Qualche parola intorno al saggio di Giarrizzo su Mazzarino e la «crisi della civiltà»

di Domenico Conte

 

 

Del saggio di Giarrizzo su Mazzarino colpisce già il titolo, col suo largo riferimento alla «crisi della civiltà». Attraverso di esso, Giarrizzo intende evidentemente indicare uno degli ambiti prediletti degli studi del suo maestro, quello sulla fine del mondo antico, che trova nel libro omonimo del 1959 – stranamente mai citato nelle pagine in discussione, e ce ne si chiede il perché – e nello Stilicone – presente, invece, e in posizione dominante – due delle oggettivazioni di maggior rilievo. Il tema è di per sé grandioso. Ma proprio il riferimento alla «crisi della civiltà» lo slarga ad una dimensione ulteriore, che è quella “presentificante” sul Mazzarino soprattutto degli anni Trenta, anni sulla cui centralità – in Mazzarino e al di là di Mazzarino – Giarrizzo insiste alquanto. Ma il gioco dei rapporti e delle diverse prospettive non si ferma nemmeno qui, perché è altrettanto evidente che la «crisi della civiltà» non sta solo nel Mazzarino che, a partire dalla sua collocazione storica novecentesca, riflette sulla epifania della crisi nel mondo antico, ma sta anche, come tema storiografico e non soltanto storiografico, nel Giarrizzo che si confronta con Mazzarino a partire dalla sua (di Giarrizzo) prospettiva e collocazione, che è – così leggiamo – quella del rappresentante di una generazione «che fu di epigoni», il quale avverte forte «l’esigenza, che è allo stesso tempo intellettuale ed emotiva, di segnare un tracciato che dia conto insieme e del suo lavoro e del nostro».[1]

 

È la storiografia, col suo infinito gioco di prospettive e di angolazioni, di posizionamenti e di postazioni. Un gioco di cui proprio Mazzarino ci offre tante esemplificazioni, seguendo nei secoli il tema del tramonto dell’antichità. Ne richiamiamo qui a nostra volta una, che, col suo carattere autobiografico e generazionale, chiama direttamente in causa lo stesso maestro siciliano. Nel penultimo capitolo della Fine del mondo antico, intitolato «Decadenza e continuità», Mazzarino si confronta anche con l’opera di Toynbee e con la caratteristica terminologia dello storico inglese, che parla di maggioranze non creatrici e di minoranze creatrici, oppure di proletariati «esterni» ed «interni» (un caso di proletariato «interno» sarebbe quello rappresentato dal Cristianesimo, eversivo rispetto alla civiltà antica). E Mazzarino commenta:

Formulazioni sociologiche di questo genere appaiono attuali per uomini moderni, che si rassegnarono alla dottrina di cicli culturali soggetti ad un irreparabile crollo; esse sarebbero state più difficili a concepirsi in una società come l’ottocentesca, la quale non rinunciava all’idea del progresso, neanche in mezzo alla desolazione delle molte fallite prove di Adamo. E tuttavia, Toynbee non è Spengler; il quarto decennio, e i seguenti del nostro secolo, hanno qualcosa che li stacca – nonostante la tragedia della seconda guerra mondiale – dall’età del primo dopoguerra. Non siamo riusciti (né riusciremo mai più) a ritrovare il senso della continuità senza riserve; ma la nostra fede nell’energia creatrice dell’uomo è ritornata. Oggi soprattutto. All’idea della decadenza tendiamo a contrapporre la nuova immagine, si direbbe, di una continuità, e anche di una decadenza condizionata.[2]

Il brano appena citato si può legare all’osservazione di Giarrizzo secondo cui il gusto di Mazzarino per la mediazione e la sintesi dialettica troverebbe una sua applicazione determinante proprio nel desiderio di «vincere la tentazione ritornante (e propria della cultura europea degli anni Trenta) del pessimismo sulle civiltà che sono destinate a morire».[3] A ciò, Mazzarino avrebbe contrapposto «il bisogno di credere nelle civiltà, che scompaiono in apparenza per ricomparire in vario modo attraverso fenomeni carsici o vulcanici, entro un magma che riporta nel flusso storico e quel che sembrava perduto e la nuova creazione».[4]

Non è un caso, allora, che l’ultimo capitolo della Fine del mondo antico si chiuda con una «critica all’idea di decadenza», fatta però, per così dire, in nome della decadenza, visto che, a partire dal Verlaine di Langueur («Je suis l’Empire à la fin de la décadence…»), citato da Mazzarino con osservazioni assai fini, è un intero mondo, e molto moderno, quello, per l’appunto, del “decadentismo”, a guardare con occhi diversi al tardoantico, vedendo in esso non solo decadenza, bensì anche l’emergere e il diffondersi di una sensibilità all’avanguardia:
 

L’avvicinamento fra noi e il mondo tardoromano, in quanto entrambe le epoche esprimono un travaglio ed un’incertezza irrimediabili, è un punto su cui tutti potremo essere d’accordo. Immaginiamo un colloquio con un classicista intransigente. Egli osserverà, per esempio, che le mura di città assediate non si buttano a terra con la spallata di un soldato, come sembra avvenire in una scena dell’arco di Costantino. Critiche di questo genere non sembreranno nuove perché ne sentiamo di analoghe, ogni giorno, a proposito di un qualunque dipinto di Chagall o di Picasso.[5]

Il riferimento al «classicista intransigente» consente al nostro discorso di spostarsi senza salti troppo violenti su di un altro dei temi principali dell’analisi giarrizziana della figura di Mazzarino, cioè sulla qualità del suo “classicismo” o, meglio, anticlassicismo. Giarrizzo insiste molto su questo punto, che percorre come un filo rosso tutto il suo ampio contributo: Mazzarino, già influenzato dall’«etrusco» Pareti, è un antichista «anticlassico», ovvero schierato sul fronte opposto a quello occupato dagli “ellenisti”, da Berve a Jaeger (il «terzo umanesimo») a Walter Otto e (aggiungiamo noi) a Kerényi, tutti accomunati da una concezione della grecità come storia «unica e esemplare». Ed è significativo, ed anche in parte sorprendente, che, in un passaggio del suo testo, Giarrizzo citi insieme, perché accomunati dalla medesima direttrice anticlassicistica, l’amato Mazzarino e il certo non amato Ernesto De Martino,[6] rappresentanti entrambi di un umanesimo non classicistico (l’umanesimo di De Martino è l’umanesimo «etnologico»). Colpisce anche la pagina dove Giarrizzo, sempre riprendendo Mazzarino e la dimensione anticlassicistica di questi, afferma che il mondo antico «non può essere (come vorrebbero i neo-umanisti) il fondamento della Bildung contemporanea»[7]. Il che dischiude, evidentemente, un problema di enorme rilevanza, anche sul piano dell’organizzazione degli studi scolastici ed universitari. L’uso della parola tedesca (Bildung) aprirebbe peraltro facilmente alla possibilità di ulteriori, più antiche connessioni (si pensa tra l’altro a Humboldt).

Il testo di Giarrizzo su Santo Mazzarino e la crisi della civiltà è un testo complesso e assai ricco, che è opportuno riproporre all’attenzione dei lettori odierni sia per il suo valore intrinseco, sia perché esso è esemplificativo di talune movenze caratteristiche del Giarrizzo storico e storiografo. Dicendo questo ci si vuole anche riferire agli squarci rapidi e nervosi aperti dall’intelligenza storiografica di Giarrizzo, che sono come usci improvvisamente dischiusi su paesaggi intellettuali che fanno sorgere nel lettore l’esigenza, non necessariamente soddisfatta, che l’uscio si spalanchi in tutta la sua ampiezza, anche per poter contemplare il paesaggio con la necessaria calma e distensione. È così che, per stare al saggio in discussione, il lettore vorrebbe capire meglio e sapere di più intorno a problemi che proprio Giarrizzo, grazie all’acume e alla capacità connettitrice che gli sono proprie, ha suscitato nel suo animo. Ad esempio, che cosa significa, anche politicamente, scrivere un’opera come lo Stilicone, «eroe vinto», un’opera pubblicata nel 1942 e pensata negli anni precedenti? Oppure, qual è fino il fondo il senso delle citazioni sapientemente trascelte da Giarrizzo? Talune sono finemente allusive: il lettore legge (la frase citata da Giarrizzo sta in Dalla monarchia allo Stato repubblicano) che in Italia «la varietà delle popolazioni italiche, indoeuropee e non indoeuropee, divenne unità in Roma: qui lo Spirito unificò, concluse la molteplice esperienza, e unificata, la donò al mondo».[8] E ci si chiede tante cose, beninteso non senza ricevere da Giarrizzo frammenti e schegge di risposte: le suggestioni gentiliane, l’anti-illuminismo e lo statalismo del giovane Mazzarino, quindi gli anni della Liberazione, con un Mazzarino «finalmente liberal-democratico e non più meramente statalista»,[9] ma poi, successivamente, anche il «populismo», da cui conseguirebbe un nuovo sguardo sulla crisi del IV secolo che Giarrizzo evidentemente non condivide.[10]

Discorso analogo è possibile fare per la collocazione filosofica e storiografica di Mazzarino. Anche qui Giarrizzo lancia squarci, aperture, suggestioni che sono affidate al lettore come se a questi spettasse poi il compito di ordinarle in un orizzonte compiuto: così a proposito dei «tratti più positivistici e organicistici che non storicisti» della storiografia di Mazzarino[11] (ma che cos’è «positivismo», cos’è «storicismo»?), o delle commistioni mazzariniane fra crocianesimo e bergsonismo,[12] oppure, ancora, del «relativismo storicista» e della sua «disperata pendolarità tra Ranke e Burckhardt».[13] Nei casi in cui la sistemazione non è delegata al lettore, ma è affidata a se stesso in quanto autore, tale sistemazione è di una ricchezza sincopata e tesa:

Ripreso dalla linguistica, il metodo di Mazzarino è più positivistico che non storicista: per quanto corretta da «contatti», la base etnico-linguistica consente di integrare e correggere le «lacune» di una evoluzione con frammenti di altre (si veda il singolare impiego del «caso siculo» per interpretare l’evoluzione italica). È il «sostrato», che qua e là documenta con la sua presenza l’esistenza di un comune processo evolutivo. Senza di esso la protostoria non sarebbe leggibile! Ma chi attiva il sostrato, chi lo fa quel che è, il nucleo perenne della esistenza storica di una «nazione»? La risposta è sconcertante, sospesa tra idealismo spiritualista ed evoluzionismo vitalistico».[14]

Dentro questo complesso panorama sta la domanda che, oggi, è la più complessa di tutte: cos’è «Occidente», cos’è «Europa»? Qui la risposta di Giarrizzo sembra essere quella stessa di Mazzarino: l’Europa, come già l’«antico», è koiné, «prodotto storico di incontro e collaborazione di culture».[15] In ciò sta il suo valore e, potremmo dire, la sua garanzia. Questa interpretazione, che è anche una previsione, appare ai nostri occhi troppo irenica. Facciamo però voti affinché sia ad essa, e non ad altre, a essere affidato il nostro futuro.

 

 

 

 


[1] G. Giarrizzo, Santo Mazzarino e la crisi della civiltà, in «Cassiodorus», I, 1995, pp. 79-119, qui p. 80.

[2] S. Mazzarino, La fine del mondo antico (1959), Milano, Rizzoli, 1988, p. 183.

[3] G. Giarrizzo, Santo Mazzarino e la crisi della civiltà, cit., p. 88.

[4] ibidem.

[5] S. Mazzarino, La fine del mondo antico, cit., pp. 189 sg.

[6] G. Giarrizzo, Santo Mazzarino e la crisi della civiltà, cit., p. 117.

[7] Ivi, p. 95.

[8] Ivi, p. 105. Cfr. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo Stato repubblicano. Ricerche di storia romana arcaica (1945), Milano, Rizzoli, 1992, p. 29.

[9] G. Giarrizzo, Santo Mazzarino e la crisi della civiltà, cit., p. 103.

[10] Ivi, p. 104.

[11] Ivi, p. 100.

[12] Ivi, p. 115, qui con forti dubbi sulla matrice storicistica di Mazzarino: «ma la chiave dello storicismo (ma è poi tale?) di Mazzarino […]».

[13] Ivi, p. 118.

[14] Ivi, p. 105.

[15] Ivi, p. 79.

 


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MAZZARINO , CLASSICISMO , CIVILTà , GIUSEPPE GIARRIZZO


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Filosofia


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