«La primavera intanto tarda ad arrivare»:
Rainer Werner Fassbinder, l’altro, L’Europa

di Domenico Spinosa

 

Quello a cui aspiro è un realismo aperto, che consenta di identificarsi
emotivamente con personaggi che la società ci ha insegnato a disprezzare.

(R. W. Fassbinder, in un’intervista del 1973 a un giornalista olandese)

 

Il presupposto per un’opera d’arte consiste [...] nel fatto che sia tale da costringere continuamente
a inserire in essa la personale fantasia e la personale realtà di chi legge o guarda.
Cioè che non si verifichi il semplice sprofondarsi in qualcosa, così da esserne solamente toccati,
e imbevuti, bensì la costrizione a raccontare la propria realtà inserendola in ciò che si legge o vede.

(R. W. Fassbinder, Intervista, a cura di Myriam Muhm in “La Repubblica”, 13 settembre 1980)

 

 

 

Immagini filmiche e teoria della conoscenza: una breve introduzione storico-critica

Il cinema ci insegna a guardare il mondo come non riuscivamo più a fare, anzi come mai avevamo fatto prima [...]. Se il cinema riconquista e rilancia il senso della vista, non è solo perché sa perfettamente incarnare lo sguardo del XX secolo. C’è infatti una corrispondenza tra la maniera di osservare le cose tipiche dell’epoca e la maniera in cui il cinema osserva e ripropone l’universo circostante: le forme con cui la macchina da presa scandaglia ciò che ha di fronte rivelano gli atteggiamenti e gli orientamenti con cui gli uomini sono ormai spinti a guardarsi attorno. Sullo schermo, prima ancora di vedere la realtà di nuovo e in modo nuovo, vediamo la realtà nello spirito del tempo.[1]

In questo passo, Francesco Casetti pone un tema importante e centrale all’interno del dibattito teorico novecentesco circa lo statuto delle immagini in movimento e sembra opportuno, per impostare il discorso che qui si propone, partire proprio dalla correlazione possibile che si riscontra tra lo Zeitgeist del secolo scorso e la forma esemplare cinematografica. Accanto a questa questione bisogna tenere allo stesso tempo presente che ve n’è un’altra, che si potrebbe definire affine, secondo la quale l’immagine filmica non si risolve in un semplice “specchio del reale”. Essa, divisa tra l’ordinario e l’irreale, tende anche a presentare come la società “ama vedersi”: in tal caso, ciò che il cinema realizza si va a incarnare in una raffigurazione non verosimile, bensì sintomatica di un modo di sentire comune in un’epoca.[2]

Come a tal proposito Walter Benjamin ha magistralmente esposto, per ogni epoca da parte dell’uomo è stato elaborato un caratteristico sistema di strumenti al fine di leggere il reale. «Nel corso di lunghi periodi storici – nota infatti il filosofo tedesco – insieme al modo di esistere complessivo delle collettività, si trasforma anche la modalità della loro percezione. La modalità in cui si organizza la percezione umana – il medium in essa si realizza – non è condizionata solo in senso naturale, ma anche in senso storico».[3] Ed è proprio il cinema, insieme alla fotografia, ad assumere il ruolo di “testimone oculare” del mutato rapporto tra percezione e realtà, tra osservatore e osservato che si viene a concretizzare nel corso del Novecento. Se da un lato, la diffusione della tecnologia industriale nelle città e lo sradicamento delle relazioni sociali e di genere come anche il passaggio al consumo di massa hanno comportato processi di distruzione e di perdita del reale, dall’altro sono emersi di conseguenza nuovi modi di organizzare la visione e la percezione sensoriale, un nuovo rapporto con le “cose” e diverse forme di esperienza mimetica e di espressione, di affettività, di temporalità e di riflessività, come anche un tessuto mutevole della vita quotidiana, della socialità e del tempo libero. In questo rapporto di correlazioni, le immagini in movimento non si limitano a riflettere un’epoca già definita in sé: intervengono e provano a contribuire a determinarla in maniera profondamente nuova rispetto, ad esempio, a modi delle espressioni artistiche a esse precedenti. Infatti, si domanda Fabrizio Desideri rileggendo Benjamin:

Nel momento in cui l’immagine [...] diviene ab origine, nel suo nascere, riproducibile e trasportabile in infinite serie di moltiplicazioni dell’identico, che ne è del rapporto tra immagine e scrittura? Non è forse destinato a mutare e magari addirittura a investirsi il rapporto tra l’irripetibile originalità dell’immagine e la ripetibile fissità del segno? Non è tutto ciò destinato a scompigliare le nostre abitudini e a crearne di nuove, a cominciare dal fatto che siamo immersi in un nuovo mondo percettivo? [4]

Non è certo questa la sede per discutere le suddette questioni cruciali per il XX secolo. Ciò che si intende mettere subito qui in luce risiede nel rimandare alla benjaminiana riconfigurazione possibile della percezione umana apportata dall’esperienza cinematografica, in particolare lì dove il filosofo tedesco discute due aspetti, tra loro strettamente intrecciati, che si propongono di riferimento per la presente ricerca. Ebbene, sia l’esigenza di rendere le cose, secondo lo spazio e umanamente, sempre più prossime all’osservatore sia quella di riconoscere che ciò che nel mondo viene considerato dello stesso genere si presenta sotto aspetti molteplici sintetizzano bene la funzione esemplare che per Benjamin potenzialmente il cinema, nel Novecento, viene a incarnare. Come è noto, secondo Riegl[5] e Wickhoff (per il periodo classico), e Panofsky[6] (per il periodo rinascimentale), l’indagine circa le forme di rappresentazione consente di intendere il “modo di percezione particolare” di un’epoca:[7] in tale direzione, per Benjamin, il cinema esprime le modalità percettive della modernità e della sua apertura al mondo su cui il soggetto non possiede più solo una visione atta a costituire una totalità sistematica. Ecco che il montaggio cinematografico diviene strumento adatto a tale condizione del soggetto, eccedendo e connettendo quelle estese e discontinue impressioni ricevute dall’esterno, e il flâneur di baudelairiana memoria trova casa. Analogamente a quest’ultimo, il cinema è infatti rivolto a “montare” ipotesi unitarie di immagini nel movimento persistente e intermittente delle inquadrature.

A ben vedere, il discorso di Benjamin consente di rimandare alla questione della forma del conoscere in generale che viene discussa nell’ambito del neokantismo tedesco. In particolare, seguendo Ernst Cassirer, giungiamo a confrontarci con i risultati delle rivoluzioni otto-novecentesche circa i paradigmi tradizionali della teoria e critica della conoscenza volti a prendere atto che sia oramai acquisito il punto di vista secondo cui, a esempio,

concetti come quelli di massa e di forza, come di atomo o di etere, di potenziale magnetico o elettrico, persino concetti come quelli di pressione o di temperatura, non siano semplici concetti di cosa, riproduzioni di singoli contenuti concreti dati nella percezione [...]. Quello che in essi noi possediamo non sono, evidentemente, riproduzioni di semplici contenuti cosali o sensibili ma collocazioni e costruzioni teoriche intese a convertire quanto è semplicemente oggetto di sensazione in un qualcosa che sia suscettibile di misura:[8]

alle misure intuitive, sostiene infatti Cassirer, si vengono a sostituire “simboli” di misure. Ciò che si verifica, infatti, nel corso del pensiero moderno e contemporaneo risiede nel passaggio dal concetto-sostanza al concetto-funzione, ovvero dall’unità assoluta e dalla rigidità uniforme del carattere logico-fondamentale dell’essere alla diversità continua e alla multiformità interna dell’ordine; con l’essere-sostanza, ciò che si andava perdendo in modo definitivo è il legame dell’idea al concreto dell’esperienza. L’emergere, dunque, della funzione, pur essendo questo un nuovo concetto astratto su cui andare a edificare una riconsiderata visione del mondo, presenta un altro tipo di astrazione in cui le circostanze ritenute proprie e contingenti (quelle che Aristotele definiva “accidenti”) non vengono lasciate decadere nascondendole, bensì sostituite da simboli, ovvero da variabili.

Bisogna tener presente che il significato profondo di tali posizioni epistemologiche non si esaurisce nel loro ufficio tipicamente oggettivo, ma concerne l’intera configurazione spirituale dell’uomo: si tratta, infatti, di un nuovo “orientamento” della soggettività. Tutto il pensiero di Cassirer è attraversato dal rintracciare l’evolversi teorico-storico di tale svolta e il tema centrale della sua ricerca diviene il concetto-funzione che fonda le forme simboliche[9] nella costruzione di ogni settore della cultura, dall’esperienza sensibile sino alle forme più astratte. Ciò comporta che il costituirsi di mondi, «di segni e di immagini prodotti spontaneamente si oppone a ciò che chiamiamo realtà effettuale oggettiva delle cose e si afferma di fronte ad essa in autonoma pienezza ed originaria forza»;[10] tali mondi (Cassirer, come è noto, ne individua tre: il linguaggio, il mito e l’arte) si inseriscono tra noi e le cose, e non vanno a indicare solo per difetto la distanza che ci separa, ma istituiscono l’unica mediazione possibile e adeguata, ovvero il termine medio, per mezzo di cui è possibile conoscere. Quest’ultima deve essere intesa nell’ampio significato cassireriano dell’attività libera della coscienza creatrice che non si appaga solamente di “possedere” un contenuto sensibile, ma di “generarlo in sé”:

è la forza di questa generazione che elabora il semplice contenuto della sensazione e della percezione in contenuto simbolico. In quest’ultimo - precisa Cassirer - l’immagine ha cessato di essere qualcosa di accolto puramente dall’esterno; si è trasformata in qualcosa di costruito dall’interno, in cui agisce un principio fondamentale del libero formare. Questa è l’opera che noi vediamo compiersi in ogni singola “forma simbolica”: nel linguaggio, nel mito, nell’arte. Ciascuna di queste forme non solo prende origine dall’elemento sensibile, ma resta anche costantemente rinchiusa nella sua sfera. Essa non si volge contro il materiale sensibile, ma vive e crea in esso.[11]

Dunque, la realtà non è più direttamente intesa come se fosse di fronte a noi e le cose stesse non vengono a noi se non mediate, trasformate, appunto, dalle “forme linguistiche”, dalle “immagini artistiche”, da “simbolici mitici” come da “riti religiosi” che di volta in volta elaboriamo.
È opportuno ancora notare che, in un saggio estetico del 1931,[12] il filosofo tedesco, discutendo le tesi di Adolf Hildebrand sul concetto di forma,[13] coglie occasione per estendere anche ai concetti di spazio e tempo la sua attenzione. Da Leibniz in poi, lo stesso concetto di verità si può pensare solo per mezzo di quello di relazione e il suo fondamento sta, proprio, nella relazione. Ed è così che «spazio e tempo non sono sostanze, ma piuttosto “relazioni reali”; la loro vera obiettività è nella “verità di relazioni”, non in qualche realtà assoluta»;[14] in particolare, «lo spazio cessa di essere “cosa tra cose”; viene privato dell’ultimo residuo di oggettività fisica. Il mondo non viene definito come un insieme di corpi “nello” spazio, né come un accadere “nel” tempo, ma viene preso come un “sistema di eventi”».[15] Spazio e tempo, quindi, da contenitori universali di oggetti diventano configurazioni formali di connessioni tra misure. Tale nuova direzione, afferma Cassirer, è segno anche di un rinnovato punto di partenza per una aggiornata “riflessione su di sé” da parte dell’estetica: una riflessione che non solo presenti in chiaro il suo oggetto distintivo, ma che risulti anche adeguata nell’accompagnarla fino a verificare le sue proprie possibilità intrinseche per individuare la particolare legalità della forma a cui è sottoposta l’arte.[16]

Il cinema e la sua forma a tutto questo non sono estranei, anzi.[17] Come ha infatti bene posto in evidenza Desideri, grazie al noto saggio di Benjamin del 1936 (già citato in precedenza) la stessa nascita dell’arte filmica può essere considerata l’attestazione concreta per la storia della cultura di una “trasformazione funzionale” che sia il concetto di arte sia le arti subiscono producendo di fatto uno sconvolgimento epocale della loro identità:[18]

Quella di Benjamin è molto di più che una riflessione filosofica sulla storia dell’arte e, per dirla tutta, non consiste per niente in una nuova filosofia dell’arte e della sua crisi. Piuttosto in una diagnosi sulla trasformazione funzionale che subisce ciò che siamo soliti identificare come arte dell’epoca in cui si afferma il principio della riproducibilità tecnica o meccanizzata. Una trasformazione che implica anzitutto il far ormai apparire come secondaria quella funzione artistica definita socialmente e filosoficamente dal corteo di categorie costituito da termini come genio, creatività, contemplazione e così via. Divenendo altro rispetto alla tradizionale concezione dell’arte, quale si è assestata a partire dalla stagione filosofica dell’idealismo, sciogliendosi l’opera della tessitura spazio-temporale dell’unicità e irripetibilità (quella tessitura da Benjamin identificata come “aura”), a essere sconvolta, intimamente sconvolta, è la natura dell’immagine e la modalità stessa di percepire il suo tempo.[19]

A partire da queste posizioni qui premesse sul valore storico-culturale delle immagini cinematografiche per quelle che divengono le forme proprie della coscienza umana contemporanea, si intende proporre una possibile lettura del tema “L’Europa e gli altri” rivolgendo attenzione a due film del regista tedesco Rainer Werner Fassbinder: Katzelmacher (“Terrone” o “Il fabbricatore di gattini”, 1969) e Angst essen Seele auf (“La paura mangia l’anima” o “Tutti gli altri si chiamano Alì”, 1974). Tutti i film di Fassbinder possono essere considerati come tentativi estremi di presentare aspetti caratteristici dell’interiorità umana; questo è costante nella sua opera dove la macchina di presa si muove come un ecoscandaglio nei meandri del mondo intimo dei protagonisti. Questa sua che si potrebbe definire anche come una “messa in evidenza di ciò che si è” comporta l’assunto di fondo che la storia come la realtà concreta che si vive non vengano mai mostrate in senso fatalistico. Piuttosto il cineasta tedesco esprime queste nella possibilità che possano essere trasformate e condizionate da ogni singolo. Ogni individuo è idoneo, insomma, a maneggiare la propria realtà e, in fin dei conti, risulta responsabile della storia come della realtà politica in cui vive. In quanto film-maker, Fassbinder ha sempre affermato e insistito sul fatto che non sia mai stato sfiorato dalle intenzioni di offrire soluzioni agli spettatori sul come modificare il proprio mondo reale: ciò che emerge in modo spontaneo nei suoi film è di fatto il mostrare che ognuno si trova nelle condizioni per poterlo fare e tutto il suo cinema è un invito a farlo. E così anche il tema dell’altro, dello straniero in casa, del confronto dell’europeo con l’extracomunitario diviene, ancora una volta per il regista tedesco, occasione di aggiungere un tassello al mosaico sulla natura umana che andava costruendo. Anche se le ambientazioni risultano forse datate, le due pellicole che verranno qui prese in esame appaiono ancora oggi lavori esemplari proprio di fronte all’attualità dei nostri tempi, dove noi europei risultiamo essere i veri naufraghi di un viaggio di cui non conosciamo tutt’ora né disegno né meta. Il presente contributo rivolgerà attenzione prima, in breve, al contesto del cinema tedesco degli inizi del secondo Novecento e come ad esso si lega la figura di Fassbinder, in seguito all’analisi dei suddetti film.

 

Il cinema tedesco e le storie da raccontare dopo il 1962: riferimenti di una svolta.

Dopo il fallimento dell’UFA (Universum Film AG, la prima società di produzione cinematografica tedesca, conosciuta soprattutto per aver realizzato i grandi capolavori dell’espressionismo) nel gennaio 1962, inizia a prendere forma nella cinematografia tedesca l’anima di quella generazione di giovani cineasti legati all’esperienza del noto Oberhausener Manifest (il cosiddetto “Manifesto di Oberhausen”).[20] Ciò che in sostanza si richiedeva era, da un lato, di intonare il de profundis al coevo cinema commerciale tedesco, ancora impantanato con stili e temi ormai sentiti obsoleti e, dall’altro, di dare con forza opportunità alle giovani leve, pronte a portare sullo schermo trame nuove stese sulle problematiche legate, ad esempio, al rapporto di coppia e familiari in genere, alla questione del “superamento del passato” come anche ai dubbi e sospetti circa la galoppante società dei consumi. Tenendo come riferimento le nuove esperienze in campo architettonico e musicale (la musica elettronica, in particolare), la letteratura post-bellica (Heinrich Böll e il Gruppe 47) e la filosofia esistenzialista di Jean-Paul Sartre, e ponendo fiducia nei principi della teoria critica della Frankfurter Schule e nella figura di Bertolt Brecht, questa prima nuova generazione di cineasti, definita lo Junger Deutscher Film e capitanata da Alexander Kluge[21] e da Edgar Reitz[22] (nonché allevata dalla rinnovata critica di settore raccolta, dal 1957, attorno alla rivista “Filmkritik” e ispirata ai dettami del pensiero di Siegfried Kracauer) si apprestava a presentare al pubblico brevi film sperimentali con chiari riferimenti stilistici al cinema francese (più di Alain Resnais che di François Truffaut o di Jean-Luc Godard) e al neorealismo italiano (oltre che di Roberto Rossellini, soprattutto di Michelangelo Antonioni per la sua attenzione rivolta all’ansia tipica della borghesia di fronte al boom economico).

Sino alla metà degli anni Sessanta, i film dello Junger Deutscher Film si raccolgono in pochissimi lungometraggi, numerosi cortometraggi e documentari. Bisogna attendere poi il biennio 1965-67 affinché cessi il periodo di gestazione e giungano a maturazione le esperienze dei giovani cineasti di quella che verrà poi chiamata la Neue Welle. È questo il momento d’esordio con lungometraggi, oltre che per i già citati Kluge (Abschied von Gestern, “La ragazza senza storia”, 1965-66) e Reitz (Mahlzeiten “L’insaziabile”, 1966), anche per Werner Herzog[23] (Lebenszeichen, “Segni di vita”, 1967) e Volker Schlöndorff[24] (Der junge Törless, “I turbamenti del giovane Törless”, 1966).
Sono questi gli anni durante i quali la “nuova onda” del cinema tedesco presenta dunque le sue prime opere davvero significative che fanno sentire la loro eco anche al di là dei confini nazionali. Anche se in maniera non organica e in aspra polemica con gli “Oberhausener”, a questo secondo nucleo di cineasti appartengono quelli che vennero chiamati i “sensibilisti monacensi”, tra cui si ritrovano autori come Rudolf Thome[25] (si ricordi qui, almeno, il corto dal titolo Die Versöhnung, “La conciliazione”, 1964-65), Klaus Lemke e lo sceneggiatore Max Zihlmann; questi che in un primo tempo furono critici cinematografici, cinefili e amanti del cinema americano e francese vennero a porsi sotto l’ala protettrice di Jean-Marie Straub (e influenzarono, senz’altro, i primi lavori di Wim Wenders).

Il cinema tedesco degli ultimi anni Sessanta viene poi segnato da una profonda crisi che tocca tutti i protagonisti della “nuova onda”. Si fa strada un nuovo inizio per molti di loro, mentre si incrociano i debutti, per i lungometraggi di finzione, di autori non immediatamente implicati nell’esperienza del “Manifesto di Oberhausen”.

La palla passa di mano: Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, prima di abbandonare la RFT [la Repubblica Federale Tedesca] per trasferirsi a Roma nel 1969, girano Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano (1968) [“Der Bräutigam, die Komödiantin und der Zuhälter”] e regalano a un giovane registra teatrale, Rainer Werner Fassbinder,[26] una lunga sequenza sulla Langsbergerstrasse che egli inserirà nel suo primo lungometraggio Liebe ist kälter als der Tod (L’amore è più freddo della morte, 1969) [...]. Lo Junger Deutscher Film lascia il posto al Neuer Deutscher Film che dominerà la scena internazionale degli anni Settanta.[27]

Insieme a Fassbinder, tra gli altri presentarono al pubblico il loro primo lungometraggio anche Hans-Jürgen Syberberg[28] (Scarabea - Wieviel Erde braucht der Mensch?, Scarabea - Di quanta terra ha bisogno di un uomo?, 1968-69) e Wim Wenders[29] (Summer in the City, Estate in città, 1969-71).

 

«Abbiamo avuto fortuna». Fassbinder e la dritte Generation (la terza generazione)

È andata così. La generazione prima della mia, i cosiddetti Oberhausener, ha sprecato gran parte della sua forza in una battaglia contro il vecchio cinema e in riflessioni su come superare questo vecchio cinema. Non hanno girato film, ma solo documentari e cortometraggi, e si sono scontrati con la resistenza dell’industria cinematografica che stava crollando, ma li avversava. Poi c’è stata una generazione di mezzo, che si trovava tra gli Oberhausener e noi, che non aveva questi problemi, ma che si comportava come se fosse già a Hollywood. E così ha fatto un tonfo. Poi siamo arrivati noi, quelli che ora, che so Wim [Wenders], Werner [Schroeter], io e un altro paio, che abbiamo detto, anche a danno della professionalità, che bisognava ricominciare da zero. Non abbiamo avuto la possibilità di imparare da quelli prima di noi, perciò abbiamo fatto da soli. Io, per parte mia, ho girato film in condizioni finanziare che erano di per sé impossibili. Ma ho imparato tante di quelle cose che ora posso quasi dire di conoscere questo mestiere come uno che a Hollywood ha fatto tutta la trafila che bisogna fare per essere un regista completo. Siamo stati fortunati ad appartenere a questa terza generazione, anche se non è una questione d’età. Siamo stati fortunati a non dover combattere quella battaglia. E anche non... come Klaus Lemke... sai chi intendo, e anche Thome, persone che mi piacciono tantissimo, ma che senza alcuna preparazione hanno pensato, dopo i film degli Oberhausener, dopo dieci anni di frustrazioni, hanno voluto... ti ricordi quei film? Hanno voluto strafare e non erano pronti. Capisci? Noi abbiamo avuto la libertà di elaborare maggiormente le cose. Non è un caso che Wim ed io siamo in questo momento gli unici due a padroneggiare perfettamente il nostro mestiere. Non è arroganza, non fraintendermi. Lo conosciamo quasi alla perfezione, al punto che possiamo metterci dentro le nostre cose personali. Se non lo padroneggi alla perfezione e vuoi essere personale, soccombi. In un modo o nell’altro diventa palese per il pubblico che non lo accetta. A partire dall’aspetto esteriore. Quello che intendo è un cinema perfetto, indistinguibile da quello francese, italiano o americano, ma allo stesso tempo è fortemente legato all’autore. E non può essere confuso col cinema di nessun altro. Abbiamo avuto fortuna.[30]

Così Fassbinder, non da storico del cinema ma da chi, come altri, di quella esperienza fu a pieno protagonista, esprimeva con chiara lucidità il suo punto di vista su uno tra i passaggi più importanti della cinematografia tedesca. Dietro questa sua presa di posizione, v’è in nuce uno tra gli aspetti più intrinseci di tutta l’opera del cineasta tedesco: il dovere, sentito come un’urgenza intima e profonda, di raccontare in modo personale la propria reazione psicologica al suo tempo (e non solo). E ciò non poteva non riguardare per Fassbinder anche l’avviare un confronto sano col passato e soprattutto col recente passato della Germania, anche rispetto all’evidente ritardo, se si tengono in conto quasi tutte le democrazie occidentali, con cui il cinema tedesco giungeva a filmare la concreta “realtà” del corpo sociale del paese. In uno scritto del dicembre 1978, Fassbinder a tal proposito afferma che

fino a poco tempo fa [valeva] una regola inappellabile: se proprio bisognava mostrare la realtà tedesca in un film, allora la cosa andava ambientata, con trasposizioni più o meno riuscite, nel secolo scorso, nel migliore dei casi negli anni Venti; e le accoglienze più calorose venivano sempre riservate a quei film che riuscivano astutamente a evitare il pericolo: lo spettatore non doveva essere spinto a riflettere anche sulla propria quotidiana realtà (in questa frase c’è più verità di quanto sembri a prima vista. Rileggetevela, vi prego, prima di accusarmi d’essere ingiusto, che magari vi fissate su quest’idea).[31]

Proprio tra il 1978 e il 1979, Fassbinder lavora al film Die dritte Generation (La terza generazione) che risulta molto più che un manifesto: questo film è un atto d’amore incommensurabile nei confronti del proprio paese e dell’Europa tutta, una storia che affronta il problema del terrorismo e dei terroristi di un periodo che coincide quasi con quello delle riprese, una questione che, come avrebbe poi affermato lo stesso Fassbinder dopo l’uscita nelle sale del film, «tutti gli abitanti dello stato e coloro che ne sono i rappresentanti non sono riusciti affatto, né da un punto di vista pratico, né tanto meno da quello teorico, leggi ideologico, a risolvere».[32] In parte il motivo di tale impasse era legato anche e soprattutto, per Fassbinder, al rifiuto dei media di misurarsi con la realtà. Tale situazione comportava che nella Germania Federale non si è riusciti di fatto a trasmettere a ogni cittadino l’invito a costruire una democrazia “di fatto” e non solo “di diritto”, un “stato delle cose” insomma in cui non si sarebbero mai accettate le incomprensibili sequenze di “violenza contro violenza”, a cui di conseguenza non può che aggiungersi sempre nuova violenza. E da qui ne consegue una tra le aspirazioni più caratteristiche del lavoro filmico di Fassbinder, ovvero l’intenzione di far confrontare lo spettatore con gli stereotipi tipici del suo tempo, mostrandogli come, secondo lui, fossero prima di tutto le strutture socio-politiche a determinare le condizioni che tramutano gli individui in criminali. L’aspetto criminale non si risolve nelle imboscate e negli assassini, bensì nel fatto che certe persone vengono come “educate” in un dato modo, stabilendo poi tra loro relazioni perverse senza più essere capaci a venirne a capo.
I due film che qui di seguito vengo presi in esame, Katzelmacher e Angst essen Seele auf, [33] ponendo all’attenzione dello spettatore temi e storie che riguardano la ricezione nella Germania Federale dell’ondata di immigrazione extracomunitaria come “forza lavoro” a partire dal 1950 sono opere esemplari circa le prospettive anzidette dell’opera fassbinderiana. Queste opere intervengono attivamente nella realtà concreta delle cose, non solo in quella storicamente data che diviene ambientazione “corporea” per i loro rispettivi protagonisti, ma anche in quella possibile, ovvero legata a certe condizioni di fatto che vanno a costituire “normalmente” le relazioni tra connazionali e stranieri nell’Europa a noi contemporanea, mettendo in luce maggiormente chi tra quest’ultimi si trova nella condizione di dover “accogliere”.

 

Katzelmacher, ovvero “come in uno specchio”

Prima ancora di aver trovato una società disposta a distribuire Liebe ist kälter als der Tod (“L’amore è più freddo della morte”, 1969) in alcune sale cinematografiche della Germania Federale, Fassbinder aveva finito di girare il suo secondo film: Katzelmacher. La pellicola si basava sull’omonima opera teatrale scritta dal cineasta per il suo gruppo, l’Action-Theater, nell’aprile del 1968. Mentre nel testo per il teatro il fulcro di tutta la vicenda è la figura dell’immigrato greco Jorgos, nella versione cinematografica il regista pone in primo piano le condizioni di vita di coloro che “mettono in croce” l’operaio straniero venuto in cerca di lavoro e sviluppano un atteggiamento di rifiuto e odio nei suoi confronti.

La struttura del film è molto semplice e lo stile è ridotto all’essenziale. Eccetto sei carrellate tutte girate nello stesso modo, con in sottofondo il Sehnsuchtswalzer di Franz Schubert, Katzelmacher è un’opera costruita solo da inquadrature decisamente lunghe e statiche che offrono allo spettatore quasi un’atmosfera claustrofobica.[34] Tutte le vicende che tra loro si intrecciano si svolgono in pochi e piccoli ambienti: una ringhiera esterna su cui siedono e si appoggiano a turno i vari personaggi del film, ovvero giovani tra i trenta e quarant’anni (Marie, Helga, Paul, Rosy, Gunda, Elisabeth, Peter Erich, Franz e Klaus) che con un atteggiamento tra l’annoiato e il depresso accompagnano le loro vite, alcuni interni di appartamenti e il tavolo di una Kneipe (birreria) attorno a cui questi “ragazzi del muretto” si riuniscono per bere e giocare a carte. La prima parte del film procede presentandoci la quotidianità di questi uomini e di queste donne, fatta di “commerci” sessuali e monetari, di forme di “dipendenza psicologica” e di mercificazione dei propri corpi da cui si manifesta, così sembra, l’impossibilità di provare reali sentimenti, desideri e ambizioni. Diversamente dal modo di girare di Antonioni, il cineasta tedesco mette in scena l’incomunicabilità dilagante nella società moderna; tra rapporti abituali e svogliati e relazioni extraconiugali, prendono forma i sogni e le aspirazioni delle persone comuni, i loro pregiudizi e le loro ordinarie e banali crudeltà che scandiscono la vita di tutti i giorni; Fassbinder racconta di individui che non hanno mai imparato a comunicare, dell’esasperazione e dell’ottusità che dominano in un piccolo contesto borghese e che rendono la vita difficile a chi le subisce. Ciò che sembra farci subito notare Fassbinder sta nel fatto che l’atmosfera asfissiante della provincia, la monotonia soffocante e l’immutabilità del mondo piccolo borghese come anche l’intolleranza, i rancori e la potenziale violenza rintanata dietro l’esteriorità di un moralismo meschino e perbenista possono venire a galla in qualsiasi momento. Infatti, l’unica variante narrativa appunto si configura con l’entrata in scena di Jorgos, l’immigrato greco in cerca di lavoro e che non parla tedesco (interpretato da Fassbinder stesso), ovvero il Katzelmacher del titolo del film, espressione denigratoria assegnata agli stranieri già del primo afflusso di immigrazione legata alle genti dell’Europa del Sud (e, in particolar modo, agli italiani). Più le immagini del film scorrono e più Jorgos diventa il capro espiatorio di una circostanza che si inasprisce e degenera come in un crescendo rossiniano. Donne e uomini insieme, in modo eguale accomunati nel rifiuto sprezzante del diverso, riproducono al loro interno l’oppressione e la crudeltà mentale, e la ferocia, prima invisibile poi materiale, si diffonde a macchia d’olio senza distinzione di sorta.
Eppure, il pestaggio di cui è vittima Jorgos-Fassbinder non è particolarmente aggressivo o crudo; esso si presenta come un’imboscata rituale, uno svago, una distrazione nel bel mezzo della routine di giornate che si replicano uniformi. I maschi fannulloni della periferia bavarese mettono in pratica quello che il cineasta tedesco chiama “fascismo latente”.

Se si considera attentamente il mondo tranquillo e placido della vita di ogni giorno - nota Fassbinder - si scopre come in ogni piccola questione si renda evidente l’intolleranza acquisita con l’educazione e la tendenza antisociale a farsi giustizia da sé. L’apparizione del lavoratore immigrato è soltanto una causa occasionale, e non costituisce il vero motivo. Per rendere evidente il carattere amorfo di un fascismo latente, la psicologia esotizzante deve lasciare il posto a una estetica distanziante: le persone non giungono ad avere un’individualità; sono piuttosto il prodotto di una società che si documenta in atteggiamenti standardizzati, sensazioni imposte, opinioni programmate [...]. Il film mantiene presente - come sulla scena - la finzione attraverso la scenografia, il gesto, il dialogo. Ritengo che in tal modo si crei qualcosa di più validamente documentaristico che costringe alla ricerca, alla percezione e all’orientamento. In questo caso, ogni realismo sarebbe una scusa.[35]

Tutti i personaggi del film sono come prigionieri del loro asfittico “blocco di case” in cui si aggirano e non vi è scelta migliore delle rigidi inquadrature che Fassbinder ripete in montaggio all’infinito come in un loop musicale. Nel mezzo di questo reiterato immobilismo, gli unici momenti di evasione e di movimento sono le sei carrellate (già citate in precedenza) che riprendono a due a due i diversi personaggi del film mentre, quasi come se fossero filmati durante una pausa dai lavori del set, passeggiano in un cortile. Dopo la gratuita violenza ai danni di Jorgos, tutto riprende a scorrere secondo abitudini, “come prima, più di prima”. E per un attimo “lo straniero” è apparso come la vera alternativa all’assenza di pathos[36] che attraversa tutti i personaggi e i contesti di questo miserabile microcosmo di provincia. Questo lavoro di Fassbinder «è uno studio preciso e disilluso - si legge in un passaggio di un testo critico coevo all’uscita del film - della solitudine dell’uomo, che patisce, senza saperlo, il vuoto della propria esistenza. Il gruppo forma una società chiusa, la cui quotidianità si compie secondo i rituali stabiliti dai bisogni che di volta in volta si fanno avanti. La forza motrice che li anima è istintiva e primitiva; ricorda quella degli animali. I loro sogni sono inerti, plasmati sui luoghi comuni, non hanno il valore di esperienze vissute. Fassbinder dipinge un’immagine negativa che desidera qualcosa di più per superare la propria desolazione. La sua critica è rivolta all’aspetto ontologico più che a quello sociale. La luminosità e l’allegria suggerite dalla secolarizzazione producono un contrasto ironico con il vero stato d’animo di questa gioventù davvero desolante».[37]

Fassbinder andava in questo modo ad affrontare una questione di estrema attualità, ieri come oggi. Non sceglie strade già battute né quelle “buoniste”, e propone dunque un approccio assolutamente nuovo che bene si riconosce anche nel personaggio di Jorgos, lì dove lo straniero non viene a identificare automaticamente una figura positiva: tradisce la moglie lasciata in Grecia, s’impegola con le prime che gli capita di incontrare e nutre a sua volta avversione nei confronti degli immigrati turchi con i quali non vorrebbe avere niente a che fare né essere confuso. In verità, anche Jorgos partecipa a pieno titolo dell’essere debole dei suoi coetanei bavaresi. Su di lui, Fassbinder sembra “confezionare” anche l’inevitabile avanzata dell’omologazione di massa per cui nelle società cosiddette avanzate, secondo ciò che afferma in un’intervista del 4 aprile 1978, anche le minoranze saranno un giorno in via d’estinzione perché integrate: «A un certo punto le persone avranno tutte lo stesso aspetto, si vestiranno allo stesso modo, abiteranno negli stessi appartamenti. Questo mi sembra essere l’obiettivo finale, e non mi sembra una cosa particolarmente utopica».[38] Il cineasta rifiuta, dunque, di idealizzare l’immigrato in quanto facente parte di una minoranza debole e sfruttata. Proprio come in pellicole successive, come ad esempio Faustrecht der Freiheit (“Il diritto del più forte”, 1974), dove svela, senza alcuna particolare premura, che negli ambienti omosessuali imperano in fondo le stesse leggi che governano le altre cerchie della società e che tra gli omosessuali i sentimenti sono oggetto di sfruttamento come fra gli eterosessuali, così in Katzelmacher evita di attribuire al lavoratore greco Jorgos tratti convenzionalmente condivisi. È possibile certamente affermare che tutta l’opera di Fassbinder non è mai attraversata da intenzioni che tenterebbero di ingentilire o di nascondere quelli che secondo lui appaiono come gli aspetti riprovevoli dei molteplici “corpi” di cui è fatta la società: conseguire questo avrebbe significato, per il cineasta tedesco, prospettare nuove forme di discriminazione collettiva.

 

Angst essen Seele auf: ovvero un proverbio marocchino espresso in tedesco

Nel 1974, appena sei anni dopo Katzelmacher, Fassbinder con il film Angst essen Seele auf torna di nuovo a trattare il tema dell’ostilità nei confronti degli stranieri immigrati che lavorano nella Germania Federale, o meglio delle reazioni della società tedesca verso, in particolare, la comunità maghrebina di Monaco che già per i suoi costumi viene riconosciuta come “aliena” e, di conseguenza, stimola rancore.

Proprio nello stesso anno, il regista tedesco si trasferisce in un grande appartamento sito in un palazzo d’epoca della Reichenbachstrasse, nello Ludwigsvorstadt-Isarvorstadt di Monaco.

Chiamava quella casa “la salsiccia”, perché vi troneggiava un imponente divano costituito da “salsicce di pelle” cucite insieme. A detta di tutti i visitatori, bisognava abituarsi agli ambienti: “Era tutto nero: i mobili, le pareti, in pratica tutto tranne i bagni, marrone scuro, e la cucina, che era chiara e molto rustica, confortevole”. Anche lì Fassbinder era sempre attorniato da amici e conoscenti, che dovevano trasmettergli la sensazione di non essere solo. Di conseguenza, in casa, regnava una gran confusione: “C’era un televisore sempre acceso, il telefono squillava ininterrottamente, e continuavano ad arrivare persone che volevano qualcosa da lui, in sostanza l’atmosfera era sempre sovraccarica”.[39]

Nella Reichenbachstrasse, in corrispondenza proprio dell’appartamento di Fassbinder, c’era la Deutschen Eiche (“La quercia tedesca”) che divenne presto il locale preferito del cineasta: si trattava di una vecchia osteria bavarese, con annessa pensione presso cui alloggiavano gli ospiti di Fassbinder. Fu per quegli anni il vero salotto di casa sua, dato che egli apprezzava molto l’atmosfera familiare del luogo e la disponibilità ampia dei gestori nei confronti di artisti e persone dello spettacolo (il locale, infatti, si trovava nelle vicinanze del Gärtnerplatztheater, da sempre dunque frequentato da attori e ballerini).

Nel 1971, intanto, Fassbinder aveva conosciuto a Parigi El Hedi ben Salem, nato in Tunisia e berbero di etnia, e, anche se nel suo paese di origine aveva lasciato moglie e figli, divenne il compagno del regista che per un periodo lo accompagnava anche per le uscite ufficiali. Fu proprio l’incontro con Salem a condurre il regista tedesco ancora una volta sulle tematiche di Katzelmacher. Bisogna però precisare che già nel film Der amerikanische Soldat (“Il soldato americano”, 1970), Fassbinder assegna a Margarethe von Trotta[40] il ruolo di una cameriera d’albergo per un lungo monologo basato su un’autentica notizia di cronaca che avrebbe anticipato, in parte, la storia presentata in Angst essen Seele auf.

Come per la pellicola sull’immigrato greco Jorgos, il cineasta tedesco sceglie di non girare Angst essen Seele auf unicamente per mettere in evidenza le condizioni in cui si trovano i lavoratori stranieri nella Germania Federale. Questa questione, infatti, viene strettamente legata a un altro nucleo tematico: i pregiudizi a cui si espone una donna (Emmi), di condizioni sociali modeste, legandosi a un uomo molto più giovane di lei (Alì), per giunta immigrato marocchino che lavora, in qualità di meccanico, presso un’autofficina. Il vivere insieme di una vedova, che per mantenersi fa la “donna delle pulizie”, e di un giovane lavoratore straniero, tipico emarginato nella società tedesca degli anni Settanta, esaspera e intensifica la questione qui in oggetto come anche amplifica un altro argomento molto caro a Fassbinder: quello di un amore che si frantuma di fronte agli ostacoli creati dall’ambiente circostante e che dà il via a un melodramma al passo coi tempi e di grande attualità ancora oggi.

Trovo che le storie, più semplici sono più sono vere. Se avessimo complicato la figura di Alì - nota Fassbinder in un’intervista del febbraio 1974 - il pubblico avrebbe avuto maggiori difficoltà a seguire questa storia. Un personaggio più complesso avrebbe nuociuto all’innocenza quasi infantile della relazione tra Alì ed Emmi, così ho deciso di lasciare l’ingenuità della storia che riflette quelle delle due persone in gioco. Anche se è chiaro che i rapporti sono, naturalmente, molto più complessi. Io sono del parere che ogni spettatore dovrebbe comparare la relazione dei due con la propria realtà, e ciò è possibile solo se la storia rimane semplice. Penso che la gente abbia bisogno di trovare degli spunti di cambiamento, ed è sicuramente possibile connotare tale cambiamento in senso ideologico ma non trovo che ciò sia rilevante per il grande pubblico.[41]

E proprio di questo tipo di piccole realtà private, che certamente Fassbinder conosce meglio e considera fortemente emozionanti, sono composte le immagini del film che, a sua volta, conduce lo spettatore fin dentro i muri di casa sua, esponendogli non un grande disegno ideologico a cui fare riferimento, ma invitandolo a guardarsi dentro, come si fa quando si è di fronte a uno specchio.

Nella prima parte dell’opera, la coppia Emmi/Alì, invidiata e scandalosa allo stesso tempo, si trova a dover contrastare i problemi a loro esterni, legati al disprezzo diffuso come quello provato dalle condomine che spettegolano e giudicano nelle scale del palazzo dove i due vivono, dal droghiere che si rifiuta di servire Alì (la finta ragione del gesto risiede nel non comprendere il suo tedesco), dagli sguardi sprezzanti dei camerieri di un bar o di un ristorante come anche dei figli di Emmi che giungono a disconoscere la loro madre. In queste situazioni, essendo i due protagonisti proiettati esclusivamente verso ciò che li circonda, Emmi e Alì trovano una stabilità e convengono a nozze: la disapprovazione da parte degli altri, all’inizio, non fa che unire sempre più la coppia. Di contro, dal momento che l’ottuso ambiente circostante sembra sgretolarsi, abbandonando il proprio atteggiamento ostile nei loro confronti della coppia e rivolgendo loro una almeno formale tolleranza, ecco dunque che solo allora i concreti conflitti tra i due, a lungo rimasti taciuti e rimossi, emergono in tutta la loro complessità: da quel momento, Emmi e Alì devono affrontare i classici contrasti interni a una coppia. In questo senso, è emblematica la scena in cucina quando Alì chiede a Emmi di preparare un cous cous per pranzo e lei gli risponde, alzandosi come infastidita dal tavolo, con un secco: “A me il cous cous non piace”, come anche fortemente significativa è una sequenza poco dopo successiva in cui vediamo Alì rincasare visibilmente ubriaco e, nell’invocare aiuto a Emmi, si ritrova solo accasciato sul pavimento mentre lei si chiude a chiave nella sua stanza. «Sì [...] questa è la vita. Per le minoranze, gli estranei è spesso, così. Finché sentono la pressione dall’esterno, non affrontano i loro problemi reali, perché sono impegnati a proteggere loro stessi dall’esterno per farsi accettare [...]. Mi sono interrogato su cosa succede quando l’esterno smette di esercitare la sua influenza».[42]

Angst essen Seele auf è come se fosse davvero un film girato a partire dall’esperienza della vita di tutti i giorni, quella che Fassbinder più volte ha chiamato la “estrema assurdità della vita vissuta” che si legge soprattutto nei rapporti abituali, nelle relazioni genitori-figli, in quelle coniugali come extra-coniugali, nelle fantasie e nelle ambizioni di chi abita i margini, continuamente diviso tra pregiudizi e ordinarie crudeltà che scandiscono i giorni che si susseguono. In particolare qui, il cineasta tedesco rivolge la sua attenzione al destino degli emarginati descrivendo il loro mondo con un affetto raro sul grande schermo e senza sentimentalismi. Per i protagonisti di questo film, a volte smarriti ma pieni di speranze e di desiderio di felicità, l’amore e il matrimonio non sono affatto agevoli. A loro si chiede di avere coraggio, forse un coraggio troppo grande per essere assunto, al fine di compiere quelle trasformazioni, piccole ma decisive, che li proietterebbero fuori da proprio mondo reale. L’esterno, qui fatto di invidia e miseria, fa scacco matto qui all’interno. E probabilmente proprio per questo motivo i nodi vengono poi al pettine e, ancora una volta, «la primavera intanto tarda ad arrivare», come cantava Franco Battiato, in un lontano 1991 che sembra così vicino, in Povera patria.

 

 

 

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[1] F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 2005, p. 22.

[2] Come è noto, Siegfried Kracauer ha sin dalla metà degli anni Venti insistito molto su questo aspetto. Cfr. S. Kracauer, Das Ornament der Masse. Essays (1963), mit einem Nachwort von K. Witte, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1977²; trad. it. La massa come ornamento, pres. di R. Bodei, Napoli, Prismi, 1983. Ma si veda anche il più recente: Id., Kino. Essays, Studien, Glossen zum Film (1977), hrsg. von K. Witte, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1985². Sulla figura di Kracauer, cfr. M. B. Hansen, Cinema and Experience. Siegfried Kracauer, Walter Benjamin and Theodor W. Adorno, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 2012, in part. pp. 3-72; trad. it. di Nanni Cagnone, Cinema & Experience. Le teorie di Kracauer, Benjamin e Adorno, Bologna, Johan & Levi, 2013.

[3] W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936), trad. it. di M. Baldi, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-1939), a cura di F. Desideri, Roma, Donzelli, 2012, p. 51.

[4] F. Desideri, I Modern Times di Benjamin, in W. Benjamin, L’opera d’arte, cit., p. XXI.

[5] Su Riegl, si vedano S. Sarrochia, Oltre la storia dell’arte: Alois Riegl. Vita e opere di un protagonista della cultura viennese, Milano, Marinotti, 2006 e G. Vasold, Alois Riegl und die Kunstgeschichte als Kulturgeschichte. Überlegungen zum Frühwerk des Wiener Gelehrten, Freiburg im Breisgau, Rombach, 2004.

[6] Su Panofsky, si vedano A. Rieber, Art, histoire et signification. Un essai d’épistémologie d’histoire de l’art autour de l’iconologie d’Erwin Panofsky, Paris, Harmattan, 2012 e M. A. Holly, Panofsky and the Foundations of Art History, Ithaca (N. Y.), Cornell University Press, 1984; trad. it. Panofsky e i fondamenti della storia dell’arte, Milano, Jaca Book, 1991.

[7] Per un quadro generale di questo tema, cfr. A. Pinotti, Il corpo dello stile. Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper, Riegl, Wolfflin (1998), Milano, Mimesis, 2001².

[8] E. Cassirer, „Massbegriffe und Dingbegriffe“, in Id., Zur Einsteinschen Relativitätstheorie. Erkenntnistheoretische Betrachtungen (1920) / Gesammelte Werke - Bd. 10, hrsg. von R. Schmücker, Hamburg, Meiner, 2001, p. 7; trad. it. Concetti di misura e concetti di cosa, in Id., Sostanza e funzione. Sulla teoria della relatività di Einstein, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 469.

[9] «Per “forma simbolica” si deve intendere ogni energia dello spirito mediante la quale un contenuto significativo spirituale è collegato ad un concreto segno sensibile e intimamente annesso a tale segno», in E. Cassirer, Der Begriff der symbolischen Form im Aufbau der Geisteswissenschaften (1921-1922), in Id., Wesen und Wirkung des Symbolbegriffs, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1965, p. 175; trad. it. Il concetto di forma simbolica nella costruzione delle scienze dello spirito, in Id., Mito e concetto, a cura di R. Lazzari, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 102.

[10] Ivi, pp. 175-176; trad. it. cit., p. 103.

[11] Ivi, pp. 177-178; trad. it. cit., p. 105.

[12] d., Mythischer, ästhetischer und theoretischer Raum (1931), in Id., Symbol, Technik, Sprache. Aufsätze aus den Jahren 1927-1933, hrsg. von E. W. Orth und J. M. Krois, Meiner, Hamburg, 1985, pp. 93-111; trad. it. Spazio mitico, estetico e teoretico, in Id., Tre studi sulla “forma formans”. Tecnica - Spazio - Linguaggio, a cura di Giovanni Matteucci, Bologna, CLUEB, 2003, pp. 95-110.

[13] Cfr. A. Hildebrand, Das Problem der Form in der bildenden Kunst. Kunsttheoretische Schriften (1893-1901), Baden Baden - Strasbourg, Heitz, 1961; trad. it. Il problema della forma nell’arte figurativa, a cura di A. Pinotti e F. Scrivano, Palermo, Aesthetica, 2001.

[14] E. Cassirer, „Mythischer, ästhetischer und theoretischer Raum“, cit, p. 98; trad. it. cit., p. 99.

[15] ibidem. Su Cassirer e il concetto di spazio, si veda: M. Ferrari, Cassirer und der Raum. Sechs Variationen über ein Thema, in „Internationale Zeitschrift für Philosophie“, 2, 1992, pp. 167-188.

[16] Cfr. ivi, p. 95; trad. it. cit., p. 97.

[17] Per una recente ricognizione dei temi e delle problematiche legati alla questione della forma cinematografica messi a confronto con i risultati dell’intero mondo delle scienze della cultura, dalla biologia all’antropologia come dalla filosofia alla psicologia, si veda: S. Tedesco, Forma e forza. Cinema, soggettività, antropologia, Cosenza, Pellegrini, 2014.

[18] È interessante notare che, sempre nel 2012, escono raccolti in volume anche gli ultimi lavori, già citati in precedenza, di Miriam Bratu Hansen che su Benjamin condivide con Desideri l’impostazione della ricerca; a tal proposito si veda: M. Brutu Hansen, Benjamin, in Id., Cinema and Experience. Siegfried Kracauer, Walter Benjamin and Theodor W. Adorno, cit., pp. 75-204; trad. it. Benjamin, in Id., Cinema & Experience. Le teorie di Kracauer, Benjamin e Adorno, cit., pp. 109-246. Circa le ricadute in chiave politica delle riflessioni benjaminiane, di recente è tornato Pietro Montani nel suo: Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Milano, Cortina, 2014, si veda il cap. III, “Tecnologie della sensibilità” (in part., pp. 58-64).

[19] Cfr. F. Desideri, I Modern Times di Benjamin, in W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-39), cit., pp. XX-XXI.

[20] Il 28 febbraio 1962, ventisei giovani autori, guidati da Alexander Kluge e da Edgar Reitz, si riunirono nella piccola città di Oberhausen (situata nel Land della Renania-Vestfalia a 30 chilometri a nord di Düssendorf) in occasione della manifestazione Internationale Kurzfilmtage e stilarono il citato manifesto. In sintesi, con questo si rifiutava in maniera radicale il cinema come forma di spettacolo e d’intrattenimento a favore di un ripensamento del nuovo mezzo come strumento di conoscenza e di cultura.   

[21] Sull’opera e sulla figura di Alexander Kluge, si veda oggi: T. Combrink (Hrsg.), Alexander Kluge, München, Ed. Text + Kritik, 2011; in italiano: S. Toffetti e G. Spagnoletti (a cura di), Alexander Kluge, Torino, Lindau, 1994.

[22] Sull’opera e sulla figura di Edgar Reitz, si veda oggi: M. Galli, Edgar Reitz, Milano, Il Castoro,  2006 e R. Palffreyman, Edgar Reitz’s Heimat. Histories, Traditions, Fictions, Oxford, Lang, 2000.

[23] Sull’opera e sulla figura di Werner Herzog, si veda oggi: B. Prager (ed.), A Companion to Werner Herzog, Chichester, Wiley-Blackwell, 2012; in italiano: G. Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Milano, Il Castoro, 2008.

[24] Sull’opera e sulla figura di Volker Schlöndorff, si veda oggi: H.-B. Moeller and G. Lellis (ed.), Volker Schlöndorff’s Cinema. Adaptation, Politics, and the “Movie-Appropriate”, Carbondale, Southern Illinois University Press, 2002 e T. Wydra, Volker Schlöndorff und seine Filme, München, Heyne, 1998.

[25] Sull’opera e sulla figura di Rudolf Thome, si veda oggi; U. Kriest (Hrsg.), Formen der Liebe. Die Filme von Rudolf Thome, Marburg, Schüren Verlag, 2010.

[26] Sull’opera e sulla figura di Rainer Werner Fassbinder, si veda oggi in generale: B. Peucker (ed.), A Companion to Rainer Werner Fassbinder, Chichester, Wiley-Blackwell, 2012 e T. Elsaesser, Fassbinder’s Germany. History, Identity and Subject, Amsterdam, Amsterdam University Press, 1996; trad. tedesca Rainer Werner Fassbinder, Berlin, Bertz, 2001. In italiano: D. Ferrario, Rainer Werner Fassbinder, Milano, Il Castoro, 2008 e E. Magrelli e G. Spagnoletti (a cura di), Tutti i film di Fassbinder, Milano, Ubulibri, 1989.

[27] G. Spagnoletti, Lineamenti introduttivi alla storia del cinema. Il nuovo cinema tedesco: Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders, Roma, Aracne, 2004, p. 69.

[28] Sull’opera e sulla figura di Hans-Jürgen Syberberg, si veda oggi: G. Goossens, Verloren zonsondergangen. Hans Jürgen Syberberg en het linkse denken over rechts in Duitsland, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2004; in italiano: A. Socci, Hans Jürgen Syberberg, Firenze, La Nuova Italia,  1990.

[29] Sull’opera e sulla figura di Wim Wenders, si veda oggi: A. Graf (ed.), The Cinema of Wim Wenders. The Celluloid Highway, London, Wallflower Press, 2002; in italiano: F. D’angelo, Wim Wenders, Milano, Il Castoro, 1995 e S. Francia (a cura di), Wim Wenders, Milano, Il Castoro, 2007.

[30] Da un’intervista-video al regista tedesco, dal titolo Rainer Werner FASSBINDER 1977, girata da Florian Hopf e Maximiliane Mainka in forma di documentario appunto nel 1977, durante le riprese del film Despair- Eine Reise ins Licht (Despair, 1977). È possibile vederla, nella sua versione integrale, nel DVD del secondo lungometraggio di Fassbinder, Katzelmacher, uscito nel 2006 in Italia, per i tipi della Rarovideo, a cura di Bruno Di Marino e Stefano Curti.

[31] R. W. Fassbinder, „Die dritte Generation“, in Id., Filme befreien den Kopf. Essays und Arbeitsnotizen, herausgegeben von Michael Töteberg, Frankfurt am Main, Fischer, 1984, p. 70; trad. it. La terza generazione, in Id., I film liberano la testa, a cura di Giovanni Spagnoletti, Milano, Ubulibri, 1988, p. 63.

[32] Ivi, p. 73; trad. it. cit., p. 65.

[33] È interessante sottolineare che nella traduzione italiana (“La paura magia l’anima”) si viene a perdere tutta l’imprecisione grammaticale del titolo in originale (letteralmente andrebbe reso con “Paura mangiare anima”) tipica dei modi di esprimersi in tedesco dei lavoratori stranieri “alle prime armi” con la nuova lingua da apprendere.

[34] «Fassbinder ammise in seguito di aver girato così poche inquadrature per dispetto, per protestare contro le “reazioni [a suo parere] stupide e ottuse” della critica nei cui articoli si continuava a sostenere “che [nel suo primo film] tutto era così immobile, le scene erano così lunghe” per cui in Katzelmacher le aveva “rese di proposito ancora più statiche e lente”», in J. Trimborn, Ein Tag ist ein Jahr ist ein Leben. Rainer Werner Fassbinder. Die Biographie, Berlin, Propyläen Verlag, 2012, p. 122; trad. it. a cura di Anna Ruchat, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Milano, Il Saggiatore, 2014, p. 88. 

[35] G. Spagnoletti (a cura di), Intervista a R. W. Fassbinder, in Id., Junger Deutscher Film (1960-1970). Il nuovo cinema tedesco negli anni Sessanta, Milano, Ubulibri, 1985, p. 190.

[36] È interessante notare che Wim Wenders, all’epoca ancora studente presso la Münchner Filmhochschule, espresse così la sua esperienza di spettatore: «La cosa terribile di questo film è la mancanza assoluta di pathos», in W. Wenders, Emotion Pictures. Essays und Filmkritiken (1968-1984), Frankfurt am Main, Verl. d. Autoren, 1986, p. 48.

[37] E. Brandt, Katzelmacher von Rainer Werner Fassbinder, in „Rheinischer Merkur“, 12 dicembre 1969.

[38] H. Schlumberger (ed.), Playboy Interview: Rainer Werner Fassbinder, in «Playboy - Deutschland Ausgabe», Helf 4 (April 1978), p. 60; trad. it. Rainer Werner Fassbinder, una conversazione pubblica con l’uomo che ancora incute terrore ai suoi critici, in J. Trimborn, Un giorno è un anno è una vita, cit., p. XVI.

[39] J. Trimborn, Ein Tag ist ein Jahr ist ein Leben, cit., pp. 223-224; trad. it. cit., p. 165. 

[40] Sull’opera e sulla figura di Margarethe von Trotta, si veda oggi: T. Wydra, Margarethe von Trotta. Filmen, um zu überleben, Berlin, Henschel, 2000.

[41] H. G. Pflaum (hrsg.), Zu Gunsten der Realität, in „Film-Korrespondenz“, 2/1974.

[42] ibidem.

 


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CINEMA , GERMANIA , FILOSOFIA , EUROPA , FASSINDER


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Filosofia

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