso del quattordicesimo secolo (in particolare, tra il 1348 e il 1353) gli ebrei, che ne sono vittime al pari di milioni di altre, vengono accusati di essere gli untori della peste che falcidia l’Europa[20] e dal 1290 al 1519 essi vengono espulsi dall’Inghilterra, dalla Francia, da quasi tutti i principati e le città della Germania e i loro beni confiscati. Lo stesso avviene nel 1492 nei domini della corona spagnola, in molte parti dei quali, tra cui numerose città siciliane, negli anni precedenti essi erano stati oggetto di gravi episodi di violenza.[21] Nel 1516, a Venezia, sede di un’antica comunità ebraica, viene istituito il ghetto, termine che si fa risalire alla presenza di una fonderia di metalli, chiamata ‘geto’ (ma pronunciata ‘gheto’ dagli ebrei ashkenaziti), nel sestiere di Cannaregio in cui esso sorse. La stessa misura di segregazione viene introdotta nei territori dello Stato Pontificio con la bolla Cum nimis absurdum emanata da Paolo IV nel 1555. Il ghetto è l’archetipo della separazione fisica degli ebrei dalla restante parte delle comunità politiche nel cui territorio essi risiedevano e verrà ripreso nell’Europa dei totalitarismi. Nonostante sia stato vissuto talora in modo meno oppressivo e penoso di quanto si possa oggi ritenere,[22] esso esprime visivamente il fatto che gli ebrei, già sottoposti a numerose vessazioni che facevano di essi cittadini di grado inferiore, non potessero che abitare nel perimetro della socialità un sotto-perimetro limitante e, come tale, squalificante. Il ghetto impone una forte coercizione sulla libertà di movimento, giacché le sue porte venivano chiuse al tramonto e riaperte al mattino. Dopo Venezia e Roma, vennero creati ghetti a Firenze (1571), Verona (1599), Padova (1601), Mantova (1610), Ferrara (1624) Genova (1660), Torino (1669), Trieste (1695).[23] Analoghe istituzioni punteggiarono il territorio europeo e, ad esempio, le città tedesche di Francoforte, Magonza, Amburgo. D’altra parte, la riforma luterana non aveva indirizzato agli ebrei più benevolenza di quanta essi non ricevessero da parte dei cattolici e nel 1542 Martin Lutero aveva dato alle stampe un libro dal titolo Contro gli ebrei e le loro menzogne.[24] Questa stanzialità coatta (alla quale, episodicamente, continuarono a seguire massicce espulsioni come quella decretata dal Papa Pio V con la Bolla Hebraeorum gens del 1569) sembra contraddire lo statuto di mobilità, direttamente imposta o generata dall’elusione verso i rigori delle leggi che li colpivano, che per secoli ha accompagnato la storia del popolo ebraico. Ma, in effetti, essa conferma sotto altre spoglie la condizione sempre instabile ed aleatoria dell’esistenza degli ebrei, occasionalmente mitigata da regimi giuridici meno afflittivi ma continuamente esposta ad irrigidimenti e torsioni peggiorative.

 

Dall’universalismo dei diritti all’antisemitismo politico e biologico

L’età delle rivoluzioni europee, dal 1789 al 1848, porta con sé, quasi ovunque, l’emancipazione degli ebrei, ovvero il loro divenire a pieno titolo soggetti di imputazione di diritti (oltre che di obblighi)[25] e la chiusura dei ghetti. Le ragioni che promuovono questo radicale cambiamento di scenario poggiano su basi culturali anche distanti tra loro, di matrice religiosa o laica secondo i casi, che talvolta si mescolano nel medesimo contesto. Progetti di «rigenerazione cristiana» attraversano la società inglese e francese di fine Settecento determinando la riscrittura di un patto inclusivo in cui anche la presenza ebraica può essere vista come «parte di un disegno redentivo».[26] Accanto ad esse, specialmente in Francia, si propagano riflessioni che puntano ad eliminare dallo spazio pubblico le appartenenze religiose ed estromettere dal patto di cittadinanza, in virtù della loro scarsa o nulla negoziabilità, le clausole cognitive e morali che da quelle discendono. Gli ebrei dovrebbero, secondo tale posizione, dismettere le loro credenze e la nuova comunità politica potrebbe accoglierli al suo interno quali cittadini pleno iure, «mentre nessuna concessione viene fatta all’ebraismo in quanto tale».[27] La proclamazione universale dell’uguaglianza dei diritti non vieta, peraltro, a molti illustri esponenti dell’illuminismo francese di coltivare posizioni espressamente antisemite. Questo antisemitismo non si allacciava alla tradizione cristiana ma alla cultura classica – a Tacito, Cicerone, Apione – rinvenendo in essa il biasimo per la tendenza ebraica all’auto-isolamento e per le superstizioni e i costumi ebraici.[28] Comincia così a scavarsi un ulteriore solco metaforico. Infatti, la condizione tramite cui gli ebrei potranno sentirsi parte della comunità nazionale e non più nemici o ospiti malamente tollerati è che essi rinuncino alla loro identità o che, almeno, diano assicurazione che essa non farà velo alla loro lealtà repubblicana. Questo è quanto, dopo gli entusiasmi e le conquiste giuridiche dei primi anni della rivoluzione, chiederà loro Napoleone. Egli convocherà nel 1806 e, nuovamente, nel 1807 un’assemblea di dignitari (denominata ‘assemblea del Sinedrio’) perché solennemente gli ebrei possano chiarire la loro posizione rispetto alla Francia. Nel 1808 cercherà con una legge, non giunta in porto e definita degli ebrei décret infame, di limitare loro l’accesso ad alcune professioni.[29] Gradualità e moderazione accompagnano il processo di emancipazione negli Stati tedeschi. Dal 1812 gli ebrei furono dichiarati cittadini prussiani con la facoltà di essere eletti nei consigli comunali, restando loro interdetta ancora a lungo l’assunzione di incarichi statali. Nel 1816, in Baviera le leggi di ‘immatricolazione’ fissarono un tetto massimo di ebrei che potevano essere accettati. Il superamento delle soglie fissate imponeva alle famiglie in eccesso di abbandonare il Paese.[30] Anche in Baviera prima del 1848 gli unici ruoli politici accessibili agli ebrei erano quelli locali.[31] Infine, nella Germania imperiale la Costituzione prussiana prevede distinzioni tra cristiani e non cristiani. Per vedere gli ebrei accedere alle massime cariche dello Stato occorrerà attendere la Repubblica di Weimar.[32]
Il 1848 è un anno importante anche per gli ebrei residenti sul suolo italiano. Dopo le fiammate rivoluzionarie diffuse dalle campagne napoleoniche di fine Settecento e dopo la parentesi reazionaria seguita al Congresso di Vienna, il 17 aprile del 1848 vengono abbattute le mura del ghetto di Roma e degli altri presenti nello Stato pontificio; alcuni mesi dopo, il 19 giugno, nel Regno di Sardegna viene promulgata una legge che stabilisce che la differenza di culto non comporta eccezioni al godimento dei diritti civili e politici e all’ammissione alle cariche civili e militari (concordemente all’articolo 24 dello Statuto per il quale «Tutti i regnicoli […] sono eguali dinanzi alla legge»).[33]
Gli sviluppi del percorso risorgimentale italiano allargano al territorio, man mano crescente, della nazione il riconoscimento che la Carta concessa nel 1848 ai suoi sudditi dal Re di Sardegna aveva offerto agli ebrei.[34] Ma questi, a loro volta, pongono la lealtà all’Italia e la propria auto-identificazione come parte del nascente Stato sul banco di prova delle campagne militari. Tanto arruolandosi come combattenti nelle tre guerre di indipendenza (1848-49, 1859, 1866), che sovvenzionando finanziariamente l’organizzazione delle stesse e sostenendola con la propaganda sui giornali.[35] Un ulteriore elemento concorre a fare degli ebrei cittadini fedeli del nascente Regno d’Italia: il fatto che l’unificazione si compia a dispetto delle pretese temporali del papato e nell’orizzonte, simbolicamente pregnante, dell’annessione di Roma e della fissazione nella città eterna della capitale dello Stato. In particolare, si è osservato che

con l’indirizzo anticlericale assunto dalla politica italiana dopo la presa di Roma del 1870, gli ebrei si sentissero tutelati rispetto al passato e fiduciosi nell’operato dello Stato che li stava includendo a pieno titolo nella costruzione della nazione italiana, dando loro l’opportunità di ricoprire cariche politiche di assoluto prestigio e aprendo tutte le porte dell’amministrazione statale e dell’esercito, grazie anche alla diffusa alfabetizzazione degli ebrei e alla loro appartenenza all’emergente borghesia liberale.[36]

In termini più generali, ma sostanzialmente analoghi, la storiografia ha anche attribuito il successo dell’assimilazione ebraica al tessuto della cittadinanza a due dinamiche convergenti: da un lato, il grado reale di godimento dei diritti da parte di questa minoranza; dall’altro, la volontà politica delle classi dirigenti di scongiurare possibili occasioni di tensione o lacerazione oltre quelle – tra repubblicani e monarchici, cattolici e anticlericali, settentrionali e meridionali[37] – che avevano fatto da sfondo all’unificazione e che, in una non trascurabile misura, avrebbero continuato per anni a renderne aleatori gli esiti di integrazione civile e culturale.[38] In definitiva, fatta l’Italia gli ebrei sono tra i soggetti più coinvolti e tra i più zelanti sostenitori del perfezionamento di questo risultato consistente nel ‘fare gli Italiani’. Tale adesione alle sorti del Paese cammina, tuttavia, su un sentiero accidentato, nel quale capita che si riaffaccino sentimenti di diffidenza. In occasione dell’impresa di Libia essi avranno modo di mostrarsi con caratteristiche che, in epoche successive, saranno riesumate. Nell’ottobre del 1911, Angelo Sereni, presidente della comunità ebraica romana, invia un telegramma agli ebrei tripolini per raccomandare loro di fugare le voci, proditoriamente diffuse, di persecuzioni religiose ai loro danni da parte del governo italiano e assicurare che essi avranno piena uguaglianza di diritti e che, in vista di ciò, dovrebbero unirsi all’auspicio di successo della «missione civilizzatrice» dell’Italia.[39] Ma, nonostante questo e nonostante numerosi ebrei militino tra le fila dei nazionalisti, presso l’opinione pubblica e la stampa si fa strada la tesi che essi coltivino sentimenti antinazionali, che siano collegati a reti politico-finanziarie mondiali, che difendano interessi contrari a quelli della patria e che l’unico nazionalismo nel quale possano riconoscersi sia quello di stampo etnico-religioso che li congiunge ai loro correligionari stranieri.[40]
Il quadro europeo degli atteggiamenti nei confronti degli ebrei risente della varietà di condizioni politiche generali da uno Stato all’altro e del diverso grado di libertà garantite ai cittadini. Nella Russia zarista, in particolar modo nel biennio 1881-1882 successivo all’assassinio dello Zar Alessandro II, si scatena una tra le più massicce e sanguinose ondate di violenza nei confronti degli ebrei. Essi vengono fatti oggetto di numerosi pogrom (vocabolo russo - погром - che significa ‘devastazione’, derivante dal verbo pogromit che significa ‘schiacciare’). Tale termine indica sollevazioni popolari con massacri e saccheggi in cui l’esasperazione dei ceti più deboli della popolazione, contadini e salariati, viene indirizzata contro gli ebrei che fungono da capri espiatori. Tra il 1902 e il 1903, la destra antisemita russa confeziona e fa circolare un falso documento, intitolato Protocolli dei savi di Sion, che serve ad attestare l’esistenza di un complotto ebraico per dominare il mondo. Un libro che, sebbene fasullo e ispirato a una tradizione polemica cospirazionista e antisemita agevolmente tracciabile, ebbe una larga diffusione, e un’assai benevola accoglienza presso le dittature nazista e fascista, nei decenni successivi.[41] Dal 1881 al 1914 circa 2.750.000 ebrei lasciarono l’Europa centrale diretti verso gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, la Gran Bretagna e, un primo nucleo, la Palestina. Circa un terzo della popolazione ebraica residente in Europa si mosse verso destinazioni spesso molto remote. Non un numero impressionante se rapportato al numero totale degli emigranti nella stessa epoca ma, sicuramente, significativo rispetto ai soli ebrei. L’emigrazione ebraica fu, in tal senso, la più intensa e «anche la più coatta».[42]
In Germania, nel 1879 viene pubblicata l’opera di Wilhelm Marr La vittoria dell’ebraismo sul germanesimo. A Marr si attribuisce l’aver coniato il termine ‘antisemitismo’ ed egli è l’ispiratore di una collana di volumi nata nel 1880 e denominata Quaderni antisemiti, alla cui circolazione si affianca, tra 1880 e 1881, la presentazione di una ‘petizione antisemita’ al Parlamento finalizzata a escludere gli ebrei dagli impieghi pubblici, dall’insegnamento scolastico, dalla frequenza delle scuole di grado superiore. Nel 1881, Karl Eugen Dühring, illustre esponente socialista, pubblica il volume La questione ebraica come questione di razza, costume e cultura, nel quale viene formulato un programma di liquidazione radicale dell’ebraismo. Agli ebrei, secondo la sua prospettiva, non andrebbero negati solo i diritti politici ma il diritto stesso all’esistenza a causa di una loro insanabile estraneità biologica che rende velleitario e inutile ogni provvedimento di tipo diverso. Nel 1887, la stessa visione viene sostenuta da Theodor Fritsch nel lavoro Catechismo antisemita. Un testo che sarà ripubblicato negli anni seguenti con il titolo Manuale della questione ebraica e sarà una tra le principali fonti di ispirazione di Adolf Hitler.[43]
In Francia, tra il 1894 e il 1906 si consuma l’‘affare Dreyfus’. Alfred Dreyfus, capitano dell’esercito ed ebreo, viene condannato a una lunga pena detentiva, dopo essere stato degradato e radiato, perché riconosciuto colpevole di tradimento a favore della Germania. Dopo un secondo processo e un provvedimento di clemenza, viene reintegrato nella sua posizione e il caso viene chiuso.[44] Durante il suo svolgimento riemerge la teoria del complotto ebraico e motivi già altrove utilizzati nella polemica antisemita vengono sapientemente attivati. Secondo l’analisi di Hannah Arendt l’intera vicenda «racchiude in sé taluni aspetti essenziali del XX secolo».[45] In essa odio antiebraico e disprezzo per le istituzioni repubblicane e per l’apparato statale convergono. Gli ebrei vengono identificati come segreti manipolatori e burattinai che, facendosi schermo delle procedure rappresentative della democrazia parlamentare, in realtà muovono le leve del potere asservendole ai propri esclusivi interessi. Contro di loro si coagula un fronte politico-culturale trasversale, che abbraccia socialisti e Chiesa cattolica, piccola borghesia e fasce popolari. Tale fronte utilizza un comune vettore semantico, l’antisemitismo, per rafforzare strategie politiche di diversa matrice ma tutte associate dall’idea che il recupero dell’ordine sociale debba passare per il ristabilimento delle basi della nazione sul terreno della purezza etnica e per il ripudio delle influenze occulte (capitalistiche, ebraiche, massoniche) che esercitano sul destino collettivo un’ipoteca non più tollerabile. Con la grazia concessa conclusivamente a Dreyfus si ottiene la sua reintegrazione, ma al prezzo dell’omissione di un accertamento puntuale e solenne della sua innocenza e dell’elaborazione delle ragioni molteplici della sua discesa agli inferi. Il che concorrerà a mantenere in seguito la questione ebraica ai margini della scena pubblica francese.[46]

 

Deportazione e distruzione

Il caso Dreyfus può essere considerato una specie di prova generale dell’uso dell’antisemitismo nell’Europa totalitaria. La saldatura tra ceti e gruppi sociali differenti nella comune contrapposizione a un antagonista non solo religioso ma, anzitutto, biologico e l’utilizzo della plebe come massa d’urto di fronte alla quale viene agitato lo spauracchio di un insidioso nemico interno, parassita e affamatore, sono tutte dinamiche che si riproporranno all’ombra della svastica e del fascio littorio. D’altra parte, un’aria di famiglia collega tra fine Ottocento e inizio Novecento diversi fenomeni sociali che prendono corpo in Europa e che, in vario modo, finiranno per alimentare la propaganda antisemita e, più tardi, il progetto di sradicamento degli ebrei attraverso la deportazione e lo sterminio. 
A partire dal 1887, il medico Philippe Tissié comincia ad annotare le sue osservazioni cliniche sul caso riguardante un operaio della compagnia del gas di Bordeaux di nome Albert Dadas che viaggia ossessivamente. Straniato, molto spesso senza documenti e senza identità egli era a conoscenza solo della sua tappa successiva. Tornando non aveva ricordi e solo sotto ipnosi riusciva a rievocare le sue spedizioni a Mosca, in Algeria, a Costantinopoli. Egli è il primo fuguer della storia della medicina, il primo paziente affetto da una sindrome censita anche nel resto della Francia e poi in Italia, Germania e Russia e da lì in avanti indicata con i nomi di: Wandertrieb, automatisme ambulatoire, determinismo ambulatorio, dromomania, poriomania.[47] Quando sentiva il nome di un posto che non conosceva, Albert Dadas avvertiva il bisogno compulsivo di recarvisi. Nell’arco di pochi anni, tra il 1887 e il 1909, in Francia vengono formulate parecchie diagnosi di questo tenore. Lo stesso avviene in Germania tra il 1898 e il 1914.[48] Molto presto, alle notazioni mediche sul disturbo in oggetto viene associata la classica metafora dell’ebreo errante. Albert Dadas non era ebreo, ma nel 1889 il celebre neurologo francese Jean-Martin Charcot incoraggiò l’associazione tra i due archetipi – quello etnico-religioso tratto dalla storia e quello clinico tratto dall’osservazione empirica – descrivendo il caso di un giovane ebreo ungherese di nome Klein che per tre anni aveva viaggiato instancabilmente attraverso l’Europa, affrontando proibitive condizioni climatiche e riempiendosi i piedi di piaghe.[49] L’emergenza di una sindrome da vagabondaggio compulsivo coincide cronologicamente con la fuga degli ebrei dall’Est europeo ma la leggibilità del nomadismo ebraico come effetto di un’anomalia mentale, peraltro geneticamente propagatasi all’interno di un ceppo in cui l’endogamia era pratica consueta, forniva ottimi argomenti alla stampa antisemita. Charcot utilizzava gli ebrei regolarmente nelle sue conferenze e sottolineava che erano ebrei, in accordo con lo spirito scientifico del tempo che coniugava la ricorsività delle patologie al comune sostrato ereditario di coloro che ne erano affetti. Questo luminare assemblò, non senza spregiudicatezza, tre fenomeni: »il vagabondaggio, i profughi dell’est e la malattia mentale dell’ebreo».[50] L’ebreo errante non si manifestava come un semplice attore sociale portatore di una storia complessa e spesso dolorosa, ma, in maniera più inquietante, come il latore di un morbo e di un possibile contagio.[51]
 

Nel campo degli studi giuridici, sin dai primi anni dell’Ottocento si afferma, prevalentemente in Germania, un orientamento dottrinale che punta a valorizzare, reattivamente rispetto all’universalismo astratto dei Codici, le tradizioni locali, la cultura, la lingua, il folklore. Il diritto deve, secondo tale visione, essere capace di esprimere il Volksgeist, ovvero lo spirito del popolo. Si trattava, secondo questo indirizzo che ha avuto nei giuristi tedeschi Friedrich Carl von Savigny e Georg Friedrich Puchta i suoi massimi esponenti, di andare alle radici locali della tradizione giuridica, di connettere il diritto alla linfa spirituale che attraversa e dà vita al ‘corpo’ di una comunità, di valorizzare gli elementi regolativi di derivazione consuetudinaria.[52] Questa sensibilità si ritrova in autori coevi o successivi che si sono dedicati, da prospettive complementari, a temi concernenti la dottrina dello Stato. L’economista e politologo tedesco Adam Müller, tra il 1809 e il 1812, scrive che lo Stato è una sorta di macro-individuo che ricomprende la totalità dei singoli individui. Ma li ricomprende non come somma, bensì come sintesi fondata da leggi storiche di composizione che riposano sull’unità linguistica, culturale e religiosa. Nel 1885, occupandosi di Diritto privato tedesco, il giurista Otto von Gierke si riferisce allo Stato come a un’entità dotata di vita globale unitaria recante in se stessa il proprio scopo. Il sociologo e politologo svedese Rudolf Kjellèn, nell’opera Lo Stato come forma di vita pubblicata nel 1916, descrive lo Stato come un organismo che ha un ciclo vitale e tendenze di sviluppo. Analogamente si esprimono autori come Richard Schmidt o Oscar Hertwig. A tutti costoro è comune l’idea che le leggi di funzionamento dell’eco-sistema fisico che formano il campo di studi della biologia possano rintracciarsi nella società umana, la cui organizzazione politica e giuridica asseconda primigenie meccaniche naturali.[53] Infine, una disciplina il cui nome, eugenica (o eugenetica) viene coniato nel 1883 da Francis Galton (esploratore e climatologo, nonché cugino di Charles Darwin), si affaccia al mondo del sapere per migliorare biologicamente la qualità della specie umana favorendo alcune pratiche di profilassi ma anche inibendo la riproduzione dei ‘meno adatti’, quando non addirittura formulando l’ipotesi di una loro soppressione seriale.[54]
Resta da stabilire quale catalizzatore politico abbia massimizzato gli effetti di tale insieme di distinti fenomeni, sia pure accomunati dal poter virtualmente preparare il terreno a un successivo progetto di marcata esclusione degli ebrei europei dal patto di cittadinanza e, più avanti, di aperta persecuzione e soppressione. Nel suo capolavoro Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt cerca di rispondere alla domanda sul perché e come una questione come l’antisemitismo, sebbene radicata e trasversale, comunque quantitativamente marginale rispetto alla stragrande maggioranza dei cittadini tedeschi ed europei, sia divenuta la miccia che ha innescato i congegni dell’infernale apparato totalitario. Storicamente, afferma la Arendt, l’ebraismo diventa un bersaglio quando esso ha ceduto larga parte del suo potere. Nella fase iniziale di edificazione dello Stato moderno come ‘Stato-impresa’, ovvero come macchina che deve coordinare un costosissimo sistema amministrativo e militare, gli ebrei lavorano da finanziatori dello Stato in cambio dell’uguaglianza giuridica. Sul finire del XIX secolo, questo ruolo era divenuto meno rilevante ma gli ebrei, in virtù della loro diffusione, avevano mantenuto importanti relazioni internazionali. Tuttavia, la prima guerra mondiale scardina questo assetto, giacché le relazioni internazionali conservano utilità diplomatica nel caso in cui l’orizzonte successivo ai conflitti sia la pace. Quando l’ideologia dell’annientamento totale e dell’espansione imperialistica prende il posto del concerto delle nazioni, l’utilità delle reti internazionali viene meno.[55] Non casualmente uno dei primi obiettivi dei partiti politici antisemiti fu la distruzione, in chiave parossisticamente espansionistica, del vecchio sistema degli Stati nazionali.[56] Altra questione generata dalla prima guerra mondiale e carica di potenzialità destabilizzanti è quella riguardante le minoranze nazionali. I Trattati di pace disegnano un continente in cui diverse entità statuali (come la Jugoslavia o la Cecoslovacchia) ospitano popoli diversi. Le minoranze si consideravano arbitrariamente asservite alle maggioranze e queste si sentivano gravate dal peso di doverne rispettare i diritti sulla base di un’imposizione internazionale che non accettavano. Il destino dei gruppi allogeni all’interno di uno Stato oscillava tra l’essere assimilati, ovvero sotterrare le proprie origini etniche, o essere liquidati. Parallela e consequenziale a quella delle minoranze si sviluppa la questione degli apolidi. La condizione di apolide deriva dalla revoca della pregressa naturalizzazione per mancanza di attaccamento al Paese adottivo o per l’appartenenza a una minoranza etnico-religiosa. Essa investe milioni di individui nell’Europa tra le due guerre e non c’è maggior paradosso che osservare, secondo Hannah Arendt, che gli ‘inalienabili’ diritti umani in realtà sono accessibili solo per i cittadini dei Paesi prosperi e civili, laddove le minoranze che andavano progressivamente ingrossando il fiume degli apolidi non erano poste al riparo da alcuno status internazionalmente garantito, visto che in nessun caso esso avrebbe potuto «sostituire il territorio dove cacciare uno straniero indesiderato».[57] Gli ebrei ebbero un ruolo di prim’ordine nella storia della ‘nazione delle minoranze’ come anche nella formazione dell’esercito degli apolidi. Essi furono considerati la minorité par excellence, cioè la sola i cui interessi potessero essere tutelati sul piano internazionale[58] ed è paradigmatico di quanto questa tutela fosse tutt’altro che cogente il trattamento reale che gli ebrei ricevettero.
Con l’avvento al potere del nazismo in Germania, e nel corso della guerra nei territori da essa occupati, la vita degli ebrei europei viene esposta al massimo livello di pericolo e di offesa. L’ideologia nazista coltiva apertamente, e dai primi anni della sua diffusione, il disegno di costruire uno spazio Judenrein, ossia ‘bonificato’ dalla presenza di ebrei. L’ebreo contamina con il suo sangue la salute della razza germanica e la espone a un’inesorabile degenerazione. La rinascita della Germania, sconfitta nella prima guerra mondiale e afflitta da Trattati di pace vessatori, passa per la salvaguardia di una comunità biologicamente omogenea. In essa l’idea che cittadino possa essere chiunque viene considerata un’anticaglia liberale alla quale va opposta una perentoria sovrapposizione tra identità biologica e inclusione nella comunità popolare (Volksgemeinschaft).[59]
Le modalità con cui questo obiettivo viene perseguito variano nel senso di un progressivo irrigidimento. Negli anni dal 1933 al 1938 – anni nei quali i diritti personali e patrimoniali degli ebrei vengono fortemente compressi dalla legge sul pubblico impiego del 1933 e dalle ‘leggi di Norimberga’ del 1935 –, la Germania nazista condivide un accordo con l’Yishuv – l’insediamento ebraico in Palestina – ai sensi del quale chi fosse emigrato avrebbe potuto trasferire il suo denaro in forma di beni tedeschi che sarebbero stati riconvertiti in sterline[60] all’arrivo.[61] Tale accordo nasceva dalla complementarietà di interessi tra nazismo e sionismo: il primo voleva cacciare gli ebrei dalla Germania, il secondo voleva accoglierli in Palestina. Tra il 1933 e il 1937, con l’accordo per il trasferimento (Haavara) stipulato tra l’Agenzia ebraica (organo di governo dell’Yishuv, guidato da Ben Gurion) e lo Stato nazista circa 450.000 ebrei giunsero in Palestina.[62] Questa era un luogo in cui, ancora nel 1941, si pubblicavano giornali in lingua tedesca, linee telefoniche e postali collegavano la Germania e persino il Ministro degli Interni tedesco Frick vi aveva trascorso la sua luna di miele. I lavoratori trasferitisi in Palestina dalla Germania continuavano a ricevere la pensione.[63]
La possibilità di risolvere la questione ebraica attraverso un massiccio trasferimento di persone occupò l’orizzonte operativo delle autorità tedesche per alcuni anni, anche durante la guerra. Inizialmente, tra settembre e ottobre 1939, con il ‘Piano Nisko’ si provò a deportare gli ebrei verso la Polonia ma i primi afflussi crearono qualche attrito con l’Unione Sovietica e, soprattutto, si impose la necessità di reperire spazi per il reinsediamento dei ‘tedeschi etnici’ provenienti dagli Stati balitici. Così, questo programma fu rapidamente accantonato.[64] Qualche mese più tardi, le autorità tedesche studiarono la possibilità di deportare gli ebrei in Madagascar. Nel giugno 1940 la sconfitta della Francia e l’ipotesi di un’imminente sconfitta dell’Inghilterra deponevano nel senso della prossima disponibilità di un ampio possedimento coloniale e di una robusta flotta mercantile con la quale effettuare il trasporto. Sfumata la prospettiva di un rapido successo bellico, verso dicembre 1940 anche il ‘piano Madagascar’ venne accantonato. Nondimeno, dato che questo progetto avrebbe verosimilmente avuto implicazioni genocidiarie, esso rappresentò un importante passo avanti psicologico verso la soluzione finale;[65] che tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942 cominciò a essere praticata con l’invio continuo di convogli ferroviari verso i campi di sterminio e l’uccisione in massa dei deportati.[66]

Nel quadro variegato dell’ebraismo europeo, quello italiano si segnala per un elevato grado di assimilazione. Il fascismo fa i conti con la questione razziale relativamente tardi rispetto alla sua conquista del potere e ancora nella seconda metà degli anni trenta, un docente ebreo di Diritto internazionale presso l’università di Ferrara può scrivere un articolo entusiastico sulla debellatio dell’Etiopia e sull’alta missione civilizzatrice che attende il popolo italiano venuto a tirar fuori i miseri indigeni dalla loro barbarie.[67] La gradualità, e forse anche il carattere cinicamente opportunistico, dell’emersione politica della questione ebraica in Italia non devono, però, trarre in inganno sulle modalità drastiche con cui essa venne trattata. Analogamente agli ebrei tedeschi e a quelli dei Paesi occupati, gli ebrei italiani vennero colpiti con fortissime limitazioni personali e patrimoniali. Inoltre, nel 1940, due circolari del Ministero dell’Interno stabilirono che si compilasse un elenco di ebrei da internare. Si trattava essenzialmente di dissidenti politici (se italiani) o di ebrei stranieri. Nel 1938 le leggi razziali avevano stabilito che tutti gli ebrei stranieri dovessero essere espulsi e che venisse revocata la cittadinanza italiana a quanti l’avevano ottenuta dopo il 1919. Dunque, nel 1940 si procedette all’arresto di ebrei stranieri che giungevano in Italia come profughi di Paesi dove si praticava una politica razziale (Germania, Austria, Francia), degli ebrei italiani divenuti apolidi dopo le leggi razziali e degli ebrei italiani ritenuti politicamente più pericolosi. In tutto vi furono circa 4000 internati distribuiti in circa 40 campi. Altri 4000 giunsero tra il 1940 e il 1942 dalle zone della ex-Jugoslavia occupate dalle truppe italiane.[68] A questa esperienza dei campi, alcune migliaia di ebrei ne aggiunsero una, smisuratamente più dolorosa, quando vennero deportati verso Auschwitz o destinazioni simili in seguito all’armistizio e alla fondazione della Repubblica sociale italiana. Per molti di loro, un viaggio senza ritorno.[69]

 

Il ritorno

Gran parte della storia del popolo ebraico, qui sommariamente rievocata, si svolge a distanza dalla terra dei Padri, Eretz Israel, la terra di Israele che, secondo la Bibbia, Yahweh promise ad Abramo, Isacco, Giaccobbe e ai loro discendenti. Durante la festa di Pasqua (Pesach), gli ebrei della diaspora si salutano con l’augurio: «L’anno prossimo a Gerusalemme» (Hashanà haba’a b’Yrushalayim). Esso esprime, ad un tempo, la nostalgia verso le proprie radici e la fede nel fatto che tale desiderio di ricongiunzione e riconciliazione non potrà che essere soddisfatto, giacché è il Signore che l’ha promesso.[70]
L’esperienza della diaspora è stata vissuta per un incalcolabile numero di ebrei nel segno dell’ostilità molto più che dell’ospitalità. Anche nei luoghi in cui una lunga permanenza avrebbe potuto assicurare più stabili condizioni di assimilazione o tolleranza, la vita degli ebrei si è mostrata esposta, più di quella di ogni altra comunità, al riaffiorare intermittente del rifiuto, del sospetto e dell’odio. Tale precarietà ha favorito il formarsi, sul finire dell’Ottocento, di una corrente di idee che ha visto nel ritorno alla terra di Israele la sola scelta possibile per gli ebrei. Nel 1896, nel pieno dell’affare Dreyfus, Theodor Herzl, avvocato e giornalista ungherese di lingua tedesca, pubblica un libro intitolato Lo Stato ebraico. Tentativo di una soluzione moderna al problema ebraico. L’idea che vi si formula, ovvero che gli ebrei debbano poter vivere in una loro nazione, al riparo dalle molestie e violenze degli altri popoli, non è totalmente nuova[71] ma gode di un’attenzione più elevata grazie agli eventi che le fanno da cornice. Nel 1897 a Basilea si svolge il primo Congresso dell’Organizzazione sionista mondiale che ha come programma il ritorno degli ebrei in Israele, la rinascita della vita nazionale ebraica e la costruzione per gli ebrei sparsi nel mondo di una dimora che sia legalmente riconosciuta e sicura. Si trattava, finalmente, di edificare un’entità collettiva ebraica nel territorio che era stato la culla della storia degli ebrei e come tale era un elemento insostituibile nella coscienza collettiva dei medesimi. Il sionismo «si considerava portatore di una ricostruzione rivoluzionaria dell’identità ebraica».[72] Ma questa rivoluzione si annuncia attraverso il recupero di mattoni tradizionali dell’identità ebraica, sia pure declinati in termini secolari, che sono identificabili nella triade messianica: esilio, ritorno, redenzione. Qui si forma un primo nucleo di tensione «fra la dimensione pragmatico-politica e quella escatologica della visione messianica».[73] Un secondo campo critico si condensa intorno al rapporto con la diaspora. Infatti, se da un lato il sionismo si candida a rovesciare, e riscattare, la diaspora con la rifondazione della nazione ebraica in Eretz Israel e ad abolire la sottomissione politica che di essa era stata un plurisecolare corollario, da un altro lato, come movimento, esso ha anche vincoli di dipendenza con l’ebraismo della diaspora. Una mediazione tra queste posizioni consiste nel ritenere che anche con il ritorno alla terra dei Padri, nel mondo sarebbero sopravvissute comunità diasporiche che avrebbero guardato a quella terra come a un centro di illuminazione spirituale.[74] Ma ulteriori tensioni emersero tra il carattere particolaristico della visione sionista cui corrisponde la solidarietà rivolta dai propugnatori dello Stato d’Israele solo ai propri correligionari e l’ambizione a porsi come una nazione tra le nazioni, il dilemma tra il voler essere una nazione normale e il non poter non essere una nazione speciale.[75] Infine, il progetto sionista incontra l’opposizione di una parte, la componente ultra-ortodossa, dei settori religiosi del mondo ebraico. Giacché in questi si giudica alla stregua di un’usurpazione la derubricazione in chiave secolare delle promesse messianiche e la possibilità di ottenere la redenzione nel presente.[76]
Ma a questi ostacoli di natura storico-culturale se ne sono presto associati altri di carattere più prosaicamente politico. Il territorio interessato dalla propaganda sionista era abitato e, in più, rivestiva un rilevante valore strategico per gli Stati confinanti e per l’Europa. Per tale ragione, nel 1903, il Governo britannico propone a Herzl, che ne discute lo stesso anno nel corso del sesto congresso dell’Organizzazione sionista, di creare un insediamento in Uganda, in modo da non intaccare gli interessi dei Paesi arabi e della Turchia in Medio Oriente. Nel 1905 una massa di migranti in fuga dalla Russia, dopo il fallito tentativo rivoluzionario, raggiunge la Palestina e nel 1909 viene fondato il primo Kibbutz. Nel 1917 il Ministro degli Esteri inglese Balfour fa una dichiarazione in cui riconosce il legame storico tra ebrei e Palestina e impegna la Gran Bretagna a sostenere l’insediamento di un ‘focolare nazionale’ ebraico. Questo progetto viene ratificato dalla Società delle Nazioni nel 1922. Nel 1929 la popolazione ebraica in Palestina tocca le 160.000 unità. Questa progressione non fu, affatto, semplice o pacifica. I residenti arabi della Palestina arrivarono più volte allo scontro militare con gli immigrati ebrei e nei periodi dal 1919 al 1921 e dal 1936 al 1939 tali scontri ebbero una particolare intensità.[77]

Dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, cominciò la seconda ondata dell’Aliyah, il ritorno, che nei tre anni successivi condusse in Palestina oltre 70.000 profughi. Ma anche questa fase fu caratterizzata da un alto tasso di conflittualità. Anzitutto perché gli Inglesi non liberarono la Palestina e ingaggiarono una dura lotta armata con gli ebrei. Nel corso di essa accadde anche che una nave denominata Exodus, con a bordo 4500 superstiti dei campi di sterminio, venisse fatta oggetto di uno speronamento della Marina inglese che fece morti e feriti. Un episodio che destò scalpore e indignazione nel mondo intero.[78]  Alla fine del 1947 si giunse al voto sulla risoluzione 181 delle Nazioni Unite che assegnò allo Stato ebraico il 55 per cento della Palestina, con una popolazione israelita di circa 500.000 persone e una minoranza araba prossima alle 400.000. La risoluzione passò con il voto contrario dei Paesi arabi e musulmani, che ne contestarono la legittimità e il fatto che elevasse eccessivamente la porzione di territorio ebraico, fino ad allora intorno al 7 per cento. A coloro che l’avevano promossa e votata era chiaro che la soluzione che generava andasse intesa come una sorta di risarcimento da parte delle nazioni che non avevano scongiurato, né fermato durante il suo svolgimento,[79] la Shoah. Ma anche gli Arabi, dal canto loro, si chiedevano perché dovessero pagare il costo di un evento tragico nel quale non avevano giocato alcun ruolo.[80] Il 14 maggio 1948 gli Inglesi lasciarono definitivamente la Palestina. Il 15 maggio, le forze della ‘Lega Araba’ (Egitto, Siria, Libano, Iraq, Transgiordania) invasero il neonato Stato d’Israele, inaugurando un copione che si sarebbe ripetuto con macabra regolarità più volte nei decenni successivi.

Già pochi anni dopo la fondazione dello Stato, una vicenda giudiziaria conduce la coscienza collettiva israeliana a fare i conti con alcuni nodi della propria memoria spirituale. La ‘legge del ritorno’ del 6 luglio 1950 e la legge sulla cittadinanza dell’8 aprile 1952 affermano rispettivamente che: «ogni ebreo che esprima il desiderio di stabilirsi in Israele ha diritto ad ottenere il visto, a meno che il Ministero dell’Interno sia convinto che il richiedente eserciti un’attività contro il popolo ebraico o possa compromettere la salute pubblica o la sicurezza dello Stato o abbia dei precedenti penali che possano renderlo pericoloso per la sicurezza pubblica» e che «la cittadinanza israeliana si acquista in virtù del ritorno, per residenza in Israele, per nascita, per naturalizzazione». Nei primi anni sessanta, Oswald Rufesein, nato in Polonia nel 1922 da famiglia ebraica, porta il suo caso al cospetto della Corte Suprema di Gerusalemme. Durante la guerra egli aveva svolto attività a favore di ebrei per le quali era stato arrestato due volte dalla Gestapo, riuscendo ad evadere in entrambe. Nel 1942, durante un soggiorno in un monastero, si convertì al cristianesimo e nel 1945 divenne frate carmelitano. Nel 1958, arrivato in Israele, chiese un certificato di immigrazione secondo la ‘legge del ritorno’ e la menzione di ebreo sulla carta di identità. Richieste rigettate in base a una decisione governativa del luglio di quell’anno che stabiliva che si potesse registrare come ebreo chi non appartenesse ad altra religione. Ora la Corte Suprema doveva decidere cosa significasse esattamente ‘essere ebreo’ e in quale sede testuale – giuridica, religiosa o dottrinale – si potesse rinvenire una definizione che desse corpo a tale profilo identitario. La questione appariva particolarmente insidiosa giacché secondo la legge rabbinica anche un apostata, e pertanto anche un convertito al cristianesimo, si sarebbe dovuto considerare ebreo a pieno titolo. Tuttavia, la maggioranza dei giudici, che decide nel senso del rifiuto della richiesta del ricorrente, ritiene si debba sgombrare il terreno dalle coordinate della legge rabbinica e valutare il caso alla luce della storia ebraica. È questa storia, e in particolare l’oppressione dei cristiani verso gli ebrei che l’ha a lungo abitata, che impedisce di poter concepire una qualunque conciliabilità tra identità cristiana ed ebraismo. Essa esclude che un cristiano, per quanto animato dai sentimenti più limpidi, possa avere con lo Stato ebraico quell’intima e profonda immedesimazione che solo un ebreo autentico, capace di dare valore alla coppa di amarezze bevute sino alla feccia dal suo popolo, può avere. La storia, dunque, decide chi è ebreo. Ma, singolarmente, anche l’opinione minoritaria del giudice che dissente dal verdetto dei suoi colleghi ricorre all’argomento storico. Sebbene sia vero, afferma tale tesi, che la Chiesa ha condotto una guerra totale all’ebraismo che, puntando al suo annientamento spirituale, ne ha favorito l’annientamento fisico, essa non è legata al proprio passato da maglie immobilizzanti e chi fa parte dei suoi ordini, non per questo sconta su di sé i suoi errori o crimini storici. La storia, al contrario, è trasformazione di epoche e concetti, sviluppo di pensiero e civiltà e miglioramento di modi di vita. La storia, dunque, decide chi è ebreo.[81]

Ma, proprio come la storia, ebreo è ‘colui che passa’.

 

 

[1] Cfr. R. Calimani, Storia dell’ebreo errante. Dalla distruzione del tempio di Gerusalemme al Novecento, Milano, Mondadori, 2003, p. 7.

[2] M. Brenner, Breve storia degli ebrei (2008), Roma, Donzelli, 2009, p. 3.

[3]  C. Roth, Storia del popolo ebraico. Quattromila anni da Abramo allo Stato di Israele (1935), Milano, Res Gestae, 2013, p. 19.

[4] Nell’accezione di ‘legge scritta’ o Torah Shebichtav, che si suole far corrispondere a quanto nella successiva tradizione cristiana sulla materia vetero-testamentaria si indica con il termine ‘Pentateuco’.

[5]  Cfr. H. Küng, Ebraismo. Passato, presente, futuro (1991), Milano, Rizzoli, 1999, pp. 58–62. Ancora nel 1961, durante il ‘processo Eichmann’, il Procuratore Gideon Hausner, nella sua relazione introduttiva, istituirà un collegamento tra i dolori patiti dal popolo ebraico nell’antichità e lo sterminio perpetrato dai nazisti. Cfr. G. Hausner, Sei milioni di accusatori: la relazione introduttiva del procuratore generale al processo Eichmann, introduzione di S. Levis Sullam, con un saggio di A. Galante Garrone, Torino, Einaudi, 2010.

[6] C. Roth, Storia, cit., p. 87.

[7] Dt 28, 64. Cfr. S. Sand, L’invenzione del popolo ebraico (2008), Milano, Rizzoli, 2010, pp. 199-285.

[8] Cfr. H. Küng, Ebraismo, cit., pp. 164–172.

[9] E. Fromm, La legge degli Ebrei. Sociologia della diaspora (1922), a cura di R. Funk e B. Sahler, Milano, Rusconi, 1993, p. 11.

[10] Cfr. H. Küng, Ebraismo, cit., pp. 172-176.

[11] Ma già nel 306 il Sinodo di Elvira aveva stabilito il divieto di matrimoni misti tra cristiani ed ebrei e nel 350 il Concilio di Laodicea proibì i pasti comuni e vietò ai cristiani di celebrare il Sabato con gli ebrei o di ricevere regali in occasione delle loro feste. Cfr., R. Calimani, Storia del pregiudizio antiebraico. Antigiudaismo, antisemitismo, antisionismo, Milano, Mondadori, 2007, p. 44.

[12] Cfr. R. Calimani, Storia, cit., pp. 48-51.

[13] Cfr. S. Friedländer, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1999, I, p. 10.

[14] Cfr. E. Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, Milano, Mondadori, 1990; S. Levi Della Torre, Errare e perseverare. Ambiguità di un giubileo, Milano, Donzelli, 2000; D. Menozzi, Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita tra liturgia e storia, Bologna, Il Mulino, 2014.

[15] V. Colorni, Gli Ebrei nel sistema del diritto comune fino alla prima emancipazione, Milano, Giuffré, 1956, p. 23.

[16] Ivi, p. 29.

[17] A. Prosperi, Incontri rituali: il papa e gli ebrei, in Storia d’Italia, Annali 11, C. Vivanti (a cura di), Gli Ebrei in Italia, vol. I, Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti, Torino, Einaudi, 1996, p. 515

[18] L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo (1955), vol. I, Da Cristo agli Ebrei di corte, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 75.

[19] Cfr. S. Schama, La storia degli ebrei. In cerca della parole. Dalle origini al 1492 (2013), Milano, Mondadori, 2014, pp. 423–431; M. Caffiero, Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria, Torino, Einaudi, 2012, pp. 41-42.

[20] Cfr. W. Naphy, A. Spicer, La peste in Europa (2002), Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 52-56; M. Caffiero, Legami pericolosi, cit., pp. 301-305; R. Calimani, Storia dell’ebreo errante, cit., pp. 163-176.

[21] Cfr. F. Renda, La fine del giudaismo siciliano, Palermo, Sellerio, 1993, pp. 78-103; S. Simonsohn, Tra Scilla e Cariddi. Storia degli ebrei in Sicilia, Roma, Viella, 2011, pp. 453-497.

[22] Cfr. C. Roth, Storia del popolo ebraico, cit., pp. 454-476.

[23] Cfr. V. Colorni, Ghetto, in «Novissimo Digesto Italiano», VII, Torino, Utet, 1957, pp. 830-831.

[24] Cfr. L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, vol. I, cit., p. 227.

[25] Cfr. E. Capuzzo, Le cornici giuridiche dell’emancipazione ebraica, in F. Sofia e M. Toscano (a cura di), Stato nazionale ed emancipazione ebraica, Roma, Bonacci, 1992, pp. 91-104.

[26] D. Bidussa, S. Levis Sullam, Alle origini dell’antisemitismo moderno, in Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, I, M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso (a cura di), La crisi dell’Europa: le origini e il contesto, Torino, Utet, 2005, p. 83.

[27] Ivi, p. 84.

[28] Cfr. M. Brenner, Breve storia, cit., pp. 154–155.

[29] Ivi, pp. 155–156.

[30] Ivi, p. 157.

[31] Ivi, p. 161.

[32] Cfr. M. Brenner, Gli ebrei europei alla vigilia della catastrofe, in Storia della Shoah, cit., p. 502.

[33] Cfr. A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1963, pp. 361-362.

[34] Cfr. M. Nani, Le frontiere della cittadinanza liberale. Diritto, esclusione e razzismo, in M. Flores, S. Levis Sullam, M.-A. Matard Bonucci, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni, vol. I, Le premesse, le persecuzioni, lo sterminio (a cura di), Torino, Utet, 2010, pp. 98-104.

[35] Cfr. T. Catalan, Ebrei e nazione dall’emancipazione alla crisi di fine secolo, in Storia della Shoah in Italia, cit., pp. 18-19.

[36] Ivi, p. 20.

[37] Per un approfondimento su tali temi si vedano M. Isnenghi, Breve storia dell’Italia unita a uso dei perplessi, Milano, Rizzoli, 1998; Id., Storia d’Italia: i fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo, Roma-Bari, Laterza, 2011.

[38] Cfr. R. Finzi, Gli ebrei nella società italiana dall’Unità al fascismo, in «Il Ponte», XXXIV, 11-12, 1978, p. 1392.

[39] Cfr. S. Caviglia, L’identità salvata. Gli ebrei di Roma tra fede e nazione. 1870–1938, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 145-146.

[40] Ivi, pp. 140-141.

[41] Cfr. D. Bidussa, S. Levis Sullam, Alle origini, cit., pp. 88-90 e 95-99. Sui Protocolli, più diffusamente, N. Cohn, Licenza per un genocidio. I «Protocolli dei savi Anziani di Sion» e il mito della cospirazione ebraica (1967), Roma, Castelvecchi, 2015;2 W. Benz, I protocolli dei savi di Sion. La leggenda del complotto mondiale ebraico (2007), a cura di A. Gilardoni, V. Pisanty, Milano, Mimesis, 2009.

[42] R. Calimani, Storia dell’ebreo errante, cit., p. 428.

[43] Cfr. D. Bidussa, S. Levis Sullam, Alle origini, cit., pp. 90-92.

[44] Ivi, pp. 94-95.

[45] H. Arendt, Le origini del totalitarismo (19664), Torino, Edizioni di Comunità, 19993, p. 130.

[46] Ivi, pp. 132-168.

[47] Cfr. I. Hacking, I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dadas (1998), Roma, Carocci, 2000, p. 17.

[48] Ivi, p. 145.

[49] Ivi, pp. 125-126.

[50] Ivi, p. 131.

[51] Cfr. J. Goldstein, The wandering jew and the problem of psychiatric anti-semitism in fin-de-siècle France, in «Journal of contemporary history», 20, 4, 1985, pp. 521-552. Sugli stereotipi denigratori nei confronti dell’ebraismo e la formazione di un archivio concettuale della discriminazione, si vedano: F. Germinario, Costruire la razza nemica. La formazione dell’immaginario antisemita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, Torino, Utet, 2010; Id., Argomenti per lo sterminio. Stereotipi dell’immaginario antisemita, Torino, Einaudi, 2011.

[52] Cfr. A. M. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo (1999), Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 245-249.

[53] Cfr. P. Badura, I metodi della nuova dottrina generale dello Stato (1959), Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp. 138-148.

[54] Cfr. F. Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; E. De Cristofaro, C. Saletti (a cura di), Precursori dello sterminio. Binding e Hoche all’origine dell’’eutanasia’ dei malati di mente in Germania, Verona, Ombre corte, 2012. Importante anche il monologo teatrale di M. Paolini, Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, Torino, Einaudi, 2014.

[55] Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 15-41 e 170-187.

[56] Ivi, p. 55. Molto lucide e dense in proposito le pagine di B. Maj, Rileggendo Hannah Arendt: il nesso logico-storico fra antisemitismo e totalitarismo, in F. Migliorino (a cura di), Scarti di umanità. Riflessioni su razzismo e antisemitismo, Genova, Il Melangolo, 2010, pp. 67-85.

[57] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 394.

[58] Ivi, p. 401. Si veda anche E. Vitale, Ius migrandi. Figure di erranti al di qua della cosmopoli, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 57-58. Su apolidia e minoranze, A. Venturini, L’apolidia, in «Rivista di diritto internazionale», XXXII, 1940, pp. 379-422; G. Biscottini, Sulla condizione giuridica del Protettorato di Boemia e Moravia, in «Rivista di diritto internazionale», XXXIII, 1941, pp. 379-384.

[59] Cfr. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4. L’età dei totalitarismi e della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 274-282 e 347-354.

[60] Essendo tale territorio sottoposto a mandato britannico dal 1920 al 1948. Per approfondimenti si vedano K. Stein, The land question in Palestine 1917-1939, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1985; I. Pappè, Storia della Palestina moderna. Una terra due popoli (2004), Torino, Einaudi, 20152.

[61] Cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Milano, Feltrinelli, 2001, p. 68.

[62] Cfr. A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 20112, p. 167.

[63] Cfr. T. Segev, Il settimo milione. Come l’olocausto ha segnato la storia d’Israele (1991), Milano, Mondadori, 2001, pp. 16-19.

[64] Cfr. R. Browning, Le origini della soluzione finale. L’evoluzione della politica antiebraica del nazismo. Settembre 1939-marzo 1942 (2004), Milano, Il Saggiatore, 2008, pp. 50-57.

[65] Ivi, pp. 95-102.

[66] Può essere interessante osservare che nel lessico della burocrazia tedesca, la deportazione degli ebrei viene spesso indicata con il termine apparentemente neutro ed asettico Abwanderung. Esso, tuttavia, differisce da un altro termine utilizzato per descrivere l’emigrazione che è Auswanderung. La differenza consiste nel fatto che il primo dei due lemmi indica una partenza coatta, con impossibilità di ritorno. Il prefisso Ab sottolinea generalmente una perdita (di status, capacità, diritti). Cfr. E. De Cristofaro, Le pagine macchiate del camerata Stuckhart. Frammenti di storia europea tra le carte di un giurista nazista, in «Materiali per una storia della cultura giuridica»,  XXXVII, 2, 2007, pp. 543-558.

[67] Cfr. A. P. Sereni, La fine del conflitto italo-etiopico e il diritto internazionale, in «Rivista di diritto internazionale», XXVIII, 1936, pp. 404-436. Lo stesso autore, emigrato negli Stati Uniti dopo le leggi razziali del 1938, darà un giudizio assai più critico della politica estera fascista nel volume The italian conception of international law, New York, Columbia University Press, 1943.

[68] Cfr. C. S. Capogreco, L’internamento degli ebrei stranieri ed apolidi dal 1940 al 1943: il caso di Ferramonti-Tarsia, in Italia Judaica. Gli ebrei nell’Italia unita 1870-1945, Atti del IV convegno internazionale, Siena 12-12 giugno 1989, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma, 1993, pp. 533-563.

[69] Cfr. M. Pezzetti, Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto, Torino, Einaudi, 20152; S. Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei 1943-1945, Milano, Feltrinelli, 20162.. Sulle interpretazioni teologiche della Shoah si veda M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie dell’Olocausto», Brescia, Morcelliana, 1998.

[70] Cfr. H. Cox, Le feste degli ebrei. Il viaggio di un teologo cristiano attraverso l’anno liturgico ebraico (2001), Milano, Mondadori, 2003, pp. 137-159.

[71] Autori come Moses Hess o Leon Pinsker avevano già posto il problema in termini analoghi. Cfr., S. Avineri, The making of modern zionism: the intellectual origins of the Jewish state, New York, Basic Books, 1981; Id., Moses Hess: prophet of communism and zionism, New York-London, New York University Press, 1985; M. Brenner, Breve storia del sionismo (2002), Roma-Bari, Laterza, 2003.

[72] S. Eisenstadt, Civiltà ebraica. L’esperienza storica degli ebrei in una prospettiva comparativa (1992), Roma, Donzelli, 1993, p. 167.

[73] Ivi, p. 176.

[74] Ivi, pp. 177-181.

[75] Ivi, p. 179.

[76] Ivi, p. 182.

[77] Cfr. B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001 (1999), Milano, Rizzoli, 2001, pp. 13-141; A. Shlaim, Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo (1999), Bologna, il Ponte, 2003, pp. 25-51.

[78] Cfr. A. Foa, Diaspora, cit., pp. 174-175; A. Sereni, I clandestini del mare. L’emigrazione ebraica in terra d’Israele dal 1945 al 1948, Milano, Mursia, 1973.

[79] Cfr. T. S. Hamerow, Perché l’Olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all’orrore nazista (2008), Milano, Feltrinelli, 2010.

[80] Cfr. B. Morris, Vittime, cit., pp. 237-238.

[81] Cfr. L. Carpi, Sull’acquisto della cittadinanza israeliana da parte di un ebreo convertito al cristianesimo, in «Rivista del diritto matrimoniale e dello stato delle persone», V, 1963, pp. 668-679.

 


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DIASPORA , EBREI , OSPITALITà , IDENTITà


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Storia

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