In varietate concordia.
Quale archeologia per l’Europa di domani?

di Andrea Gennaro

 

…Considerando che uno degli obiettivi del Consiglio d’Europa eÌ€ di realizzare un’unione più stretta fra i suoi membri,
allo scopo di salvaguardare e promuovere quegli ideali e principi, fondati sul rispetto dei diritti dell’uomo,
della democrazia e dello stato di diritto, che costituiscono la loro eredità comune;
Convinti della fondatezza dei principi di quelle politiche per il patrimonio culturale e delle iniziative educative
che trattano equamente tutte le ereditaÌ€ culturali, promuovendo cosiÌ€ il dialogo fra le culture e le religioni …

(Dal Preambolo della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società)

 

 

Il tema L’Europa e gli altri necessita, per la sua stringente attualità e per l’importanza che riveste, di una riflessione che sia la più ampia possibile, un’analisi in grado di coinvolgere anche discipline che, almeno a un primo e veloce sguardo, apparirebbero tagliate fuori. Tale considerazione sembrerebbe valere anche per l’archeologia: quale legame avrebbe la ricerca archeologica con temi di rilevanza internazionale quali l’arrivo di centinaia di migliaia di migranti in Europa, le problematiche legate alla loro accoglienza o l’affermazione in tutto il continente di movimenti politici di chiara matrice populista? Quale è la connessione tra un frammento ceramico del Neolitico e l’ondata xenofoba che spira soprattutto nei Paesi dell’Est? Riprendendo il tema della valenza socio-politica dell’archeologia, su cui si è versato molto inchiostro nel corso soprattutto degli ultimi decenni, cercheremo di capire se l’archeologia possa avere un ruolo, ed eventualmente di che genere, nella costruzione di un orizzonte politico-culturale europeo.

 

Neutrale chi?

Il filone di studi nato dalle ricerche sulla fortuna del mondo classico, dei suoi simboli e delle sue parole nel mondo contemporaneo ha avuto una fortuna così estesa da rendere sostanzialmente impossibile un rimando a una bibliografia esauriente anche solo in lingua italiana.[1] Qualora ci si limitasse a un inquadramento del fenomeno legato esclusivamente all’archeologia, si dovrebbe ritenere il saggio di David Clarke, Archaeology: the loss of innocence (1973) come un fondamentale punto di svolta, fin dal suo celebre incipit: [2]

The loss of disciplinary innocence is the price of expanding consciousness; certainly the price is high but the loss is irreversible and the prize substantial.

Il retaggio dell’opera è sottolineato anche dal volume collettaneo,[3] curato da Malone e Stoddart, a cui hanno partecipato studiosi di varia provenienza, chiamati a riflettere sull’impatto nel dibattito scientifico 25 anni dopo la sua prima apparizione. Sebbene all’interno della costruzione di Clarke il riferimento al candore dell’innocenza fosse basato, per lo più, su presupposti e considerazioni di stampo epistemologico, l’opera segnò un punto di svolta in quanto affrontò per la prima volta alcuni temi specifici. Non sorprende, pertanto, che, tra gli studiosi chiamati a esprimersi un quarto di secolo più tardi sul valore del messaggio di Clarke, fosse stato scelto anche Bruce Trigger. L’archeologo canadese si era già distinto, prima del 1973, per diversi rilevanti contributi sullo sviluppo teorico della disciplina[4] o, successivamente, per alcune celebri opere come Alternative archaeologies: nationalist, colonialist, imperialist del 1980 o A History of archaeological thought del 1989. Partendo dall’ipotesi formulata da Clarke sul superamento, nel giro di qualche decennio, delle variazioni nazionali nel modo in cui era praticata e insegnata l’archeologia, l’insigne studioso canadese sottolinea, per prima cosa, proprio i limiti accademici e le tradizioni di studi a essi associati. Sulla scorta di tale considerazione, egli arrivò alla celebre suddivisione dell’archeologia mondiale in archeologia nazionale, coloniale e imperialista; al centro della discussione, in maniera chiara ed inequivocabile, era stato posto lo stretto rapporto esistente tra l’archeologia e il suo contesto, inteso come l’insieme delle coordinate temporali e politiche in cui essa nasce ed è esercitata. Alcuni lavori abbastanza recenti[5] hanno evidenziato come tale legame non si espliciti unicamente attraverso le ricostruzioni e le letture delle imprese dei personaggi storici su cui è stata forgiata l’identità nazionale del singolo stato, ma si manifesti in molti altri aspetti, spesso a prima vista secondari, come l’organizzazione di mostre ed eventi culturali, la scelta di esporre alcuni oggetti[6] piuttosto che altri, l’intitolazione di piazze o vie. L’ultima vicenda in ordine di tempo a suscitare clamore è stata la nuova riscrittura, fornita dagli studiosi di un’istituzione prestigiosa come il British Museum, della storia dei celebri “Bronzi del Benin”. Con tale nome si è soliti indicare un gruppo costituito da circa un migliaio di oggetti, per lo più in bronzo ma anche in ottone, avorio, corallo, terracotta, che costituiva l’apparato decorativo del palazzo reale nella capitale africana di Benin City (Nigeria) e adesso visibili in diversi musei archeologici occidentali.[7] I preziosi reperti furono trafugati dagli inglesi nel 1897 a seguito del saccheggio operato nella città, giungendo così in Occidente. Proprio per l’evidente nesso con le tristi vicende del dominio coloniale, gli esperti del British hanno tentato di costruire una nuova narrazione dell’intera vicenda, con chiaro intento apologetico; nel tentativo di opporsi alla richiesta di restituzione effettuata dal governo nigeriano, essi sostengono come l’interesse suscitato dai bronzi e la loro stessa esposizione nelle sale del museo siano la chiara testimonianza dell’approccio tutt’altro che razzista tenuto dal museo anche nel passato. Non, quindi, l’ennesimo frutto di un’archeologia coloniale ma una vera e propria best practice nel campo della tolleranza e del rispetto verso le altre culture[8]. La storia dei Bronzi del Benin, che racchiude al suo interno anche il tema del rimpatrio degli oggetti trafugati in altri paesi, costituisce, pertanto, un perfetto esempio delle problematiche di matrice chiaramente politica direttamente correlate ai beni culturali e alla loro narrazione.

 

Archeologia e Stati nazionali

A partire dagli anni ’90 l’archeologia ha, alla fine, dovuto ammettere definitivamente di non essere esente da tutti quei condizionamenti sociali e politici che influenzano il modo in cui si produce conoscenza. Per lunghi periodi andare a scavare il rapporto esistente tra l’archeologia e il potere politico voleva dire occuparsi quasi esclusivamente di periodi passati e abbastanza circoscritti, come il Ventennio fascista per l’Italia e il terzo Reich per la Germania. In realtà, com’era già evidente per altre discipline umanistiche come la storia, la narrazione asettica e neutrale dei fatti non esiste poiché già la scelta degli eventi da scartare e quelli da inglobare all’interno del racconto costituisce, appunto, una scelta.[9] «History is never for itself; it is always for someone».[10] Una volta caduto tale velo, il tema del rapporto tra il nazionalismo, il potere politico e l’archeologia ha via via conquistato una sempre maggiore attenzione fino a divenire uno degli argomenti più dibattuti. Le ricerche hanno tentato di svelare quale sia stato il ruolo degli archeologi e quale contributo abbia dato la scienza archeologica nei processi di nation building negli stati nazionali nel corso del Novecento. In virtù dell’amplissima bibliografia prodotta negli ultimi decenni,[11] in questa sede ci limiteremo esclusivamente a brevi considerazioni. In primo luogo, è interessante notare come non vi sia, nella sostanza dei fatti, nessun paese dell’Europa in cui il tema non sia stato indagato in maniera quasi ossessiva. Dagli ovvi riferimenti alla Germania e all’Italia[12] si può passare all’analisi sul volontario oscuramento del retaggio islamico nella ‘cattolicissima’ Spagna,[13] alla grande rilevanza data alla figura Traiano,[14] ritenuto il fondatore della Romania,[15] ‘la terra dei Romani’, o, infine, all’interpretazione dei Galli e del loro re Vercingetorige come padri della Francia.[16] Il quadro europeo è arricchito, anche, dall’importanza concessa al tema oggetto di analisi nel paese della neutralità per eccellenza, la Svizzera,[17] o nelle nazioni una volta appartenenti al blocco sovietico.[18] In secondo luogo, risulta assai interessante notare l’esistenza e l’evoluzione di alcune specifiche linee di ricerca all’interno della tematica più generale. Si è affermata da un lato, infatti, la tendenza a trattare le influenze sociali e politiche subite dall’archeologia guardando e scrivendo sempre al passato, con pochi accenni alle tendenze contemporanee. Tale indirizzo sembra quasi voler sottolineare la rinnovata purezza (e quindi scientificità) degli studi, risultato raggiunto attraverso la chiusura in un cassetto degli “errori” commessi; dall’altro, in un mondo sempre più glocal e percorso da continue tensioni tra una crescente globalizzazione e le pulsioni identitarie locali, emerge il peso sempre maggiore, anche di natura sociale, acquisito dalle rivendicazioni culturali delle tante minoranze presenti in Europa. Tale fenomeno, esploso in Australia con la nascita di una branca specializzata dedita allo studio del mondo degli Aborigeni,[19] ha nella Spagna il caso più eclatante.[20] Infine, qualche breve notazione sulla situazione italiana.[21] L’archeologia del nostro Paese non può essere con facilità inserita all’interno nelle tre categorie teorizzate da Trigger, sebbene, a causa del nostro passato, non manchino elementi in grado di avvicinarla a quell’archeologia definita coloniale; basti pensare, a tal proposito, all’impulso di matrice politica dato all’avvio dei primi grandi scavi in due realtà del Mediterraneo come la Libia, e Sabratha[22] in particolare, e Rodi,[23] isola allora sotto il controllo turco. A onor del vero, non mancano ancora oggi le intromissioni politiche in campo archeologico. Il Ministero degli Affari Esteri, principale finanziatore delle campagne archeologiche delle università e dei centri di ricerca, nell’ultimo bando[24] per l’assegnazione dei contributi economici per il finanziamento delle attività di scavo all’estero, ha stabilito, come principale criterio la corrispondenza dell’interesse archeologico con »il contesto delle priorità della politica estera italiana«. In tale modo, suggerisce quali siano le zone più interessanti per la ricerca: il Nord Africa, ma con l’ovvia e dolorosa esclusione della Libia, il Mediterraneo Orientale, sebbene non siano considerati paesi prioritari per gli interessi italiani nazioni come la Grecia e Cipro, e il Medio Oriente con l’Iran. Proprio l’esplicito riferimento all’Iran, paese in cui operava un numero ristretto di missioni archeologiche italiane, appare come la principale conseguenza in ambito archeologico della fine dell’embargo e delle misure restrittive che avevano caratterizzato il rapporto economico e politico tra il paese asiatico e il mondo occidentale. A scavare, sebbene a profondità e con intenti diversi, non ci sarà solo l’ENI ma anche una più nutrita schiera di archeologi italiani.[25] L’archeologia è, infatti, ancora oggi[26] considerata come uno degli strumenti di soft power più efficaci per l’agenda politica degli stati. Chiara testimonianza di ciò sono i già citati casi della Libia e del Dodecaneso nella storia italiana, o la nota vicenda dell’archeologa britannica Gertrude Bell, soprannominata dagli arabi “la figlia del deserto”, e il suo strettissimo legame con il re Faysal I ai tempi del mandato britannico in Mesopotamia.

 

Archeologia ed Europeaness

A dispetto di quanto si potrebbe pensare, scarsa attenzione, almeno in Italia, ha sollevato il rapporto tra l’archeologia e la costruzione d’identità sovra-nazionali, in particolare quella europea. A contribuire a tale risultato hanno giocato molteplici fattori, tra cui, principalmente, la sostanziale attualità degli eventi politici e delle situazioni oggetto d’indagine. La nascita del fenomeno della costruzione di un’identità pan-europea può essere, infatti, storicamente fissata solamente negli anni ’80 quando, dietro gli impulsi del Consiglio d’Europa, l’Europa stessa, attraverso il ricorso ad una dimensione fortemente simbolica, cercò di far diventare concetti condivisi e davvero ricchi di significato espressioni come European identity o Europeanness. In qusto complesso processo, l’archeologia è stata utilizzata – coscientemente o meno – per tal fine: chi, se non proprio l’archeologia, poteva rendere tangibile l’idea resa dal motto[27] dell’Unione Europea United in diversity ? La frase, (fig. 1) tradotta nelle 24 lingue ufficiali e anche in latino con l’espressione In varietate concordia, indica, infatti, come alla base dell’Unione vi sia l’appartenenza di una molteplicità di culture[28] ad un’unica European civilitazion.[29] La mole davvero straordinaria di documenti ufficiali in cui l’Europa sottolinea l’importanza del proprio patrimonio culturale testimonia come, almeno nelle intenzioni, si sia tentato con insistenza di percorrere tale strada. Passando brevemente in disamina i documenti ufficiali che costituiscono l’impalcatura giuridica e politica dell’Unione, un fondamentale riferimento all’eredità culturale appare già nel preambolo al Trattato di Lisbona, «[i firmatari] s’ispirano alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa […]«. Il breve passo riportato evidenzia il legame diretto tra lo sviluppo avvenuto in ambito europeo dei diritti inviolabili e universali dell’uomo e il retaggio culturale e religioso europeo; ma è l’articolo 167, interamente dedicato alla cultura, quello in cui è possibile leggere le parole più significative. L’Unione, infatti, s’impegna al pieno sviluppo culturale degli stati membri e pur riconoscendo le diversità culturali esistenti, «respecting their national and regional diversity», ne evidenzia l’appartenenza al «common cultural heritage». ale indirizzo è più volte ripreso anche nei paragrafi successivi, dove sono identificati gli attori protagonisti, cioè gli stati membri e il Consiglio d’Europa, e sono presentati alcuni degli obiettivi più importanti da seguire, tra i quali, su tutti, spiccano la protezione e la salvaguardia del patrimonio culturale di «European significance». Come è stato chiarito abbastanza recentemente grazie a studi di impronta sociologica,[30] dopo l’enunciazioni di tali concetti, il salto che andava effettuato era assai complesso. Si trattava del passaggio dalla organisational dimension, racchiusa all’interno dei testi ufficiali dell’Unione in cui l’identità europea è chiaramente delineata, alla necessità dell’inventio di un simbolo tangibile della Europeanness. Risultava già chiaro[31] nel corso degli anni ’80, come un progetto politico così importante non si sarebbe mai potuto affermare senza l’esistenza di un simbolo da ostentare (anche) nelle scuole di tutto il continente o nelle manifestazioni ufficiali.

La ‘caccia al simbolo’, se è lecita questa espressione, era, pertanto, aperta. Nonostante presentasse numerosi ostacoli, tra i quali, in aggiunta a quanto detto in precedenza, spiccava proprio l’indeterminatezza del termine Europa. La parola, infatti, si caratterizza già per un’etimologia incerta, divisa tra la derivazione greca[32] e quella semitica.[33] In aggiunta, il toponimo, com’è noto, possedeva anche una vaghezza geografica in quanto configurava, nel mondo greco, uno spazio indefinito a nord del Mediterraneo. In virtù di queste premesse, la ricerca di un monumento che poteva assurgere a protagonista della retorica europea delle diversità che ci uniscono appariva, e appare ancora oggi,[34] come una vera e propria impresa titanica. Nonostante le difficoltà la scelta ricadde principalmente sull’Età del Bronzo e sui Celti. Il precursore della grande narrativa pan-europea incentrata sull’Età del Bronzo fu, come ampiamente già messo in chiaro,[35] V. Gordon Childe, autore negli anni ’20 di tre opere strettamente collegate[36] e, per certi versi, fortemente innovative. Infatti, sebbene esse fossero in linea con la tradizione archeologica di quegli anni, presentavano una forte carica innovativa. Per la prima volta, infatti, si superava la dimensione locale della ricostruzione storico-archeologica, dando inizio a una narrazione di carattere pan-europeo. La nozione di cultura europea, di cui volontariamente Childe mitiga le differenze regionali, era costruita in opposizione al Vicino Oriente: ai simboli, come templi e tombe monumentali, del totalitarismo orientale si opponeva la mancanza di strutture così monumentali in ambito europeo, alla limitata complessità artistica orientale la ricchezza di espressione della cultura materiale europea. Paradigmatica l’interpretazione della metallurgia europea: secondo l’archeologo, gli artigiani sarebbero rimasti sostanzialmente liberi da ogni vincolo diretto con il potere regale, e garantendosi anche continui spostamenti da una regione all’altra, avrebbero fornito così i presupposti per la nascita di un sistema commerciale europeo,[37] quasi una sorta di mercato unico in nuce[38] dal Baltico all’Atlantico. Il libero scambio di conoscenze che doveva caratterizzare il mondo dei metallurghi “europei” assumeva, per Childe, le fattezze fisiche di Galileo o Newton, intenti a condividere con l’intera comunità scientifica le scoperte più recenti, o quelle dei travelling scholars [39] dell’Europa medievale: connettendo passato e presente Childe scrive una storia sociologica della libertà europea.[40]

Non sorprende, quindi, durante una fase di consolidamento politico dell’Unione Europea e di allargamento verso i paesi dell’Est datato agli anni centrali dell’ultimo decennio del XX secolo, il lancio, ad opera del Consiglio d’Europa, del progetto pilota The Bronze Age – the first Golden Age in Europe all’interno del European Plan for Archaeology. Si trattò di un’operazione culturale avviata nel Settembre del 1994 a Bratislava e a cui parteciparono ben 18 paesi, tra cui Italia e Turchia (sic); grazie ai fondi erogati, furono organizzati convegni,[41] presentazioni al pubblico, mostre e svolte diverse campagne di ricerca in tutto il continente. L’Età del Bronzo, quindi, fu identificata come l’epoca in cui riconoscere le prime tracce dell’Europeanness.

Negli stessi anni, la grande narrativa archeologica post caduta del muro di Berlino iniziava a sviluppare un tema molto meno neutrale rispetto all’Età del Bronzo, i Celti. La Celtic Iron Age si rivelò, infatti, centrale per la meta-narrazione dei Celti come ‘primo popolo europeo’ ma anche, allo stesso tempo, come elemento fondante alla base di forti identità nazionali (su questo punto torneremo dopo). Forse proprio a causa di tale bivalenza, il tema è stato ampiamente sviscerato in letteratura e ha acquisito una buona popolarità soprattutto grazie una serie di mostre.[42] In Italia la più importante è stata senza dubbio quella ospitata dal Marzo del 1991 a Venezia, nei prestigiosi spazi di Palazzo Grassi. La mostra italiana, costata alla FIAT circa 3 miliardi di lire e con un allestimento curato da Gae Aulenti, aveva proprio come titolo “I Celti. La prima Europa”, manifestazione chiara di quale fosse il messaggio da veicolare. L’esposizione di circa 250 opere, tra cui soprattutto carri da guerra, armi e gioielli provenienti da oltre 200 musei, ambiva a far rappresentare la cultura celtica come il sub-strato culturale di gran parte dei popoli europei, sfruttando anche l’ampio spazio geografico interessato dalla civiltà celtica.[43] I reperti di origine francese, iberica o italiana furono affiancati da oggetti provenienti dalla (allora) Cecoslovacchia, dalla Polonia e dall’Ungheria; difficile non leggere in tale accostamento la prefigurazione di quanto, pochi anni dopo, sarebbe avvenuto con l’allargamento verso Est dell’Unione Europea. Il voluminoso catalogo, a firma di Sabatino Moscati con diretti riferimenti, già nell’introduzione,[44] all’unificazione europea avvenuta sotto i Celti, chiudeva il cerchio.

Sebbene, almeno per alcuni aspetti, la ripresa della cultura celtica e la sua lettura prettamente pan-europea possa ben rappresentare il motto United in diversity, a uno sguardo più attento essa presenta diverse problematiche rilevanti. Alcune di esse furono analiticamente discusse, già qualche anno dopo la mostra, da Dietler.[45] Infatti, porre a fondamento dell’identità europea la cultura dei Celti comporta, in maniera quasi automatica, da un lato l’esclusione della Germania, dei paesi scandinavi e di gran parte dei paesi mediterranei da tale ricostruzione unitaria; dall’altro lato, tale visione offriva un punto a favore della retorica nazionalista della Francia, la cui narrazione identitaria la pone in linea di discendenza diretta con le tribù dei Galli[46] e il loro re Vercingetorige. L’assimilazione dei Celti come primi europei rende, inoltre, ancor più evidente la dicotomia tra Europa e Mediterraneo,[47] un’aporia che rischia di compromettere anche il futuro politico della stessa Unione Europea. È pur vero che, fermandoci all’aspetto archeologico di tale contrapposizione, anche la meta-narrazione sull’eredità della Grecia di età classica ed ellenistica, uno dei pilastri su cui si basa una lettura di stampo mediterraneo dell’Europa, ha recentemente dimostrato[48] quanto sia spinoso questo gioco ancora oggi.

 

Error. Something went wrong

Nonostante gli sforzi, le identità nazionali nate nel secolo scorso hanno continuato ad affermarsi e, anzi, a rafforzarsi, mentre l’identità europea, nel migliore dei casi, si è semplicemente affiancata ad essa, andando a occupare, rifacendoci alla teoria delle identità multiple, il livello sovra-nazionale. Proprio per tali difficoltà, nel corso degli ultimi anni la retorica europea ha quasi del tutto sostituito il concetto d’identità europea con quello di cittadinanza europea, con un’ovvia e maggiore enfasi su aspetti ben diversi rispetto a quelli messi in luce grazie alle ricerche sull’Età del Bronzo. Da studiosi del passato, il problema che dobbiamo porci non è tanto di carattere politico, cioè se l’Unione Europea sia una cosa giusta o sbagliata, ma è cercare di capire quale valenza possa avere il termine Europa in ambito archeologico. Occorre, pertanto, interrogarci su quale sia lo scopo ultimo di chi fa archeologia in Europa e riflettere all’interno di quale paradigma teorico andranno a incasellarsi le scoperte che saranno fatte in futuro.

Uno dei problemi che andranno affrontati a livello politico, accademico e professionale (o commercial nella terminologia europea), è legato alla necessaria omogeneità che dovrà avere l’archeologia europea del domani. Nonostante l’emanazione di convenzioni europee, per citare una sola tipologia di documenti ricca di fondamentali principi guida, permangono ancora fortissime diversità tra i diversi stati. Il nostro paese, per esempio, ha finalmente deciso di ratificare soltanto nel 2015 la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio archeologico de La Valletta del 1992. Per l’ottenimento di tale risultato, conseguito dopo oltre 20 anni di ritardo, un ruolo di prim’ordine è stato svolto, nel silenzio più assoluto sul tema, dalle associazioni professionali di categoria,[49]  che hanno intrapreso una vivace campagna mediatica. Il gap con le altre nazioni non è stato, però, ancora colmato; mentre in Italia si cercava di ottenere la ratifica della convenzione del 1992, le riflessioni europee si concentravano sulla valutazione degli errori commessi e sui punti di forza della c.d. ‘archeologia post La Valletta’. Esse costituiscono il presupposto teorico per la Convezione Europea sul valore dell’eredità culturale nella società,[50] firmata a Faro nel 2005. L’accordo quadro ha introdotto e formalizzato una ventata di novità tra cui il concetto di comunità patrimoniale e una nuova definizione di patrimonio culturale.[51] Non sorprende, purtroppo, che si faccia ancora attendere la ratifica italiana della convenzione.

Ulteriori elementi di forte disomogeneità si registrano anche nella maniera in cui l’archeologia, intesa come disciplina accademica, è professata nelle università europee. Il peso sempre maggiore che sta conquistando il tema dei beni culturali nella società italiana, ben testimoniato dalle numerose prime pagine dei giornali, inchieste televisive, libri dedicati alla politica culturale,[52] ha accentuato la tendenza quasi naturale dell’università a incentrare i propri corsi accademici principalmente sui beni archeologici della nazione, se non, addirittura, della medesima regione. Inoltre, l’impiego preponderante della lingua locale sia nelle pubblicazioni scientifiche che negli insegnamenti professati sembrerebbe acuire la connotazione fortemente territoriale con cui è stata costruita strutturata la disciplina.

Per analizzare il caso specifico italiano e comprendere se l’ipotesi avanzata sia supportata dai dati, si è scelto di analizzare le riviste inserite dall’ANVUR in fascia A nel settore 10/A1[53] (la sigla ministeriale per l’archeologia). In particolare, si è cercato, di comprendere, pur con tutte le ovvie cautele del caso, quali tra esse abbraccino una prospettiva sovra nazionale e quali, invece, un orizzonte locale o regionale. Non sfuggono, naturalmente, i punti critici di tale impostazione; al di là dell’ovvio riferimento fornito dal titolo, il confine tra una ricerca di carattere internazionale e una di carattere nazionale o locale è sempre molto labile e difficile da tracciare. Quali sono i criteri che utilizzabili per tale valutazione? Basta scrivere in lingua inglese o basta pubblicare i dati locali su una rivista internazionale? Crediamo che, all’interno del più vasto problema della valutazione della ricerca accademica, il tema meriti molta attenzione. A supporto delle difficoltà appena enunciate, illustreremo brevemente il caso di Agri Centuriati. An International Journal of Landscape Archaeology. La prestigiosa rivista diretta da Guido Rosada e Pier Luigi Dall’Aglio analizza, come si evince anche dal titolo, i molteplici valori (militari, economici, sociali…) che stanno alla base del fenomeno della centuriazione romana. Come ci si potrebbe aspettare in considerazione della tematica oggetto d’indagine, i contributi pubblicati sono per lo più in lingua italiana e attinenti al territorio italiano, ad eccezione di qualche isolato intervento incentrato su altre realtà mediterranee, in inglese o spagnolo. Il caso di Agri Centuriati non è affatto isolato e le medesime considerazioni si posso riproporre anche per altre riviste che affrontano tematiche su cui si pubblicano contributi incentrati su alcune realtà italiane: tra le tante, citiamo Cronache Ercolanesi, Preistoria Alpina e Siris. L’ANVUR classifica per il settore concorsuale 10/A1 (Archeologia)[54] quasi 150 riviste[55] all’interno della Fascia A. Assumendo come criterio distintivo il luogo di pubblicazione, le riviste italiane pesano per oltre il 50%, essendo 79 su 147, mentre quelle straniere[56] sono 68, equivalenti al 46% (fig. 2). Tra le riviste che presentano, già nel titolo, una marcata attenzione verso tematiche di carattere specificatamente europeo segnaliamo Eurasia Antiqua,[57] Early Medieval Europe[58] e l’European Journal of Archeology, il cui primo numero risale al 1998. Numerose, come abbiamo visto, sono le riviste i cui contributi sono dedicati a specifiche aree geografiche: tra quelle italiane, per esempio, il Bullettino della Commissione Archeologica di Roma o la Rivista di Studi Pompeiani, tra le tante internazionali Aethiopica o Anatolian Studies. Ulteriori analisi, in corso di svolgimento da parte di chi scrive, permetteranno di completare meglio il quadro adesso rapidamente delineato, valutando con maggiore acribia il tema dell’apertura verso l’esterno delle riviste italiane. Tornando specificatamente alla prospettiva europea, molto interessanti risultano essere i dati ricavabili dall’indice europeo per le riviste di scienze umanistiche sociali. Il progetto, definito con l’acronimo ERINPLUS per European Reference Index for the Humaties and Social Science, è stato pensato e sviluppato da ricercatori europei con il coordinamento del Comitato per le scienze umanistiche (Standing Commettee for the Humanities, sigla SCH) della European Science Foundation. L’obiettivo era la creazione di un indice che includesse riviste europee ed extra europee esistenti nel campo delle scienze umane e sociali. Naturalmente, le pubblicazioni dovevano rispondere ad alcuni requisiti, come una procedura esterna di peer review, un comitato editoriale composto anche da membri esterni rispetto al nucleo legato ad un’università o ad un ente di ricerca, la presenza di abstract in inglese per ogni articolo. Analizzando la lista aggiornata,[59] tra gli oltre 7700 titoli poco meno di 550 riviste sono legate in maniera diretta o indiretta ad argomento archeologico e tra esse soltanto 22 sono italiane (fig. 3). Inoltre, è interessante sottolineare come, tra tutte le riviste archeologiche e non solo tra quelle italiane, soltanto un esiguo gruppo presenti un orizzonte d’interesse di livello non strettamente locale ma di carattere sovra nazionale. Tra le pubblicazioni che soddisfano tale caratteristica citiamo l’European journal of archaeology e World archaeology, inserite in Italia in fascia A, o il Journal of Mediterranean archaeology.[60] Ancora una volta, pertanto, i dati confermano, sia per l’Italia che l’Europa, quanto sia rilevante il peso della componente nazionale o addirittura regionale nelle modalità con cui è stata strutturata l’archeologia, dalla scelta dei luoghi da scavare fino alla pubblicazione dei dati.

 

Conclusioni

Giunti alla fine della nostra analisi, è tempo di tracciare qualche breve considerazione finale, avanzando, se è permesso, anche alcune valutazioni di stampo politico sull’archeologia. Come speriamo di aver evidenziato chiaramente, l’approccio top-down deciso, a partire dagli anni ’80, dagli organi dell’Unione Europea si è rilevato un evidente fallimento. Scegliere una civiltà o un sito preferendolo ad un altro crea automaticamente una barriera che separa l’elemento che è incluso con quello escluso. Si tratta di una logica aberrante se si ha come obiettivo la creazione e la ricerca di unità. Le mutate condizioni storiche e sociali hanno acuito le difficoltà e nessun uomo politico, sic stantibus rebus, si sognerebbe mai di pronunciare un discorso improntato sull’unità culturale europea come quello di Lionel Jospin, al tempo primo ministro francese:

This original societal model should now be enshrined in the treaties and given practical expression in our policies. The justification for Europe is its difference. Let us remember that Europe is a civilisation, that is at one and the same time a territory, a shared history, a unified economy, a human society and a variety of cultures which together form one culture.[61]

Non si può certo affermare, comunque, che l’Unione Europea abbia lesinato gli sforzi nel tentativo di far dell’Europeaness un sentimento davvero presente tra i cittadini del vecchio continente. A supporto di tale impegno ricordiamo gli annuali finanziamenti destinati all’agenda europea della cultura, o, per ultimo, la proposta del Parlamento Europeo, datata al 30/8/2016, per l’istituzione del 2018 come European Year of Heritage.[62] Un eccellente tentativo per rilanciare il tema dopo gli stop subiti negli anni passati. Anche da un punto di vista accademico, nonostante il sempre maggior peso e prestigio che acquisisce l’European Association of Archaeologist (EAA) e i suoi annuali incontri in giro per il continente, la mancanza di un indirizzo comune dell’archeologia europea non sembra poter essere superata da qui a breve, dato il carattere fortemente nazionale e/o regionale con cui è stata impostata la disciplina. Se si vuole cambiare qualcosa, la road map è già tracciata. Non servono più azioni che, seppur meritevoli nelle intenzioni, sono chiaramente calate dall’alto e pertanto sentite con forte distanza dalla popolazione europea. Invece, attraverso una strategia di tipo bottom-up e community-based, si potrà fare del patrimonio culturale uno strumento in grado di creare valore, coesione e inclusione sociale,[63] concetti ben fissati nella retorica culturale europea. In un momento storico come questo, dominato dalla paura e dalla tremenda opposizione noi europei vs gli altri[64] (ora identificati come i migranti, ora con i musulmani, ora con gli immigrati di seconda generazione), il raggio di speranza proviene dal Pergamon Museum e da Torino. A Berlino, dall’Agosto 2016, a illustrare ai numerosi visitatori gli straordinari reperti archeologici provenienti dal Vicino Oriente ci sono anche una ventina di rifugiati siriani e iracheni,[65] mentre il Museo Egizio di Torino è il primo in Italia a presentare le didascalie dei pezzi esposti anche in arabo. Sembra di sentire risuonare le parole riportate da Diogene Laerzio e attribuite ad Aristotele: «La cultura è un ornamento nella buona sorte ma un rifugio nell’avversa». Agli archeologi del domani il compito di superare ogni provincialismo e di contribuire alla costruzione di una società migliore.

 

 

 

 


[1] Si veda, a mero titolo esemplificativo, una delle opere più recenti: I. Dionigi (a cura di), Di fronte ai classici. A colloquio con i Greci e i Latini, Milano, Bur, 2002.

[2] L’articolo, pubblicato sulla rivista inglese Antiquity, rientrava all’interno di una più ampia riflessione sui propositi e sulla rilevanza della New Archaeology britannica.

[3] C. Malone, S. Stoddart (eds.), Special section David Clarke’s “Archaeology: the loss of innocence” (1973) 25 years after, «Antiquity», 72 (277), New Hall, Cambridge, 1998.

[4] Per esempio B. Trigger, Time and Traditions: Essays in Archaeological Interpretation, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1978.

[5] Paradigmatico il caso della Grecia e di Atene: D. Damaskos, Archäologie und nationale Identität im modernen Griechenland, in E. Koczisky (a cura di), Ruinen in der Moderne. Archäologie und die Künste, Berlin, Reimer, 2011, pp. 75–87.

[6] I. Chambers, A. De Angelis, C. Ianniciello, M. Orabona, M. Quadraro (eds.), The Postcolonial Museum. The arts of memory and the pressure of history, London, Routledge, 2014.

[7] Nello specifico il British Museum ne espone circa 700, poco meno di 600 il Museo Etnologico di Berlino e circa 320 il Pitt Rivers di Oxford. La dispersione di un patrimonio così vasto ha coinvolto, in effetti, molte più realtà museali occidentali: un buon quantitativo di oggetti risulta presente anche in numerose città tedesche come Amburgo, Dresda, Colonia, Lipsia e americane (Boston e New York).

[8] Per un’analisi puntuale sulla questione vedi S. Lunden, Displaying loot. The Benin objects and the British Museum, tesi di dottorato, Università di Goteborg, https://gupea.ub.gu.se/bitstream/2077/45847/2/gupea_2077_45847_2.pdf , ultimo accesso 14/09/2016.

[9] A tal proposito vedi R. Kühnl, Die Weimarer Republik, Hamburg, Rowolth Taschenbuch, 1985.

[10] K. Jenkins, Rethinking History, London, Routledge, 1991, p. 17.

[11] All’interno di una bibliografia ormai sterminata, ricordiamo solo le opere fondamentali: P. L. Kohl, C. Fawcett (eds.), Nationalism, Politics and the Practice of Archaeology, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; quasi un sequel, con esempi anche da paesi extra europei P. L. Kohl, M. Kozelsky, N. Ben-Yehuda, Selective Remembrances: Archaeology in the Construction, Commemoration, and Consecration of National Pasts, Chicago, The University of Chicago Press, 2007; M. Díaz-Andreu García, T. C. Champion,  Nationalism and Archaeology in Europe, London, UCL Press, 1996; per ultimo R. O’riagain, C. N. Popa, Archaeology and the (De)Construction of National and Supra-National Polities, «Archaeological Review from Cambridge», 27, 2, Cambridge, 2012.

[12] Per un interessante contributo in lingua inglese vedi A. P. Mcfeaters, The Past Is How We Present It: Nationalism and Archaeology in Italy from Unification to WWII, «Nebraska Anthropologist. Paper», 33, Lincoln, University of Nebraska Press , 2007.

[13] M. Díaz-Andreu, Historia de la Arqueología. Estudios, Madrid, Ediciones Clásicas, 2002, pp. 89-101.

[14] Paradigmatica la terza strofa dell’inno nazionale rumeno: «Ora o mai più diamo prova al mondo/Che in queste mani ancora scorre il sangue dei Romani/ E che nei nostri petti conserviamo con orgoglio un nome/ Trionfatore in battaglia, il nome di Traiano! »

[15] Per una ricostruzione archeologica della complessa identità rumena, continuamente oscillante tra il retaggio culturale dei Daci e quello dei Romani, vedi C. N. Popa, The trowel as chisel. Shaping modern Romanian identity through the Iron Age, in V. Ginn, R. Enlande, R. Crozier (eds.), Exploring Prehistory Identity. Our construct or theirs?, Oxford, Oxbow, 2014, pp. 164-174; oppure C. N. Popa, The significant past and insignificant archaeologists. Who informs the public about their ‘national’ past? The case of Romania, «Archaeological Dialogues», 23 (1), Cambridge University Press, 2016, pp. 28–39.

[16] Sul rapporto tra nazionalismo e identità francese vedi: B. Fleury-Ilett, The identity of France: archetypes in Iron Age studies, in P. Graves-Brown, S. Jones, C. Gamble (eds.) Cultural identity and archaeology: the construction of European communities, London, Routledge, 1994, pp. 196–208.

[17] M.A. Kaeser, Archaeology and the Identity Discourse: Universalism versus Nationalism. Lake-dwelling Studies in the 19th Century Switzerland, in A. Gramsch, U. Sommer (eds.), A history of Central European Archaeology. Theory, Methods, and Politics, Budapest, Archaeolingua, 2011, pp. 143-160.

[18] Per la Lituania vedi G. Puodziunas, A. Girininkas, Nationalism doubly oppressed: archaeology and nationalism in Lithuania, in Nationalism and Archaeology in Europe, cit., pp. 243-255.

[19] Per il rapporto tra le pratiche archeologiche e il mondo aborigeno vedi il livello di codificazione raggiunto, per esempio, dal Code of Practice for Archaeological Investigation of Aboriginal Objects in New South Wales, pubblicato dal Dipartimento per l’Ambiente australiano 2010, consultabile anche online http://www.environment.nsw.gov.au/resources/cultureheritage/10783FinalArchCoP.pdf, ultimo accesso 4/2/2017.

[20] Vedi per ultimo C. Marin Suarez, D. Gonzalez Alvarez, P. Alonso Gonzalez, Building Nations in the XXI Century. Celtism, Nationalism and Archaeology in Northern Spain: the Case of Asturias and Leon, in Archaeology and the (De)Construction of National and Supra-National Polities, cit., pp. 11-32.

[21] Vedi A. Gennaro, The socio-political dimension of archaeology: some reflections on the Italian path, in Atti del VII Convegno internazionale di Archeologia Italiana, 16-18 Aprile, Galway, in corso di stampa.

[22] M. Munzi, Quaranta anni di archeologia coloniale a Sabratha, 1911-1951, in L. Musso, L. Buccino (a cura di), Il Museo di Sabratha nei disegni di Diego Vincifori. Architettura e archeologia nella Libia degli anni Trenta, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2012, pp. 203-213.

[23] E. Greco, L’Archeologia Italiana nel Mediterraneo Orientale dalla Fine del XIX alla Vigilia della Seconda Guerra Mondiale, in P. Frascani (a cura di), Nello Specchio del Mondo: l’immagine dell’Italia nella realtà internazionale, Napoli, Università degli Studi L’Orientale di Napoli, 2012, pp. 375-387.

[24] Il bando è consultabile all’indirizzo http://www.esteri.it/mae/resource/doc/2016/02/bando_2016_versione_finale_firma.pdf, ultimo accesso 15/09/2016.

[25] Tra coloro che già operavano in Iran segnaliamo la missione coordinata dal prof. Callieri, docente presso l’Alma Mater di Bologna, nei pressi di Persepolis, o quella dell’ateneo di Torino in Khuzestan, diretta dal prof. Messina. Tra le missioni più recenti, invece, quella dell’Università di Catania diretta dal prof. Laneri.

[26] Per un’analisi dell’archeologia americana come strumento al servizio della diplomazia vedi C. Luke, M. M. Kersel, U.S. Cultural Diplomacy and Archeology: Soft Power, Hard Heritage, New York, Routledge, 2013.

[27] https://europa.eu/european-union/about-eu/symbols/motto_it, ultimo accesso 18/9/2016.

[28] All’interno di tale visione, sussiste una differenza ontologica tra la narrativa nazionalistica e quella europeista; la retorica identitaria nazionale si manifesta attraverso un simbolo, un reperto archeologico, un monumento che incarna l’appartenenza di un determinato popolo ad un dato ambiente geografico sulla base di una condivisione, passata presente e futura, della medesima storia. Al contrario, l’idea cardine della retorica europea è l’esistenza di culture multiple nate e sviluppatesi all’interno di un’unica grande culla.

[29] Sull’importanza di questa visione della natura stessa dell’Europa vedi: R. Wodak, G. Weiss, Analyzing European Union discourse, in R. Wodak, P. Chilton (eds.), A new Agenda in (Critical) Discourse Analysis. Theory, Methodology and Interdisciplinary, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins Publishing Company, p. 122.

[30] N. Fligstein, Euroclash: The EU, European Identity and the Future of Europe, Oxford, Oxford University Press, 2009, p.127.

[31] Per esempio E. Gellner, Nations and nationalism, Oxford, Basil Blackwell, 1990.

[32] Da εὐρύς con significato di “ampio” e ὤψ/á½ π-/á½€πτ- tema da cui si forma anche il verbo ‘vedere’, quindi con significato traslato di ampio d’aspetto. È altresì attestato anche l’accusativo εὐρύoπα, epiteto attribuito in Pindaro a Zeus (fr. 52f) con significato di 'altitonante', e successivamente riferito al sole nelle poesie orfiche (L.701), con significato di 'vedere lontano' o 'onniveggente'.

[33] La parola erebu era utilizzata dai fenici, nella variante ereb, per indicare l’occidente. Per una derivazione dall’accadico vedi: G. Semeraro, Le Origini della Cultura Europea. Vol. II. Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indoeuropee, Biblioteca dell’Archivum Romanicum, Serie 2: linguistica, vol. 43, Firenze, Olschki, 1994. Per un inquadramento complessivo della problematica vedi: G. Semeraro, Gli influssi delle antiche civiltà del Medio Oriente sulla prima formazione culturale dell’Europa, in G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici, Milano, Mondadori, 2001, p. 307.

[34] R. During, Show me the cultural heritage that symbolizes Europe! in D. Callebaut, J. Maril, J. Marikova-Kublova (eds.), Heritage reinvents Europe, «EAC Occasional Paper», 7, Belgio, Europae Archaeologiae Consilium (EAC), 2013, pp. 33-42.

[35] Sul tema vedi C. Renfrew, The identity of Europe in prehistoric archaeology, «Journal of European Archaeology », 2, Issue 2, Cambridge, 1994, pp. 153-173; M. Pearce, European Heritage. A view from periphery, «Archaeological Dialogues», 15, Issue 1 (Archaeology of Europe: the 2007 EAA Archaeological Dialogues Forum), 2008, pp. 51-53.

[36] In rigoroso ordine cronologico: V. G. Childe, The dawn of European civilization, London, Kegan Paul, Trench, Trubner, 1925; The most Ancient East: the Oriental prelude to European prehistory, London, Kegan Paul, Trench, Trubner, 1928; New light on the most Ancient East: the Oriental prelude to European prehistory, London, Kegan Paul, Trench, Trubner, 1934. Grande influenza sull’opera di Childe la esercitò Arthur Evans, scavatore di Knossos e ‘inventore’ della cultura minoica come prima grande civiltà europea. Sul tema vedi: J. Papadopulos, Inventing the Minoans: archaeology, modernity and the quest for European identity, «Journal of Mediterranean Archaeology», 18.1, 2005, pp. 87-149; Y. Hamilakis, Labyrinth revisited: rethinking ‘Minoan’ Archaeology, Oxford, Oxbow, 2002.

[37] V. G. Childe, The Prehistory of European Society, London, Cassell, 1962, p. 172.

[38] Anche Kristiansen vede nell’Età del Bronzo il primo sistema di relazioni internazionali caratterizzato da una interdipendenza tra le diverse regioni europee. Lo studioso legge, però, il fenomeno sotto un’ottica teleologica diversa, giacché ha nell’impero romano il riferimento finale a cui rivolge lo sguardo. Per approfondire vedi: K. Kristiansen, The emergence of the European world system in the Bronze Age: divergence, convergence and social evolution during the first and second millennia BC in Europe, in J. Jensen, K. Kristiansen (eds.) Europe in the first millennia B.C., Sheffield, Sheffield Archaeological Monographs, 1994, pp. 7-30.

[39] V. G. Childe, The Prehistory , cit., p.173.

[40] Per un’analisi molto attenta non solo su quanto scritto da Childe ma anche da C. F. Hawkes vedi: H. Hølleland, Personhoods for Europe: the archaeological construction and decostrution of European-ness, in C. Prescott, H. Glørstad (eds.), Becoming European. The trasformation of third millennium Northern and Western Europe, Oxford, Oxbow Books, 2012, pp. 12-18. Per un focus sulla nozione di libertà nella visione di Gordol Childe vedi: M. Rowlands, Childe and the Archaeology of Freedom, in D. H. Harris (ed.), The Archaeology of V. Gordon Childe. Contemporary perspectives, London, The University of Chicago Press, 1994, pp. 35-54.

[41] Non a caso anche l’annuale congresso della European Association of Archeologist svoltosi a Lubiana proprio nel Settembre del 1994 ebbe, tra i temi trattati durante le tavole rotonde, problematiche strettamente connesse con quanto finanziato dal Consiglio d’Europa. Oltre al tema the politics of archaeology in contemporary Europe, all’interno del più ampio Contemporary research issues in European archaeology, spiccavano una sessione dedicata alla metallurgia preistorica e una al ruolo delle migrazioni nella creazione della natura multiculturale dell’Europa.

[42] Celts art and identity è il titolo della mostra ospitata al British Museum tra il Settembre 2015 e il Gennaio 2016. Andando indietro nel tempo ricordiamo Die Kelten in Mitteleuropa con il catalogo Die Kelten in Mittleleuropa: Kultur, Kunst, Wirtschaft, Keltenmuseum di Hallein, Salzburg 1980.

[43] Sui problemi relativi alla presenza dei Celti in Spagna vedi J. T. Koch, Paradigm Shift? Interpreting Tartessian as Celtic, in B. Cunliffe, J. T. Kich (eds.), Celtic from the West: Alternative Perspectives from Archaeology, Genetics, Language and Literature, Celtic Studies Pubblication 15, Oxford, Oxbow Books, 2010, pp 185-301.

[44] S. Moscati (a cura di), I Celti. Catalogo della mostra, Milano, Bompiani, 1991.

[45] M. Dietler, Our ancestors the Gauls: Archaeology, Ethnic Nationalism, and the Manipulation of Celtic Identity in modern Europe», «American Anthropologist», New Series, 96, n.3, 732-764.

[46] Come manifestato chiaramente anche da un discorso di Mitterand in cui pronuncia la celebre  frase «Where the first act of our history was played». Il presidente tenne un discorso, nel 1985, nel sito di Bibracte, in Borgogna, proprio dove Cesare sconfisse Vercingetorige, per l’inaugurazione della campagna di scavo archeologico sul monte Beuvray. Sull’uso simbolico di tale luogo e del museo della cultura celtica lì presente vedi: B. Fleury-Ilett, The identity of France, cit. , p.204.

[47] La più importante opera sulla storia Mediterraneo dopo gli scritti di Braudel è senza dubbio C. Broodbank, Il Mediterraneo. Dalla preistoria alla nascita del mondo classico, trad. it. a cura di D. Cianfriglia e C. Veltri, Einaudi, 2015.

[48] Per un excursus sulla problematica disputa sull’eredità di Alessandro Magno tra Macedoni e Greci vedi M. Gori, Il nodo gordiano macedone. Archeologia, identtà etnica e appartenenza politica, in J. Bassi, G. Canè (a cura di), Sulle spalle degli antichi. Eredità classica e costruzione delle identità nazionali nel Novecento, Milano, Edizioni Unicopli, 2014, pp.39-52.

[49] Su tutte segnaliamo l’Associazione Nazionale Archeologi (ANA) che lanciò anche di una petizione per richiederne la ratifica.

[50] Consultabile all’indirizzo http://www.coe.int/it/web/conventions/full-list/-/conventions/treaty/199, ultimo accesso 4/2/2017.

[51] Per ultimo vedi C. Carmosino, Il valore del patrimonio culturale fra Italia e Europa. La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, «Aedon. Rivista di arti e diritto online», 1, 2013. http://www.aedon.mulino.it/archivio/2013/1/carmosino.htm, ultimo accesso 4/2/2017.

[52] Segnaliamo solo le ultime uscite: G. Volpe, Un patrimonio italiano. Beni culturali, paesaggi e cittadini, Torino, Utet, 2016; M. Sgarlata, L’eradicazione degli artropodi. La politica dei beni culturali in Sicilia, Bari, Edipuglia, 2016.

[53] Elenco consultabile all’indirizzo http://www.anvur.org/attachments/article/254/Area10_ClasseA_07092016.pdf, ultimo accesso 4/2/2017.

[54] All’interno dell’elenco sono presenti anche alcune riviste di antichistica orientate verso studi di carattere storico-letterario piuttosto che esclusivamente archeologici.

[55] Sui principi che hanno portato l’ANVUR a escludere alcune tra le riviste più prestigiose e a inserire, al contrario, altre ricordiamo che ‘le liste non devono essere interpretate come un insieme esaustivo delle riviste scientifiche e di classe A dell’area o del singolo settore concorsuale: possono mancare riviste prestigiose, ma sulle quali non hanno pubblicato né docenti italiani né candidati, e possono invece essere incluse riviste che sono da considerarsi scientifiche ma di limitata pertinenza per la disciplina’ (tratto da delibera ANVUR n. 17 del 20/02/2013 ). Tale precisazione, ai fini della nostra analisi, risulta ancora più importante poiché segnala chiaramente quali siano gli spazi in cui pubblicano gli archeologi italiani.

[56] Tra le riviste straniere vi sono anche le pubblicazioni delle scuole archeologiche straniere con sede a Roma come il Mededelingen van het Nederlands Instituut te Rome, i Mélanges de l’École française de Rome, il Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts / Römische Abteilung e i Papers of the British School at Rome.

[57] Giornale, in russo e tedesco, principalmente dedicato alla preistoria di quei territori una volta celati dietro la ‘cortina di ferro’.

[58] Periodico in cui sono pubblicate riflessioni e scoperte che coprono l’arco cronologico compreso tra la caduta dell’impero romano e l’XI secolo.

[59] Consultabile all’indirizzo https://dbh.nsd.uib.no/publiseringskanaler/erihplus/about/index, ultimo accesso 15/09/2016.

[60] Per un’analisi complessiva dei dati vedi K. Kristiansen, Do we need the archaeology of Europe?, «Archaeological Dialogues», 15, Cambridge, 2008, p. 19.

[61] L’intero discorso, pronunciato a Parigi il 28 Maggio del 2001, è consultabile all’indirizzo http://www.cvce.eu/content/publication/2005/1/17/642dc4c9-b224-4ea7-a77b-7e4d894b3077/publishable_en.pdf

[62] http://ec.europa.eu/culture/news/20160830-commission-proposal-cultural-heritage-2018_en, ultimo accesso 5/2/2017.

[63] Sul rapporto tra inclusione sociale e beni culturali si è espresso a più riprese anche il ministro Dario Franceschini; tra gli ultimi lavori in lingua italiana segnaliamo M. Brunelli, «Archeologi educatori. Attuali tendenze per un’archeologia educativa in Italia, tra heritage education e public archaeology, «Il Capitale Culturale. Studies of the Value of Vultural Heritage», 7, Macerata, 2013, pp. 11-32.  Sull’esperienza inglese vedi: J. Pendlebury, T. Townshend, R. Gilroy, The conservation of english cultural buit heritage: a force for social inclusion?, «International Journal of Heritage Studies», 10 (1), Taylor and Francis, 2004, pp. 11-31.

[64] Per un innovativo approccio sulla c.d. ‘conflict archaeology’ vedi, per esempio, J. Carman, Past war and European identity: Making conflict archaeology useful, in S. Ralph (ed.), The archaeology of violence: interdisciplinary approaches, Albany, State University of New York Press, 2012, pp. 258-277.

[65] Su quanto sta avvenendo al Pergamon Museum http://www.euronews.com/2016/07/04/syria-s-cultural-heritage-recreated-in-berlin-s-pergamon-museum, ultimo accesso 20/09/2016. 

 

 

 

 

 

 

 


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Antichistica

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