Tavola rotonda
Interventi di Monica Centanni e Francesca Rizzo Nervo

 

Premessa

Operando una sintesi acuta dell’opera e del pensiero di Santo Mazzarino, Giarrizzo ci offre l’opportunità di ripensare alcune questioni storico-culturali di importanza capitale, intimamente connesse con il tema del nostro numero, ovvero quello del rapporto tra l’Europa e gli altri. Non si tratta d’altronde di una forma di attualizzazione indebita o superficiale. Ci pare che la tensione ad una comprensione non scontata del mondo, in uno con il costante avvertimento del rilievo contemporaneo anche della storia più antica (e apparentemente lontana) appartenga in pieno allo spirito di Mazzarino. Uno storico mai ripiegato sul particolare in quanto tale, ma sempre pronto ad inquadrare i fenomeni specifici – pure la singola epigrafe – in un quadro ermeneutico globale e sempre sottratto a sterili fissazioni o a prese di posizione apodittiche. Guardare ai fenomeni nell’ottica del lungo periodo e discutere con libertà e audacia significa oggi per noi, in definitiva, recuperare anche dal punto di vista del metodo la lezione di Mazzarino, nonché quella del suo grande allievo, non per nulla storico modernista a partire dall’intendimento profondo dell’antico: Giuseppe Giarrizzo appunto.

 

Prima questione

La tesi di Mazzarino sulla formazione dell’Europa è nota. L’Europa è per lui, in fondo, il frutto di un fallimento. Essa ‘comincerebbe’ idealmente infatti lì dove viene a rivelarsi inutile (e velleitario) il tentativo, di Teodosio prima e di Stilicone poi, di mantenere uniti l’Oriente e l’Occidente, nei secoli declinanti dell’Impero. È la cesura tra Asia e Europa, tra classi cittadine e senato feudale, tra religione e politica a segnare l’inizio dell’avventura europea. Una diagnosi molto personale, epistemologicamente inquadrabile nella dialettica mazzariniana, mai sopita, tra evoluzione e rivoluzione, ma che soprattutto ha per Mazzarino un riflesso attualizzante: il progetto di una nuova cultura capace di sanare la frattura, di ricostituire l’originaria unità perduta tra Asia bizantina ed Europa medievale. Ci pare che nascano da qui, per noi, elementi di discussione e di dibattito attualissimi. L’Europa di oggi non è pensabile senza l’Asia e senza l’Africa, ma essa fatica ad esserne consapevole e a trovare vie che non siano quelle della chiusura difensiva o dello sfruttamento economico. L’urgenza di Mazzarino è insomma, se possibile, oggi ancora più fortemente attuale, ma ci mancano nuovi modelli di pensiero. E forse si potrebbe rimettere in gioco, pur in un nuovo orizzonte ermeneutico, il concetto mazzariniano di koine, così utile dal suo punto di vista ad intendere l’originalità della cultura italica, da cui germinerà la grande novità di Roma.

 

Monica Centanni - L’andamento della lezione di Mazzarino è sempre paradossale perché concerta e tiene insieme piani, prospettive e stratificazioni teoriche, diversi e potenzialmente centrifughi. La stessa idea di koinè, mutuata (ma con beneficio d’inventario), dalla linguistica, è sottoposta nei vari scritti dello storico a una continua revisione, precisazione, ridefinizione: koinè è bensì il sostrato della cultura italica (non esattamente coincidente – precisa Mazzarino – all’area profilata da Devoto), ma è anche poi l’esito della ibridazione tra quel sostrato e gli elementi provenienti dalla cultura indoeuropea. Ma non solo: è quasi pleonastico ricordare qui che, già in Dalla monarchia allo stato repubblicano, Mazzarino problematizza la declinazione in senso tendenzialmente razzista, su basi biologiche, della cultura indoeuropea, ma processa anche severamente l’idea della sovrapposizione secca dello strato – linguistico e culturale – indoeuropeo alle preesistenze autoctone: in questo senso il segreto storico della “grecità” va chiesto alla grecità periferica, in Sicilia, in Magna Grecia, sulle coste ioniche.

La koinè mediterranea, in senso mazzariniano, è l’esito di un processo non descrivibile genealogicamente, per linee continue, ma che si articola, “evolve” – verrebbe da dire in senso positivista – per articolazioni e snodi, incroci e scelte di selezione, scarti, rifunzionalizzazioni: la koinè è il prodotto di un processo vitale, policentrico, antigerarchico. Ma koinè è anche il “basso continuo” delle culture che, fin dall’era antica, proliferano nel Mediterraneo, destinato a riemergere in ogni stagione di crisi come una sorta di cifra stilistica, di un modo molto particolare di stare al mondo e di disegnare il mondo. Una cifra che riemerge nelle più varie declinazioni, ma che presenta anche alcune, significative, costanti qualificanti, comunque – nota acutamente Giarrizzo – non pre-esistenti agli eventi storici che ne rivelano le declinazioni plastiche.

Nel Mediterraneo i movimenti di incontro/scontro tra Oriente e Occidente agiscono su una piattaforma geologica e culturale comune, in cui la vitalità è garantita dalla continuità di scambio energetico tra i poli – Oriente e Occidente, ma anche Nord e Sud – che non possono essere pensati l’uno senza l’altro. E in questo quadro il concetto di koinè non è mai un dato – e infatti non si incarna mai in una configurazione politica, neppure effimera – ma è sempre un processo: un paradigma, da perfezionare via via, uno strumento ermeneutico utile a sondare l’interazione e l’ibridazione dei sostrati da reinterrogare come fonti genuine di significato in ogni situazione di crisi e passaggio. E ciò che a Mazzarino importa, ci ricorda Giarrizzo, è la dinamica, non l’eziologia dei processi: non è tanto il perché ma il come, la ricerca del quomodo non del quia.

Ed ecco che, paradossalmente, nella diade che si crea a partire dal IV secolo tra Oriente e Occidente – opposizione di religione a politica, di burocrazia a cesarismo, di classi cittadine a senato di latifondisti, oramai asserragliati nelle loro villae – la vitalità della città sopravvive, in qualche modo congelata, nella ‘seconda Roma’ mentre l’Occidente, e al suo centro Roma, patisce la totale decadenza della vita politica, con un tropismo sempre più accentuato verso il feudalesimo. Molti secoli dopo, in un Occidente sempre più impoliticamente barbarico, soltanto l’incredibile rinascenza della vita civile nei comuni italiani riuscirà a emancipare la vita activa dalla secolare fatica del Medioevo.

In questo senso l’Europa è l’“esito di un fallimento”: l’Europa nasce dalla sconfitta di un progetto di conciliazione tra Oriente e Occidente (che Mazzarino fa impersonare dalle maschere storiche di Teodosio e Stilicone). La stessa geografia è, infatti, per Mazzarino, sempre, geo-storia, e soprattutto, geo-politica. Lo spostamento del fulcro della civiltà verso nord, l’enfasi sul presunto cuore continentale di quella che resta, geograficamente, una penisola che si protende nel Mediterraneo (l’Europa, non solo l’Italia, ha questa configurazione), non solo ha, di fatto, neutralizzato la centralità e la funzione connettiva del Mare Nostrum, ma ha anche contribuito a uno scardinamento del perno che, nella civiltà antica, ma fino alla conquista araba, connetteva Oriente a Occidente. “Out of joint”, direbbe Amleto, è l’Europa. Europa “esito di un fallimento” in quanto è meno ancora di una “espressione geografica”: è il prodotto di una ablazione della memoria, di un colossale revisionismo storico che nega la stessa evidenza del dato geografico, lo stesso profilo geopolitico della nostra civiltà.

 

 

Francesca Rizzo Nervo - La ricostruzione dell’antica koiné ellenistica che disegnava un quadro storico di “circolazione” di culture e l’individuazione della fase nella quale si consuma la cesura fra Oriente e Occidente rappresentano un contributo fondamentale che Santo Mazzarino ha apportato, oltre che a quella di età storiche più arcaiche, alla comprensione delle radici dei processi successivi che, in modo non lineare ma frastagliato, hanno comunque segnato le contraddizioni e le ambiguità che tuttora segnano il costituirsi dell’idea di Europa.

La contrapposizione Europa-Asia ha rappresentato nella lunga durata il collante della ricerca di una identità europea, con rare aperture e visioni diverse e con una continuità dominante. Dell’Oriente si è accolto quello che si riteneva assimilabile, a seconda degli interessi ideologici e politici dominanti. È emblematico il caso della collocazione storica a “pendolo” della Grecia nel quadro geo-politico e geo-culturale: da proiezione di un’unità all’interno dell’Occidente a parte nemica, da culla della civiltà (e della democrazia) “europea” a crogiolo di dispotismi “asiatici” da riconquistare. La Grecia antica traccia di una purezza ariana da ripristinare, fino al disegno nazista, ricolmo del sangue “altro” da spargere.
Anche oggi, solo la falsa coscienza dell’ideologia dominante, segnata dal cinismo neo-liberista e resa maschera da una demagogia ricca di vuote retoriche “europeiste”, induce a oscurare le vere radici della crisi dell’idea di Europa quale adesso si presenta: il mettere in contrasto l’uno e il molteplice, il ridurre l’identità all’ “uno” e il collocare il “molteplice” oltre il confine.
Il “molteplice” è fuori e dentro il continente europeo. I confini con il “molteplice” esterno sono valicati con i trattati commerciali, con la spoliazione delle materie prime, con le guerre, con l’attuale “teoria del caos”, cioè la destrutturazione di aree strategicamente sensibili, il loro smembramento, facile in luoghi già di per sé attraversati da divisioni etniche e religiose, la creazione di vuoti dove inserire le sentinelle degli interessi globalizzati delle multinazionali. Appare invero astratta, forse volutamente, qualsiasi analisi che non parta da queste che in fondo non sono che semplici constatazioni.
La frattura Europa-Asia è di lunga durata in una continuità non sempre lineare, ma da prendere in esame con tagli anche sincronici che sappiano mettere a fuoco fasi storiche diverse, che prendano puntualmente in esame aree specifiche. È evidente l’oscuramento che nei secoli ha reso senza voce il ruolo e il peso della civiltà bizantina, di quell’impero che fu chiamato Nuova Roma la cui eredità è passata a Mosca, Terza Roma.

Sono da porre in proposito due domande, alle quali qui si può dare solo in sintesi una risposta, o meglio, prospettare delle ipotesi.

1. Perché Bisanzio, il suo ruolo geopolitico, i suoi caratteri “istituzionali”, le sue culture, la sua letteratura e le sue arti sono stati posti ai margini della ricostruzione storica dei pur complessi processi che hanno portato a definire l’idea di Europa?

2. In che cosa consiste, viceversa, la sua ineliminabilità?

Quanto alla prima questione, pare plausibile ritenere che il conflitto con l’impero ottomano abbia fagocitato l’immagine della pur plurale identità bizantina fino a renderla un fantasma. Alla prima frontiera che come baluardo si delineò con lo scisma e che fu linea divisoria fra credo religioso e interessi egemonici, ebbe a sostituirsi, nella lunga durata delle ideologie dominanti e delle interpretazioni storiografiche, come principale e fondante quella con il mondo islamico, l’Islam “Altro per eccellenza”.

Rispetto alla seconda questione, una volta chiarito che la collocazione di Bisanzio è da riconoscere nei suoi caratteri propri, non si possono cancellare le proiezioni mediterranee della sua politica e quelle europee centro-orientali, gli effetti che indussero per l’espansione e il mantenimento dell’ortodossia. Né si possono confinare, senza una visione complessiva e sistematica del suo ruolo, solo ai libri di storia del diritto il fondamentale contributo dato da Bisanzio a questo campo; solo ai libri di storia dell’arte le immagini e le architetture preziose che ritroviamo anche nelle nostre terre; solo a studi di filologia e codicologia il ruolo di tramite della cultura classica; solo a un comparativismo specialistico la feconda bidirezionale circolazione di opere letterarie.

Ma c’è di più: «L’impero bizantino merita di essere studiato […], è soprattutto degno di nota e di interesse in sé. Questo stato complesso e centralizzato, capace di […] sopravvivere per un lungo arco di tempo vide la fine del mondo antico e l’inizio del Medioevo, la fioritura del Rinascimento e l’ascesa dell’Europa occidentale» (Averil Cameron, I Bizantini, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 261).
Si chiede in che senso, come viene indicato in questa prima questione, «l’Europa di oggi non è pensabile senza l’Asia e l’Africa» e a quali «nuovi modelli di pensiero» si può ricorrere per trovare nuove vie. Do per scontata la prima proposizione: l’Europa pensata sul modello neoliberista è fallita. Storia, cultura, letterature, arti europee sono frutto “strutturale” di una grande circolazione di etnie, culture, letterature, arti molteplici, plurali. Questo deve essere il punto di partenza. Un modello di pensiero universalistico, ben diverso da quello dell’attuale paradigma della globalizzazione, che preveda interventi nel campo della cultura e della formazione e vada oltre, nella visione e nei contenuti, quell’eurocentrismo che a tutt’oggi inquina il nostro mondo.

 

Seconda questione

Nell’interpretazione di Mazzarino la grande differenza tra l’isonomia greca, risposta politica alla crisi sociale che oppone ai nobili i “liberi” depauperati, e la repubblica romana, figlia dell’alleanza tra il patriziato e la plebs ricca, sta nella capacità dei patrizi romani di integrare nell’agone politico il popolo, il ‘quarto stato’, dando inizio al miracolo di Roma. Si profila qui il grande tema dell’integrazione delle fasce più disagiate e meno sviluppate della popolazione, di cui oggi fanno parte milioni di persone povere, anziane, migranti. Il compito della politica è l’inclusione: trovare strumenti legislativi perché il processo politico non sia un affare di pochi, ma ridiventi un fatto collettivo, un rito comunitario condiviso. La disintegrazione, la cosiddetta ‘liquidità’, si affaccia sullo scenario del nostro tempo non solo come epifania di identità deboli, ma bensì come mancanza di spazi di integrazione tra gruppi anche culturalmente forti, definiti, ma spesso reciprocamente impermeabili perché privi di luoghi di relazione e di rappresentanza. All’Europa contemporanea occorre scrivere una nuova grammatica del vivere assieme, ma per far questo sarebbero indispensabili classi dirigenti di alto profilo, capaci di ragionare sulla lunga durata, per dar vita a nuove forme di ‘demo-crazia’, comparabili con le geniali creazioni di Atene e, secondo Mazzarino, soprattutto della Roma repubblicana.

 

Monica Centanni - Mazzarino interroga instancabilmente i punti di crisi: non cerca misticamente l’archè – l’origine unica e assoluta – ma nelle diverse e ripetute febbri di crescita, legge variegate epifanie delle origini, declinate rigorosamente al plurale. In questo senso ogni passaggio, anche ogni tempo di decadenza può essere riscattato dal modello del “tempo ciclico” come punto di svolta: nel teatro della storia, di volta in volta, spesso inaspettatamente, cambia il soggetto sociale, cambiano le condizioni economiche e la temperie culturale. E così nasce un nuovo tempo. La storia di Mazzarino nega sia la coatta ripetitività del “tempo ciclico” sia il banale evoluzionismo para-biologico del progresso lineare: la storia è sempre continua e tuttavia procede sempre “per salti” – nel senso che riforma e rivoluzione si compenetrano: se da un lato nessuno sguardo ingenuamente nuovista può abolire il tessuto di continua concrescita della complessa evoluzione degli organismi sociali e politici, dall’altro lato la tensione tra gli elementi in gioco, e il variare delle proporzioni, determina l’eruzione di morfologie prima impensate e l’improvviso precipitare di eventi in sorprendenti novità politiche, istituzionali, storiche, mandando improvvisamente fuori corso i vecchi modelli che parevano inscalfibili. Lo storico ha la responsabilità di ricostruire il processo – scriveva Manfredo Tafuri di ricomporre l’infranto, rappresentando quanto è successo – quel «valore degli eventi del presente» che senza l’invenzione, tutta greca, della storiografia rimarrebbe oscuro e incognito – ma dando anche voce al non emerso e possibilmente anche al non accaduto che, ad ogni bivio, avrebbe potuto, poteva, potrà accadere. Perché in questa storia, tutta politica, “non esistono torti”: esistono soltanto voci e ragioni discordanti, vincenti o perdenti, che lo storico è chiamato a rintracciare e delle quali deve riprodurre una convincente drammaturgia.

   Una doppia pulsione, dunque, sta alla base del movimento spiraliforme che lo storico è chiamato a rintracciare: persistenza del sostrato e variazione; perpetuazione per analogia e scarto rivoluzionario. Per dirla con Gilles Deleuze, ripetizione e differenza.

La storia che Mazzarino ricostruisce non soffre mai di nostalgia delle origini: al contrario, promette sempre avventure del pensiero nuove e migliori. Come nota Giarrizzo, Mazzarino non si arrende dinanzi a nessuna minaccia di catastrofe, ma salva invece «l’invito a ridurre il male a desiderio di un bene maggiore». E perciò ci si “impone” – insegna Mazzarino – la constatazione che neppure la fine dell’Impero romano sarà da considerare come la “fine di Roma”, quanto piuttosto lo stadio promettente di un passaggio di fase, prodromico a impreviste metamorfosi e forse, alla lunga, a strabilianti rinascenze.

In questo senso Mazzarino rivolge lo stesso studium – passione della ricerca e desiderio – alle tante origini che costellano la nostra storia accidentata e in particolare sia alla rivoluzione che in Grecia inventa l’idea di politica, sia alla lunga e articolata storia delle rivoluzioni istituzionali di Roma, che molto precocemente e per molti secoli, prima del ritorno in gran pompa dei fantasmi della regalità (dal Medioevo fino ai nostri giorni), emancipa l’idea e gli stessi nomi del potere dalla mistica di una superiore, trascendente, investitura del monarca e della correlata derubricazione dei cittadini a sudditi. Il nucleo della riflessione politica di Mazzarino oscilla pertanto tra le due culminazioni quintessenziali che fondano la civiltà greco-romana: il primato dell’invenzione ateniese della polis; l’invenzione ideologica e istituzionale romana che sta in sigla nel nesso senatus populusque. Di Roma Mazzarino spia nel dettaglio, soprattutto linguistico, le movenze di una metamorfosi continua e progressiva – dalla monarchia alla repubblica, dal cesarismo al principato – di cui apprezza e studia soprattutto l’inquietudine istituzionale e giuridica, la preferenza per il ‘due’ della collegialità che rompe l’insindacabilità monarchica dell’uno, l’allargamento progressivo dei diritti di cittadinanza a smentire, per via giuridica, l’assunto razzista di una diversità antropologica tra vincitori e vinti – in generale la adattabilità di un sistema che consente, di epoca in epoca, la rappresentazione adeguata di nuove istanze, culturali, sociali e di classe. In questo senso Giarrizzo sottolinea l’importanza della “democrazia sociale” che Roma avrebbe favorito.
Ma il primato concettuale, nella teoria generale di Mazzarino, è l’invenzione dell’idea politica di democrazia e la creazione dello spazio concettuale della libertà greca che corrisponde a un particolare “stile di vita”: il voler vivere bene «la gioia della vita nell’agorà e nella bulè» contrapposto all’ansia marziale della conquista di territori.

Già nel cuore del suo fondamentale Fra Oriente e Occidente, Mazzarino sviluppa una tesi che resterà centrale nella sua indagine: la storia greca ha inizio «col primo sorgere della vita della polis, vale a dire della vita greca» – laddove “vita della polis” e “vita greca” tout court significativamente coincidono. Ma quella stessa storia che parte dalla prima denominazione dei Greci come ’Iάονες, nasce come storia di una dislocazione. È Mazzarino che ci insegna che la prima auto-definizione dei Greci, tutti insieme, come popolo, viene da una realtà dislocata rispetto alle “città madri” dalle quali, secondo uno schema che Mazzarino stesso ci insegna a considerare come semplicistico, partirebbe la spinta alla colonizzazione, in direzione orientale e occidentale: viene prima, infatti, l’autodefinizione dei Greci come Iaones, che come Hellenes. Lo stesso accade anche per la prima descrizione della diversità costitutiva della polis – la sua unicità rispetto a qualsiasi altro agglomerato sociale, all’infuori del bacino del Mediterraneo – viene da una voce dislocata. La prima definizione – ideologica, prima che urbanistica – di cosa sia una polis la troviamo infatti in Erodoto, laddove a Ciro, che interroga i Greci di passaggio, curioso di capire cosa siano queste poleis che tanto danno da fare, per il loro spirito ribelle, ai satrapi della Ionia, viene data una risposta che dovette suonare sorprendente alle orecchie del Re dei Re, considerato che così controbatte nella finzione erodotea:

 

‘οὐκ á¼”δεισά κω ἄνδρας τοιούτους, τοá¿–σι ἐστι χῶρος ἐν μέσÄη τῇ πÏŒλι á¼€ποδεδεγμένος ἐς τὸν συλλεγÏŒμενοι á¼€λλήλους á½€μνύντες ἐξαπατῶσι[...].’ ταῦτα ἐς τοὺς πάντας Ἕλληνας á¼€πέρριψε ὁ Κῦρος τá½° á¼”πεα, á½…τι á¼€γορá½°ς στησάμενοι á½ νῇ τε καὶ πρήσι χρέωνται (HDT I.153).

Non ho paura di uomini che hanno uno spazio vuoto in mezzo alla loro città per riunirsi, fare patti e scambiarsi imbrogli. [...] Queste parole Ciro le rivolse sprezzantemente verso tutti i Greci che costruiscono piazze in cui comprano e vendono.

 

Dal punto di vista strutturale, dell’impianto urbanistico, la polis ha un disegno variabile ed elastico. Ma ciò che conta è che la sua pianta non è definita dall’emergenza degli edifici – case o templi – e neppure dall’elevazione di un ‘palazzo’ che dall’Impero dei Persiani al feudalesimo medievale è il fulcro strutturale dell’antropizzazione del paesaggio. La città è tale per il “buco” che ha in mezzo – l’agorà – spazio vuoto in cui i cittadini scambiano fra loro e con gli xenoi (ospiti-forestieri, mercanti o filosofi) merci e denaro, ma anche trafficano in parole e saperi, odori e sapori. La polis, con al centro il buco della agorà, riproduce geopoliticamente, su inferiore scala urbana, la configurazione geofisica del Mediterraneo in cui l’elemento connettivo e qualificante è il “vuoto” del mare – un vuoto che, come quello dell’agorà – è spazio disponibile, che attende di essere riempito di vita. Si tratta di un vuoto fertile, vuoto significante fatto di mare-tra-le-terre. Il nostro mare Mediterraneo si configura non soltanto come lo spazio della mediazione e della negoziazione – il luogo dello scambio commerciale, strategico e politico – ma è anche lo spazio del pensiero, cioè lo spazio della pausa nel discorso fra le varie culture, che invita a prendere la dovuta distanza e deve però configurarsi come un collegamento tra una sponda e l’altra, tra isola e isola: uno spazio tra una densità e un’altra che, in forza del suo “vuoto” grazie alla sua sospensione del “pieno”, fa dialogare le terre, misurando distanze variabili l’una dall’altra. Il mare come Denkraum, come spazio del pensiero, spazio del dialogo ma anche della riflessione sul fatto che niente è univoco e niente è scontato: che c’è sempre bisogno di una traduzione e di una koinè – una lingua franca e comune, tra un sistema culturale linguistico immaginativo e un altro.

Ed è proprio il nomos del mare, extraterritorialità della koinè mediterranea, che prelude al riscatto, tutto greco, dell’idea di polis dalla radice del territorio. Il perimetro della polis è segnato non dai confini murati ma dal voto – che è espressione di istanze, desideri, bisogni – dei suoi cittadini. In questo quadro, se Atene è soggiogata dai tiranni, nondimeno la polis democratica ateniese – l’Atene assoluta – vive nello sdoppiamento prospettico di Samo. Oppure, ancor più dislocata, l’anima democratica di Atene si strappa dalle sue proprie radici e le trasforma in fluidi ed erratici rizomi – che lasciano la città per difendere la stessa Atene dalle “mura di legno” a Salamina, oppure veleggiano a bordo della nave Paralos.

 

Francesca Rizzo Nervo - Oggi, a ben vedere, in Italia e in tutta Europa, è in atto un conflitto fra due modelli di “democrazia”. Da un lato, un modello neo-autoritario che prevede assetti istituzionali e leggi elettorali architettati per ridurre il controllo sugli esecutivi, la libera espressione della sovranità popolare, la dialettica parlamentare, il tutto in nome della “governabilità”. In Italia, ad esempio, l’assetto democratico, di fatto, è fatto consistere nel momento, scandito nel tempo, delle elezioni, ma anche queste sempre di più solo di facciata. Penso ai risultati del referendum sull’ “acqua pubblica” disattesi nelle scelte  successive o a quelli recenti del referendum sulle modifiche alla Costituzione che, pur avendo avuto il merito di impedirne lo scempio, nella sostanza sono stati svuotati del loro significato profondo in un continuismo politicistico che guarda agli interessi dei poteri forti finanziari ed economici.

Dall’altro, un modello di “democrazia rappresentativa”, non a caso, in Italia osteggiata dalle recenti proposte di legge elettorale, che assegna il consenso alla capacità di governo dell’insieme delle istanze sociali e che tenga quindi larga la rappresentanza, sapendo che la democrazia deve esprimersi attraverso l’articolazione di corpi intermedi (parti sociali, associazionismo, volontariato, autonomie locali) chiamati quotidianamente al confronto nella prospettiva anti-corporativa e antistatalista del bene comune. L’Unione Europea peraltro è oggi caratterizzata dall’esistenza di una moneta unica, ma anche dall’assenza di una comune politica del lavoro, sociale, fiscale e anche estera: imperversa una troika (si veda il caso della Grecia) che nessuno ha eletto.
La questione a livello globale è da riferire al sempre più crescente divaricarsi della forbice delle diseguaglianze sociali, dell’arricchimento dei pochi e dell’impoverimento dei più.

Il modello neo-autoritario è funzionale a favorire gli interessi oggi dominanti, con gli effetti devastanti che ci stanno di fronte. Il modello della “democrazia rappresentativa” è quello che può permettere, se non altro, un governo, se non risolutore almeno equilibratore dei conflitti. Servono a poco i richiami a modelli antichi, se non che per fare, il che è necessario, storia: il mondo è cambiato nell’economia, nella composizione dei gruppi sociali, negli strumenti di comunicazione.
Il fallimento del dirigismo neo-liberista non è di minore portata rispetto a quello del  dirigismo delle cosiddette società a socialismo realizzato. Si pensi al Manifesto di Ventotene, tanto citato, ma purtroppo in termini puramente retorici e demagogici. Nel Manifesto Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni vedono negli Stati federati d’Europa uno strumento per superare sì il nazionalismo, ma contestualmente la diseguaglianza sociale e la negazione dei diritti del mondo del lavoro, temi questi ultimi assenti dalle citazioni che se ne fanno.

 

Terza questione

Alla prospettiva neoumanistica, legata al classico, portata avanti da un pensatore come Werner Jaeger, Mazzarino oppone un ideale anticlassico. Ciò non vuol dire per lui rinunziare all’umanesimo ma porlo su basi nuove, a partire dalla considerazione che, dal suo punto di vista, già la grecità deve essere letta come un fenomeno dislocato e tripartito. Mazzarino aveva capito che non c’era futuro per una identità culturale europea fondata su una esaltazione della classicità, oggi ai nostri occhi chiaramente impossibile. Ma come si potrebbe compiere oggi il sogno mazzariniano di un umanesimo diverso? Come è possibile coniugare l’orizzonte dell’umanesimo con la condizione contemporanea, per sua natura politeista e policentrica? Il problema è quello della ri-costruzione di un umanesimo europeo, uno spazio culturale di rispetto, di dialogo, di arricchimento reciproco, di conflitto creativo che delinei oggi l’identità flessibile (e per sua natura storicamente accogliente) dell’Europa che verrà.

 

Monica Centanni - Aby Warburg versus Johann Joachim Winkelmann: il primo intuisce che l’uomo del Rinascimento cercava nell’antico l’eccitazione dei corpi scossi dalla passione, il secondo leggeva nel volto e nella posa del Laocoonte non già la tragedia del sacerdote colpito dal suo dio, ma un esempio della “quieta grandezza” con cui gli antichi avrebbero saputo rappresentare il sommo dolore. Vedeva bene Warburg: il rilancio dell’umanesimo nella nostra modernità non può più passare per il paludamento classicista, lo sbiancamento dei colori dei marmi, la ampollosa magniloquenza nella restituzione delle parole antiche, in cerca di un’esatta perfezione ideale nel segno di una calma, tanto distaccata quanto raggelante, serenità apollinea. Vede bene Warburg: nelle opere d’arte e nei testi antichi, recuperati dalla dispersione e salvati dall’oblio, il Rinascimento cerca e trova forme in movimento, superlativi delle passioni – nuove vibrazioni estetiche. Questo è l’umanesimo che la nostra contemporaneità ha necessità di ricercare e ritrovare.

Nello stesso senso, l’antico che Mazzarino studia e fa rivivere nelle sue pagine non è un monolite compatto, ma è un fascio di energie diverse, un atteggiarsi plurale di rizoma poligenetici e politropici. In questo senso è importante l’accento di attenzione che Mazzarino – italiano e catanese – pone sul ceppo dell’inflorescenza italiota e siceliota: in questo senso la “storia greca” non è affatto, né esclusivamente né originariamente, “greca”, in quanto è storia di sorprendenti mescolanze, prodotto inatteso e – quello che è più interessante e istruttivo per noi – non è mai la ricerca di banali comuni denominatori ma al contrario di differenziazioni situate. Mazzarino ci insegna a investire attenzione sul potenziale di irradiamento di parallela espansione del fenomeno studiato – la grecità – a contatto con diversi reagenti nell’arco delle conformazioni geopolitiche e geostoriche comunque interne al Mediterraneo, che rimane l’ambiente geopolitico di riferimento. Dove anche i ritorni di elementi rimasti in sonno, attraverso percorsi carsici, non sono considerati come aspetti di forme restaurative, ma sempre come propellenti di significative metamorfosi: le riserve dell’antico consentono sempre l’apertura di orizzonti inaspettati e non significano mai «l’eterno ritorno dell’eguale».

Quella rottura del perno tra Oriente e Occidente che causerà l’esito fallimentare che ha nome “Europa” si aggiusta, precariamente per un attimo si salda, nell’impresa di Alessandro, impresa di effimera consistenza politica ma di enorme portato culturale, che sborda anche geograficamente fino a irradiare linguisticamente e culturalmente una vasta area che ha al centro il Mediterraneo ma traligna ben oltre la sagoma del suo bacino; che sborda cronologicamente, fino a improntare imprese e immaginario di tutti i principes romani, tutti ce lo insegna ancora Mazzarino, da Augusto a Giuliano, passando per Adriano e Caracalla, impegnati nell’ardua sfida dell’imitatio Alexandri.

Per tutto questo, dalla lezione mazzariniana dobbiamo imparare a stare mille miglia lontani sia dalla mediocrità di una posizione conservatrice che contrabbanda in un modo più o meno sofisticato, spesso sotto il nome di riformismo, la cinica convinzione che nulla di nuovo accada mai sotto il sole, sia dalla semplificazione di un sensazionalismo senza pensiero, letteralmente incolto e volgarmente romantico, che annuncia ogni giorno l’avvento di svolte epocali, grida vane e roboanti, retoriche e mai persuasive perché incapaci di farsi carico del groviglio di complessità sedimentate nel risuonare delle tradizioni storiche. Al contrario quello di Mazzarino è un pensiero adulto perché frequenta con acutissima sensibilità, con consumata abilità, e anche con sempre ingenua passione, i diversi piani della riflessione che in trama e in ordito, si intrecciano nel tessuto storico. Il pensiero di Mazzarino è pensiero storico esemplare proprio perché evidenzia la scaturigine dei momenti più intensi di statu nascendi sullo sfondo e nel perdurare degli elementi di lunga durata storica. Le crisi descritte da Mazzarino sono vere crisi perché uno stesso sguardo ne fissa contemporaneamente il punto di dialettica tra l’esaurirsi di fenomeni declinanti e gestazione del novum, tanto più intenso quanto più colto mentre irrompe nell’intersercarsi di processi di continuità e di rottura. Mazzarino insomma ci indica e le riforme e le rivoluzioni e ci insegna che le prime non sono pensabili senza l’orizzonte delle seconde, senza incagliarsi mai nella palude di quell’indistinto dove entrambi i termini – di riforma e di rivoluzione – si scolorano e perdono qualsiasi significato.
Ma nella sceneggiatura che Mazzarino costruisce, entrano in campo anche altre forze, altre complicazioni di questa polarità. A Oriente, certezze, forma, religione; in Occidente, l’inquietudine, la ricerca della via: in questo, certo, sta la debolezza essenziale dell’Occidente – debolezza, sì che però è anche una “forza”. Perché solo nel vuoto – dove i fantasmi delle presunte identità misurano le loro ombre, e spesso mostrano tutta la loro insignificanza – si crea lo spazio concettuale e poi fisico e urbanistico, per la piazza che prevede costitutivamente l’apertura all’estraneo, l’accesso di altri soggetti.
Ricostruire il forum – spazio politico che sta ‘fuori’ dalla confortevole dimensione della casa e della comunità (così Hannah Arendt) – ovvero ripensare l’elemento qualificante la città per dare un teatro di rappresentazione alle ragioni degli invisibili, una scena in cui chi come i migranti con noi già condivide economia degli spazi e dei tempi, sia ammesso a far sentire la sua voce.

Infine una nota sul metodo. Visione e metodo insieme: la riflessione di Mazzarino sospesa tra, e anzi conficcata nel, tratto di separazione tra Europa-Asia, ha una cadenza geneticamente contrappuntistica e solo tenendo presente questa andatura della tessitura del suo lavoro storico possiamo tentare di comprendere l’insieme della sua visione. Che utilizza la risultante di due diversi eventi. Uno è il grande affresco d’insieme e l’altra è la minuziosa e maniacale – e a volte forse anche consapevolmente arbitraria – ricostruzione di vicende marginali e di dettagli storici, l’attenzione verso i quali si spiega appunto nell’intenzione di voler far riecheggiare il quadro d’insieme in situazioni puntuali – esercizi di metodo. In questo senso esemplare è il testo della polemica con Momigliano, il botta e risposta intorno a Fra Oriente e Occidente: da notare che, anche sul piano dello stile, all’astio accanito, sfrenato e ingenerosissimo dell’antagonista, Mazzarino risponde puntualmente con una altissima lezione di metodo, in una requisitoria fenomenale che decide – per svincolare il dialogo dalla polemica ma anche per amor di sprezzatura – di tenere inedita.

Nel continuo gioco tra ordito strategico e dettagliata trama di singole contingenze, si rivela l’istinto di Mazzarino per la grande politica e la sua capacità – così ben sottolineata da Giarrizzo – di tenere insieme il dato della necessaria continuità evolutiva con lo strappo delle decisioni rivoluzionarie. Crisi come opportunità di rinascita: è questo il metodo di Mazzarino così prezioso anche per noi oggi per affrontare i problemi contemporanei, senza scorciar via, per soluzioni semplicistiche e superficiali, ma muniti dell’armamentario scientifico e passionale necessario per confrontarsi con la complessità scabrosa delle sfide storiche, che consente di osservare scrupolosamente il dettaglio e, contemporaneamente, strabicamente, di vedere l’ampio, lontano, disegno d’orizzonte.

Per concludere: con una delle sue battute fulminanti e geniali, a sigla del suo saggio sulla divinazione nell’età di Lutero, Warburg stigmatizzava: «Occorre sempre di nuovo salvare Atene da Alessandria». Ma la complessità dionisiaca del nostro orizzonte politico e culturale non va appiattita sulla scia del più apollineo classicismo – magari per neutralizzare i monstra che attentano alla lucida razionalità del ‘buon Europeo’. «Dall’Asia io vengo» – così Dioniso nella prima battuta di Baccanti di Euripide; e Alessandro, sulle orme di Dioniso, sposta la Grecia verso Oriente, e prima a Sud, in Africa, alle foci del Nilo, fonda la prima Alessandria, destinata a essere una capitale del Mediterraneo e il fulcro della koinè culturale greca per quasi un millennio. Sul punto Warburg aveva torto: necessario è invece – lo vediamo bene oggi – “salvare Alessandria da Atene”. O meglio: salvare Atene e, insieme, rifondare Alessandria.

 

Francesca Rizzo Nervo - Porre oggi la questione in termini di “classico” e “anti-classico” è del tutto fuorviante. È necessario preliminarmente chiarire quel che si intende per “classico” e per “anti-classico”. La categoria di classico che va superata è quella incentrata sul culto ideologico di un modello culturale e, in riferimento a ciò di cui mi occupo, letterario, in cui Bisanzio è pressoché assente.

Non solo per l’età medievale, dunque, sembra valere quel che Calvino ebbe ad annotare, cioè che ci sono età nelle quali vi sono nomi ai quali non corrisponde nulla di esistente e oggetti esistenti che non hanno nome.

 Alla presunta purezza dell’ideale greco-latino posto all’origine della civiltà europea, incontaminato e da non contaminare nei suoi valori, è stato aggiunto quale elemento fondante dell’Europa il cristianesimo. In ambito religioso, anche a non voler dire, come ricorda Gianmario Cazzanica in un suo intervento del 2003 sulle radici dell’Europa, che Gesù, Paolo e Pietro erano ebrei palestinesi, che l’evangelista Marco fondò il patriarcato di Alessandria, evangelizzò l’Egitto dando origine alla chiesa copta e che le sue reliquie si trovano a Venezia solo perché sottratte dai Veneziani nel IX secolo, è indubbio che Alessandria e Costantinopoli furono i centri della cosiddetta cultura classica.

Si è rimossa l’evidenza che tutti i monoteismi hanno la stessa “origine” e che il mondo classico era politeista con quanto tutto ciò ebbe a comportare di positivo in termini di tolleranza.
Tutto ciò ha reso quella che indiscutibilmente è parte integrante degli esiti “europei”, cioè l’eredità classica, un monolite totalizzante, cupola metafisica di una oggettività inesistente, se non nelle elucubrazioni di un filone di pensiero dagli esiti devastanti.
La categoria di “anti-classico” si oppone a quella di “classico”, ma non alla valorizzazione del classico se storicizzato, destrutturato nella sua pluralità, letto in quel che continua a dire partendo dal contemporaneo.

Partendo dalla molteplicità del contemporaneo, è possibile scoprire che quel che a lungo si è ritenuto un monolite incontaminato era in realtà un mosaico, un’orchestra di suoni e voci diversi,  ed esercitare una salutare critica dei tanti stereotipi che continuano a schiacciare il classico in una visione idealistica fuori della storia, non solo dell’oggi ma anche di quella del passato più antico. E tutto questo Santo Mazzarino lo aveva già intuito/detto.

 


Tags

CLASSICITà , BISANZIO , storia , METODO , STORIOGRAFIA , CONTEMPORANEITà , PENSIERO POLITICO


Categoria

Storia


Siculorum Gymnasium

A Journal for the Humanites

ISSN: 2499-667X

info@siculorum.it