Sustainable Development Goals e Laudato si’: esempi  di Post-sviluppo?

 

di Wolfgang Sachs

 

Com’eravamo ingenui a proclamare con presunzione la fine dell’“era dello sviluppo”! Nell’autunno del 1988, a casa di Barbara Duden presso la Pennsylvania State University, dove ci riunivamo fra amici, tra un piatto di spaghetti e un bicchiere di vino rosso, per le cosiddette “living room consultations”, ci balenò la folle idea di pubblicare un “dizionario dello sviluppo”.[1] Non un comune manuale, bensì un testo critico che scandagliasse il concetto di sviluppo, parola chiave della Weltpolitik della seconda metà del Ventesimo secolo, in senso foucaultiano. Secondo Foucault, conoscenza e potere sono inseparabili, tuttavia il potere non si basa necessariamente sulla repressione, ma sulla libertà (seppur indirizzata). Dunque lo “sviluppo”, nella nostra concezione, era inteso come la materia di cui sono fatti i piani, le previsioni, i sogni. In breve, una visione del mondo in cui il potere viene esercitato tramite il consenso sociale. Oltretutto, l’idea di “sviluppo” ha una storia che è tipica di molti altri concetti: ciò che una volta era un’innovazione storica diviene per molto tempo una convenzione e finisce per essere una frustrazione. Il nostro spiritus rector, Ivan Illich, che sedeva in mezzo a noi, si rese conto che l’idea si adattava perfettamente alla sua archeologia della modernità, che aveva intenzione di scrivere. Secondo Illich si poteva parlare di “sviluppo” soltanto con uno sguardo retrospettivo.
Se guardiamo indietro, è sorprendente quello che in passato non sapevamo o non immaginavamo nemmeno, ad esempio la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda con le sue implicazioni sul concetto di “sviluppo” utilizzate dal presidente Truman contro il comunismo; il sistema degli stati nazionali ridotto ad un colabrodo dalla globalizzazione dei mercati; un ordine mondiale sempre più policentrico che sta scompaginando la gerarchia delle nazioni e sta minando soprattutto l’egemonia degli Stati Uniti; internet e gli smartphone che hanno creato uno spazio di comunicazione globale e, infine, l’ascesa di Paesi emergenti che ha relegato le tradizionali categorie come “terzo mondo” e “Paesi donatori” nella pattumiera della storia.
Comunque sia, ci opponevamo all’idea di “sviluppo”[2] inteso in termini cronopolitici, geopolitici, e di politiche civili.[3] Dal punto di vista cronopolitico è come se tutti i popoli sulla faccia della terra avanzassero sullo stesso binario, diretti verso il progresso sociale ed economico, che però non viene mai definitivamente raggiunto. Geopoliticamente, invece, i corridori al comando indicano il cammino a tutti gli altri: la molteplicità di popoli nel mondo, un tempo disordinata, si configura in una netta distinzione tra nazioni ricche e nazioni povere. E infine, dalla prospettiva delle politiche civili, si può definire lo “sviluppo” di una nazione in base al suo grado di rendimento economico, quindi in base al prodotto interno lordo. Le società che sono appena sfuggite alla colonizzazione devono quindi porsi sotto la custodia dell’economia.
Che ne è stato di questo concetto? “Sviluppo” è diventata una «parola di plastica», una parola vuota, che conferisce valenza positiva alle intenzioni più contraddittorie.[4] Tuttavia lo “sviluppo” permane come visione del mondo, poiché è integrato in un intreccio internazionale di istituzioni, dalle Nazioni Unite, passando per i ministeri, fino ad arrivare alle ONG. Inoltre è possibile ricostruire la notevole metamorfosi di questo concetto fino ai giorni nostri. Nel 2015 abbiamo assistito a una intensificazione del discorso sullo sviluppo: a giugno è apparsa l’enciclica papale Laudato si’, a settembre gli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, abbreviato anche in SDGs) delle Nazioni Unite e, infine, a dicembre, l’accordo sul clima di Parigi. Questi documenti sono ancora vincolati all’idea di sviluppo? O, piuttosto, possono essere considerati espressioni del pensiero del post-sviluppo?

 

La trasformazione del concetto di “sviluppo” negli SDGs

L’assemblea generale delle Nazioni Unite ha stabilito gli obiettivi di sviluppo sostenibile e, con l’Agenda 2030, ha stilato un programma che dovrebbe dettare la direzione della Weltpolitik per i prossimi quindici anni.[5] Esso è il risultato di due processi: da un lato gli obiettivi di sviluppo del millennio del 2000, dall’altro i documenti della conferenza di Rio+20 del 2012, che riprendeva le fila dell’Agenda 21 del vertice mondiale del 1992. La redazione degli SDGs ha seguito una lunga trafila, con consultazioni in 88 Paesi, trattative tra gli Stati, una commissione prestigiosa e soprattutto una grande partecipazione della società civile. In breve, i 17 obiettivi e i 169 sotto-obiettivi stabiliti vanno dal “no alla povertà” passando per “istruzione per tutti”, fino a “energia rinnovabile”. È un affare complesso, un catalogo di impegni che si avvicina, solenne e visionario, ma non prevede alcun tipo di obbligo, né possibilità di sanzioni. Non c’è da meravigliarsi se alcuni parlano di un programma che, con le sue richieste vaghe e i suoi scopi pretenziosi, potrebbe invitare i governi all’inazione.[6]
Eppure le dichiarazioni permanenti, anch’esse non vincolanti, sono indispensabili per i governi del mondo. L’esempio più recente è quello dell’accordo sul clima di Parigi del dicembre 2015, che coniuga un obiettivo considerevole a un impegno piuttosto vago. O ancora, chi non ricorda i frequenti appelli delle Nazioni Unite per la lotta contro la fame e la protezione dell’ambiente? Sono soltanto elementi retorici che vengono riproposti già dal congresso mondiale sul cibo di Washington del 1963 o dalla conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano del 1972 a Stoccolma. Anche i governi più volenterosi sono in una situazione spiacevole. Da una parte devono arrendersi alla pressione dei problemi oggettivi e alla spinta della società civile; dall’altra sono vincolati ai mercati capitalistici come anche ai desideri di consumo della loro società. Di conseguenza c’è un necessario potenziale simulativo insito nelle dichiarazioni delle Nazioni Unite.[7] Si comportano come se… mentre già traspare la logica di mercato. Si tratta più di una notevole dose di auto-inganno che di errore. D’altra parte il palcoscenico delle Nazioni Unite è perfetto per proclamare nobili obiettivi e poi adoperare la Realpolitik nella quotidianità. Così la discrepanza tra retorica internazionale e misure nazionali è diventata una caratteristica strutturale della politica contemporanea. Come si può interpretare la dichiarazione dei governi “Ci impegniamo a lavorare instancabilmente per una totale attuazione dell’Agenda 2030”[8] se non come un esercizio di simulazione, dato che sono gli stessi governi a favorire l’estrazione di carbone, il land grabbing o l’industria finanziaria?

 

Sopravvivenza anziché progresso

È ormai lontano il tempo in cui lo sviluppo era ancora una promessa. Allora si parlava di nazioni “giovani”, “ambiziose” sulla via del progresso. In effetti la crono-politica, la geopolitica e le politiche civili sullo sviluppo hanno generato una monumentale promessa storica, la promessa che alla fine tutte le società sarebbero state in grado di colmare il divario tra ricchi e poveri e di cogliere i frutti della civiltà industriale.

Il discorso sullo sviluppo ha dovuto incassare due colpi da cui non si è ancora risollevato: la persistenza della povertà e la finitezza della natura. Gli aiuti a favore dello sviluppo si sono concentrati sulla lotta alla povertà, tuttavia la sua riproduzione costante, anche dopo la scadenza del termine previsto perché venissero raggiunti gli obiettivi del millennio, rimane allarmante. Sicuramente il numero delle persone in condizione di povertà assoluta è calato drasticamente nei Paesi emergenti, ma nei Paesi più poveri è rimasto invariato. Inoltre, la politica per la riduzione della povertà paga il prezzo di un’enorme disuguaglianza e dei danni ambientali. Secondo colpo: il surriscaldamento globale, la perdita della biodiversità, l’avvelenamento di mari e terre, tutto ciò ha tolto fondamento alla convinzione che i Paesi sviluppati fossero all’apice dell’evoluzione. Al contrario, il progresso si è rivelato in larga parte come regresso, perché l’economia del nord del mondo non può far altro che sfruttare la natura. Le analisi, da Limits to Growth del 1972 a Planetary Boundaries del 2009, parlano chiaro: lo sviluppo inteso come crescita conduce all’inospitalità del pianeta Terra per gli uomini.[9]
Così dagli SDGs non vengono fuori piani stratosferici per un progresso stellare, anzi essi cercano di assicurare il minimo indispensabile per garantire una vita dignitosa in tutto il mondo. La call to action del documento approvato recita: «Noi saremo la prima generazione a riuscire a porre fine alla povertà; così come noi potremmo essere gli unici ad avere la possibilità di salvare il pianeta. Il mondo sarà un posto migliore nel 2030 se riusciremo nei nostri intenti».[10] A prescindere dall’uso reiterato della parola “noi” (a chi si riferisce? Ai governi? Ai volenterosi? O all’umanità?), l’appello è appassionato e nobile, tuttavia non può nascondere il fatto che il modello di sviluppo un tempo trainante è stato ridotto più o meno alla garanzia di sopravvivenza. Circa 7 degli obiettivi sono relativi alla vulnerabilità dell’uomo (eliminare la povertà, assicurare l’alimentazione, garantire una vita sana a tutti, istruzione per tutti, parità tra i sessi, acqua e servizi sanitari, energia sostenibile) e 5 alla vulnerabilità ecologica (città sostenibili, modi di produzione e consumo sostenibile, lotta al cambiamento climatico, protezione degli oceani e degli ecosistemi). In tal modo si concretizzano nient’altro che vincoli relativi ai diritti umani e imperativi ecologici, camuffati da obiettivi programmatici, ma della classica narrativa sullo sviluppo non c’è traccia.
Mettere sullo stesso piano sviluppo e sicurezza è una pratica entrata nell’uso comune negli anni Novanta, quando si è modificata, nei vecchi Paesi industrializzati, la percezione dei Paesi poveri. Mentre prima essi erano considerati una speranza per la ripresa, adesso sono visti come zone a rischio con cui mettere in atto le misure di prevenzione della crisi. Sono percepiti come luoghi di provenienza di persone in cerca di lavoro e rifugiati, se non come focolai di destabilizzazione e terrorismo. I Paesi ricchi cercano di proteggersi da questo tipo di minacce mettendo in atto la prevenzione dei conflitti nei Paesi più poveri. In questa categoria di azioni rientrano oggi le dichiarazioni sulla crisi dei rifugiati rilasciate dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, secondo cui il benessere d’Africa è di interesse per la Germania,[11] e dall’amministratore delegato della Bayer, Werner Baumann, il quale ha affermato che la fusione in programma con Monsanto ha lo scopo di combattere la fame nel mondo.[12] Anche se così fosse, gli SDGS presentano un inganno semantico: l’utilizzo del termine development. I Sustainable Development Goals avrebbero dovuto chiamarsi piuttosto SSG, Sustainable Survival Goals.

 

Un unico mondo anziché Nord-Sud

Se guardiamo indietro ci rendiamo conto che il vertice del 2000 ha rappresentato soltanto l’epilogo del Ventesimo secolo e non l’anticipo del Ventunesimo. Allora, a New York, si riprodusse lo schema dei cinquant’anni precedenti: il mondo già diviso in Nord e Sud dove i Paesi donatori andavano incontro ai Paesi beneficiari per prepararli alla corsa globale con capitali, crescita e politiche sociali. È uno schema familiare, un sedimento della storia coloniale. Così negli anni postbellici l’imperativo della ripresa era sulla bocca di tutti. Cosa ne è stato di questo concetto così importante per l’idea di sviluppo?
A questo proposito è rilevante citare un passaggio del documento di promulgazione degli SDGS: «Questa è un’agenda senza precedenti per quanto riguarda gli scopi e il significato. È condivisa da tutti i Paesi e applicabile a tutti, tenendo conto delle diverse realtà nazionali… Sono obiettivi universali che coinvolgono il mondo intero, sia Paesi sviluppati che in via di sviluppo».[13] Gli obiettivi sostenibili di sviluppo pretendono quindi di avere valenza globale e universale. La scissione mentale non poteva essere formulata più chiaramente: la geopolitica dello sviluppo, secondo cui i vecchi Paesi industrializzati dovrebbero servire da modello per i Paesi più poveri, è stata solennemente accantonata. Quanti progetti, quanta passione, quante risorse e romanticismo ci sono voluti per attuare il sogno della ripresa! L’escatologia secolare appartiene al passato. Così come nel 1989 l’era della guerra fredda era avvizzita, così nel 2015 è appassito il mito della ripresa. Del resto raramente un mito è stato sepolto con così tanta disinvoltura e in silenzio come questo. Che senso ha lo sviluppo quando non ci sono Paesi che si possono definire sviluppati? Non è più una provocazione allora definire gli stati industrializzati come Paesi in via di sviluppo.
Tutto ciò non è caduto dal cielo. Già nel paragrafo 7 della dichiarazione di Rio del 1992 il principio common but differentiated responsibilities era ancorato alla politica ambientale. Sulla base di questo principio ai Paesi in via di sviluppo non venivano imposte misure restrittive nel protocollo di Kyoto. Ma venti anni dopo questa indulgenza non può più essere mantenuta, perché la geografia economica del mondo è cambiata.[14] Secondo la conferenza sul clima di Durban del 2011 e il seguente vertice di Rio+20, i Paesi emergenti devono assumersi una parte della responsabilità per i danni causati alla biosfera. I Paesi industrializzati, d’altra parte, non possono disconoscere il fatto che il loro modello economico ha enormi ripercussioni sui Paesi più poveri, per quel che riguarda il commercio agricolo, il mercato del lavoro e l’impatto climatico. Giri di parole e diatribe politiche non possono negare che in fondo gli obiettivi sostenibili devono essere validi per tutti i Paesi.
Questa è una manifestazione tardiva del passaggio dall’era dello sviluppo all’era della globalizzazione. Si è formato, al di sopra degli Stati, un mondo transnazionale connesso da catene di valore, modelli di consumo simili e modalità di pensiero globale. L’ascesa dei Paesi emergenti e il rafforzamento della classe media globale ne sono la testimonianza. L’aspetto più rilevante è naturalmente la crescita della Cina e soprattutto la sua rapidità: dal 2014 è la più grande potenza economica della Terra, sebbene nel 2005 l’economia degli Stati Uniti fosse ancora il doppio di quella cinese. Nel frattempo i sette più grandi Paesi emergenti sono diventati economicamente più forti dei vecchi Paesi industrializzati, che riuniti nel gruppo del G-7 detengono l’egemonia dell’economia mondiale. Per lo meno la fondazione del gruppo G-20 tiene conto della mutevole economia mondiale.
In ultimo è emersa una nuova classe media transnazionale. Tra il 1990 e il 2010 la percentuale dei membri della classe media globale nel sud del mondo è cresciuta dal 26 al 58% e probabilmente raggiungerà l’80% nel 2030.[15] I membri di questo gruppo fanno shopping negli stessi centri commerciali, comprano oggetti hi-tech, guardano gli stessi film e le stesse serie tv, fanno i turisti in giro per il mondo e hanno accesso al medesimo mezzo fondamentale: il denaro. Sono parte di un complesso economico transnazionale che ha un mercato di sbocco su scala globale. La Samsung fornisce loro gli smartphone, la Toyota le auto, la Sony i televisori, la Siemens i frigoriferi, Burger King i fast food, Time Warner i video. A prescindere dai costi culturali, questo è certamente un enorme successo per lo sviluppo, avvenuto anche a costo di un grande logorio della biosfera. Senza andare per il sottile, al momento l’uscita dalla povertà e dalla condizione di subalternità conduce a un’economia di rapina ecologica.

 

Indicatori sociali anziché PIL

Negli anni del dopoguerra sono emerse ricorrenti osservazioni critiche riguardo al fatto che le politiche sullo sviluppo siano state fuorvianti. Tuttavia permane indiscussa la predominanza di un indicatore magico, il PIL. Questo indicatore è alla base dell’idea di sviluppo poiché permette di creare una gerarchia tra le nazioni presumibilmente oggettiva.[16] Basandosi su una visione del mondo di tipo economico e su strumenti statistici, gli esperti interpretano lo sviluppo come crescita della produzione e del reddito pro capite. Dagli anni Settanta in poi si è generata una dicotomia nel discorso sullo sviluppo, che contrappone lo “sviluppo come crescita” allo “sviluppo come politica sociale”. Istituzioni come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio propendono per lo “sviluppo come crescita”, mentre l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), l’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), così come la maggior parte delle ONG, sostengono un’idea di “sviluppo come politica sociale”. Così il concetto di “sviluppo” è diventato un adesivo universale che si può applicare alla costruzione di aeroporti così come alla perforazione di pozzi. Sia gli obiettivi del millennio che gli SDGs affondano le radici in questa tradizione.

Il rapporto tra indicatori sociali e crescita economica si rivela sempre più un terreno spinoso. L’agenda 2030 da un lato lamenta il degrado degli ecosistemi marini o la crescita della disuguaglianza, ma dall’altro, esige una crescita economica,[17] almeno del 7% per gli stati più poveri, e conferma il sistema commerciale dell’organizzazione mondiale del commercio.[18]
Si dovrebbe far fronte alla discrepanza, o meglio alla contraddizione, tra obiettivi di crescita e obiettivi sostenibili con il ricorso alla “crescita inclusiva” e alla “crescita verde”. Di contro, tutti sanno che una crescita inclusiva guidata dai mercati finanziari è impossibile da realizzare, poiché produrrebbe nuove disuguaglianze. Lo stesso vale per lo slogan della crescita verde. Durante il G-7 si è discusso a fondo del fatto che una crescita economica spinta dalle materie prime fossili è da escludere. Nel 2015 è stata presa approvata all’unanimità la decarbonizzazione dell’economia mondiale fino alla fine del secolo. Ciononostante, nessuno sa come ciò potrebbe funzionare senza compromettere la biodiversità già a rischio. Le ricette per la crescita verde si basano tutte sulla separazione tra consumo delle risorse naturali e crescita economica, ovvero sul fatto che il consumo delle risorse possa calare anche in presenza di una crescita economica, sebbene un’assoluta disgiunzione tra le due cose non si sia mai verificata nella storia.[19] L’Agenda 2030 non osa parlare di prosperità senza crescita, nemmeno per i vecchi Paesi industrializzati.
Comunque il discorso sullo sviluppo persiste. Gli indicatori sociali hanno rimpiazzato il PIL per determinare il rendimento di un Paese sotto diversi aspetti, per questo gli statistici di tutti i Paesi si sono riuniti per annunciare la cosiddetta data-revolution. Come si legge nel rapporto del segretario generale delle Nazioni Unite per la preparazione degli SGDs:

 

I dati sono la linfa vitale dei processi decisionali. Senza dati non possiamo sapere quante persone sono nate e a che età muoiono; quanti uomini, donne e bambini vivono ancora in condizioni di povertà; quanti bambini hanno bisogno di istruzione; quanti medici ci sono da formare e quante scuole da costruire; come viene speso il denaro pubblico e con quali effetti; se le emissioni di gas serra stanno aumentando o se il numero di pesci nell’oceano sta diminuendo; quante persone lavorano in un determinato settore, quali compagnie sono in attività e se l’economia è in espansione (Independent Group 2014).[20]

 

Gli analisti devono lavorare duramente, seguendo le parole di Lord Kevin, secondo cui si può migliorare soltanto quello che si è già misurato. Al momento, grazie alle tecnologie digitali, il monitoraggio di molti aspetti della vita sta subendo dei cambiamenti per quanto riguarda la quantità, il grado di precisione e la velocità di trasferimento dei dati. Così campi complessi come l’istruzione, la sanità, lo stato degli oceani o la situazione dell’alimentazione, sono stati quantificati, indicizzati e messi a paragone con altre tipologie di dati.
La quantificazione riduce la complessità: i numeri semplificano, quindi gli attori politici, come i governi e le ONG, possono utilizzarli come delle formule.[21] Tuttavia, dietro queste brevi formule si cela la Storia, un intero panorama di lotte sociali, prospettive culturali e consuetudini. Nei numeri è insito un enorme effetto di omogeneizzazione: le immense differenze del mondo si riducono a una scala di numeri. Inoltre questa rivoluzione dei dati non riesce a slegarsi dal credo dello sviluppo, mentre, al contrario, lo sviluppo si alimenta con la dittatura del paragone. Dovunque si guardi, i dati quantificati servono a innescare paragoni in termini di tempo e spazio, paragoni che danno vita a deficit tra gruppi e nazioni. Tutto ciò fomenta il pensiero sullo sviluppo: abbattere deficit nel mondo è affare dello sviluppo da settant’anni. L’indice di sviluppo umano (Human Development Index) è, come il PIL, un indicatore di deficit, esso permette di creare una gerarchia tra i Paesi e presuppone una sola determinata modalità di evoluzione sociale. Gli SDGS, insieme ai 17 obiettivi e ai 169 sotto-obiettivi, rientrano in questa tradizione. Dal momento che i numeri sono l’ossatura di uno sviluppo multidimensionale, l’Agenda 2030 porta, aldilà dei nobili obiettivi, alla geometrizzazione del mondo.

 

Laudato si’: l’addio allo sviluppo

La sera del 13 marzo 2013 Papa Francesco, dalla loggia della Basilica di San Pietro, ha sorpreso migliaia di persone con il suo saluto: Buona sera! Niente latino, niente cerimoniali, il Papa fresco di nomina ha adottato già dalla sua prima dichiarazione un tono di semplicità e fratellanza. E nella seconda frase, in maniera un po’ impacciata ma con ampi gesti, ha fatto un’affermazione che avrebbe caratterizzato il suo pontificato: «Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prendermi alla fine del mondo, ma siamo qui...».
In effetti Francesco è argentino ed è il primo non europeo, per di più dell’emisfero australe, a sedere sulla cattedra di San Pietro. Ha donato una prospettiva latinoamericana alla Chiesa e al mondo. Il suo distacco nei confronti delle questioni dogmatiche e di diritto canonico, la sua attenzione per le opere di misericordia verso i poveri, i rifugiati e gli emarginati, e non ultimo il suo turbamento dinanzi alla distruzione dell’ambiente, tutto questo non può essere compreso senza considerare il suo background sudamericano.
Con l’enciclica Laudato si’ del giugno 2015 Papa Francesco ha annunciato solennemente la sua visione del mondo, suscitando grande interesse nell’opinione pubblica mondiale. Bisogna ricordare che l’annuncio ha rappresentato soltanto il primo passo di un’offensiva diplomatica che ha portato il Papa a contribuire alla distensione dei rapporti tra Cuba e gli Stati Uniti, dove egli, figlio di genitori emigrati, ha insistentemente messo in guardia contro il pericolo della xenofobia sia al Congresso sia all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che lo stesso giorno ha approvato gli obiettivi di sviluppo sostenibile. La Laudato si’ affronta molte questioni, dalla distruzione del creato, passando per un ingiusto ordine del mondo, fino alla responsabilità dell’individuo. Si può inserire la visione del Papa nella categoria del post-sviluppo?

 

Una dichiarazione di dipendenza reciproca

È noto che il Papa con questa enciclica ha fatto colpo, soprattutto sugli ambientalisti di tutto il mondo. Per la prima volta una crisi ambientale epocale è diventata oggetto di un’enciclica. Ancora una volta si dimostra vero il detto che la chiesa misura il tempo in secoli – o al massimo in mezzi secoli: sono passati più o meno cinquant’anni tra il Manifesto del Partito Comunista e l’enciclica Rerum novarum e anche tra la pubblicazione del libro che ha fatto rinascere il movimento ambientalista, Silent Spring di Rachel Carson e la Laudato si’. L’attesa è valsa la pena: la Laudato si’ è un documento forte, stilisticamente elegante e soprattutto adeguato ai tempi.
Se si legge l’enciclica con gli occhi di un esperto di sviluppo, emerge un paradosso; gli esperti concordano, sebbene il concetto di sviluppo non abbia alcun ruolo. Forse sono sorpresi da una lingua non convenzionale, tuttavia è indubbio che non c’è traccia di una trattazione crono-politica dello sviluppo. Non si parla di progresso, né di promesse per il futuro. Si ha l’impressione che la freccia del tempo che ha segnato la percezione della storia per due secoli sia stata eliminata. Nessuna traccia di ottimismo nei confronti del progresso, di miglioramento lineare, né aspettative travolgenti, bensì riflessioni asciutte e accurate sul presente.
Era diverso ai tempi di Paolo VI e della sua enciclica Populorum progressio del 1967. Allora il magistero della chiesa aveva postulato, in ritardo sul discorso relativo alle politiche dello sviluppo, che i Paesi poveri del mondo fossero sulle tracce dei Paesi più ricchi per raggiungere il vero sviluppo umano. La questione ambientale non veniva affrontata minimamente. Nella nuova enciclica la disapprovazione della freccia del tempo nella storia arriva al punto che, sebbene si parli della natura, non si accenna all’evoluzione. Questo rifiuto implicito nega la possibilità di interpretare la fede nella creazione da un punto di vista cosmologico, come hanno fatto il teologo e scienziato francese Teilhard de Chardin o il teologo e storico della cultura statunitense Thomas Berry, rispettivamente all’inizio e alla fine del Ventesimo secolo.

Invece nel documento papale la freccia del tempo viene sostituita da una coscienza dello spazio. Nel modello di pensiero globale attuale, infatti, si è affermata la prevalenza dello spazio sul tempo: la disposizione delle cose in un contesto virtuale o geografico è più importante della loro sequenza nel tempo. Tale cambiamento epocale della percezione è peraltro uno dei motivi dell’affievolirsi del pensiero sullo sviluppo. L’enciclica pone decisamente l’accento sullo spazio, come si evince chiaramente dal sottotitolo: «Sulla cura della casa comune» e il suo punto cruciale è la vulnerabilità del creato. Il documento critica le diverse violazioni della natura così come la denigrazione massificata dell’essere umano ed è in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Inoltre ascolta «tanto il grido della terra quanto quello dei poveri»,[22] ponendo però l’accento sulla cura e non sul management. Dunque le violazioni della natura e dell’umanità sono viste, al di là delle questioni fisiche, come iniquità contro la relazione sistemica che lega tutti gli esseri viventi, uomo incluso.
Non è un caso che nell’enciclica si parli spesso di relazioni, relazioni con la natura, con gli altri, con se stessi e con Dio.

 

Non è superfluo insistere ulteriormente sul fatto che tutto è connesso. Il tempo e lo spazio non sono tra loro indipendenti, e neppure gli atomi o le particelle subatomiche si possono considerare separatamente. Come i diversi componenti del pianeta – fisici, chimici e biologici – sono relazionati tra loro, così anche le specie viventi formano una rete che non finiamo mai di riconoscere e comprendere.[23]

 

Mentre l’Agenda 2030 verbalizza burocraticamente la situazione infelice del mondo in modo dettagliato, la circolare papale tenta di dare una visione di insieme per giungere a una narrativa del cambiamento e dell’impegno.[24] Si può leggere l’intera enciclica come una dichiarazione di interdipendenza, che ha sostituito la dichiarazione di indipendenza nell’era degli stati nazionali. Le ingiustizie contro la sfera vitale non sono soltanto un peccato, ma hanno in più effetti collaterali su tutto l’insieme. Se si volesse aggiungere una dimensione temporale, si potrebbe dire che l’enciclica è scritta per prevenire un futuro inospitale. In tal senso, il concetto di sviluppo viene capovolto.

 

Non c’è giustizia senza sufficienza

Come nel caso della crono-politica, colpisce anche l’assenza della geopolitica dello sviluppo. Nell’enciclica, lo schema nord-sud appare solo tra i paragrafi 170 e 175, in cui si discute della compensazione internazionale e dei finanziamenti per le politiche sul clima. Per il resto vale il principio generale: «L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, a un progetto comune».[25] Ciò è molto vicino agli obiettivi di sviluppo sostenibile; entrambi i documenti, infatti, non vogliono avere nulla a che fare con la geopolitica.

In contrasto con gli SDGs, l’enciclica suppone che il saccheggio del pianeta abbia già oltrepassato i limiti ecologici senza aver risolto il problema della povertà.[26] Questo è il grande dilemma dei giorni nostri e l’Agenda 2030 è molto lontana dal comprenderlo appieno. Non parla dei limiti, ma discute più che altro di rischi e carenze, nonostante una quantità di scienziati, a partire dalla pubblicazione di Limits to Growth del 1972 fino a Planetary Boundaries del 2009, abbia fatto il contrario.[27] Lo sfruttamento della Terra è drasticamente aumentato: secondo i calcoli del Global Footprint Network, l’uomo utilizza ogni anno 1,6 volte le risorse disponibili sulla biosfera. Gli oceani svuotati, la devastazione del mondo animale e vegetale così come il caos climatico lo testimoniano.[28] Trascurando questi dati, l’Agenda 2030 protegge il modello di crescita industriale. La salvaguardia della natura viene sempre messa in secondo piano rispetto alla crescita, si ripete la solita storia, dalla conferenza delle Nazioni Unite del 1972 al rapporto Brundtland nel 1987 fino all’Agenda 2030. Ma non per il Papa. Lui parla di limiti, sia ecologici che sociali, e ritiene che il modello di crescita industriale sia responsabile di molti deficit nello sviluppo. In un punto preciso dell’enciclica suggerisce persino la “decrescita” per le zone più agiate della Terra.[29] In altre parole, il Papa è sostenitore di una modernità riduttiva e non espansiva.[30]

Se su un pianeta limitato abitano sempre più persone, la disuguaglianza sociale si trasforma in un problema ecologico. I ricchi consumano più risorse, di conseguenza i poveri ne hanno sempre di meno. Un maggiore consumo di carne, ad esempio, riduce le superfici coltivabili per la produzione di cibo per l’uomo, una motorizzazione diffusa si traduce in meno spazio per pedoni e ciclisti, e necessita dell’estrazione di minerali e petrolio. Inoltre l’utilizzo di massa di computer e smartphone richiede energia, terre rare e altri materiali e per di più si ricollega all’industria mineraria e a cattive condizioni di lavoro. In breve, la classe media e la classe alta, sia nei Paesi industrializzati che in quelli emergenti, conservano uno stile di vita imperialista.[31] Per questo motivo l’enciclica cerca di mettere in relazione l’ambiente con la povertà, poiché «tanto l’esperienza comune della vita ordinaria quanto la ricerca scientifica dimostrano che gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera».[32] Mentre l’Agenda 2030 mette in risalto nell’obiettivo numero 12, Ensure sustainable consumption and production pattern, l’efficienza dell’impiego delle risorse e con ciò costituisce un ritorno all’indietro rispetto all’Agenda 21 di Rio 1992, la Laudato si’ si basa sulla sufficienza, inserita in un cambio di paradigma culturale. Quindi, i ricchi, e non i poveri, devono cambiare; bisogna prima diminuire la ricchezza, poi la povertà.

Si dovrebbe concedere maggiore libertà ai più deboli e far sì che i ricchi cessino di appropriarsi delle risorse dei poveri. Si può notare, in particolare, come l’enciclica faccia ricorso in un paio di pagine al concetto di “debito ecologico”.[33] I ricchi nel Nord del mondo hanno accumulato questo tipo di debito senza esserne coscienti perché le parti penalizzate sono molto lontane da loro sia geograficamente che socialmente e temporalmente. I poveri stanno pagando più di chiunque altro il prezzo del benessere del nord del mondo. Forse si può riassumere così il concetto di “sufficienza”: fare tutto il possibile per non vivere a spese di altri.

 

Il bene comune contro la tecnocrazia

Il bene comune è il più grande sconosciuto dell’economia neoclassica. In una democrazia pluralista esso è sottoposto a un processo di continua ricerca. Finché si sostiene che la società non debba essere una marionetta nelle mani del potere e dell’interesse del singolo, il concetto di bene comune è indispensabile. Di conseguenza tale concetto ha dominato la filosofia politica, nelle sue varie sfaccettature, sin dall’antichità e riaffiora con forza nell’enciclica. Dal punto di vista delle politiche civili, l’enciclica rivendica il fiorire in tutte le società del bene comune, inteso non solo in senso tradizionale, come bene politico e sociale, ma anche come bene ecologico.
Con il ricorso al principio normativo del bene comune l’enciclica guadagna spazio per la critica. Si legge infatti:

 

La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono troppi interessi particolari e molto facilmente l’interesse economico arriva a prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per non vedere colpiti i suoi progetti.[34]

 

Ancora una volta l’enciclica attacca gli interessi di potere del sistema economico-finanziario che distruggono e calpestano il bene comune. Questa visione si staglia contro quella dell’Agenda 2030, che non tratta affatto dei motivi della costante riproduzione della povertà e del degrado della biosfera che ha reso necessari gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs). Trascurare le cause è tipico dei documenti delle Nazioni Unite e comodo per i governi, ma è letale per ogni terapia.

L’enciclica, invece, indaga in profondità e critica il paradigma tecnocratico che è stato fatale per la modernità. Nel capitolo intitolato La radice umana della crisi ecologica il Papa accusa la modernità di essere troppo contraddittoria: da una parte la scienza e la tecnica hanno portato un potere inaudito all’uomo, dall’altra l’uomo si è dimostrato di volta in volta incapace di utilizzare questo potere in modo ragionevole. Il suo strepitoso aumento non è stato accompagnato da responsabilità e lungimiranza.

 

Il paradigma tecnocratico tende a esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale.[35]

 

La prospettiva strumentale ha trasformato gli uomini e gli altri esseri viventi in meri strumenti per raggiungere obiettivi sempre più specifici ed è alla base del progressivo degrado del mondo e anche del fatto che l’ambiente viene sistematicamente messo in secondo piano nei processi decisionali della società. Nell’enciclica si trova l’eco della filosofia fenomenologica e critica del Ventesimo secolo, da Heidegger a Horkheimer.
È possibile superare il paradigma tecnocratico? Sicuramente, secondo il Papa, attraverso un’ardita «rivoluzione culturale».[36] La libertà umana è in grado di limitare la tecnica e di orientarla verso obiettivi utili alla vita. Nell’enciclica si possono trovare degli esempi: energia rinnovabile, produzione pulita, investimenti sociali, commercio equo, stile di vita modesto. Essa sostiene un commercio riflessivo che tenga conto ogni volta della responsabilità verso l’insieme della natura e dell’umanità e respinge le pratiche istituzionali, come l’abituale cecità dei soggetti decisori, che non lo permettono. Prudenza e lungimiranza insieme all’empatia contrastano la tecnocrazia. Viene da pensare automaticamente all’eterna lotta tra bene e male, trattata in molte religioni, che nell’enciclica ha trovato una forma contemporanea espressa non dogmaticamente, ma in modo accattivante, persino in un linguaggio ricco di immagini:

L’autentica umanità, che invita a una nuova sintesi, sembra abitare in mezzo alla civiltà tecnologica, quasi impercettibilmente, come la nebbia che filtra sotto una porta chiusa. Sarà una promessa permanente, nonostante tutto, che sboccia come un’ostinata resistenza di ciò che è autentico?[37]

 

La creazione e la sorellanza  universale

Quando Francesco D’Assisi (1181-1225), da cui il Papa ha preso il nome, chiamava gli animali, le piante e la materia stessa sorelle e fratelli lo intendeva in senso letterale: in quanto figli di un Dio, tutte le creature hanno radici e dignità divina e sono legati l’un l’altro da una relazione fraterna. Con la Laudato si’ Papa Francesco ha annunciato una versione francescana della creazione, secondo cui lo stesso tema dell’ecologia è implicito nella fratellanza e sorellanza tra tutti gli esseri viventi e nella responsabilità dell’essere umano verso essa. Influenzato chiaramente dal brasiliano Leonardo Boff,[38] il Papa ha espresso una concezione orizzontale della creazione, che si distacca da quella gerarchica secondo cui l’uomo è a capo del mondo.

Tuttavia bisogna prima rimuovere i detriti accumulati nei secoli. Non è possibile fondare alcuna etica a partire dalle parole di Dio nella Genesi (1,28): «riempite la terra; soggiogatela». Infatti la benedizione dell’Antico Testamento ha provocato grandi sciagure nell’età moderna, da René Descartes che ha proclamato l’uomo “Signore e padrone della natura”, ai repubblicani americani che hanno difeso l’estrazione di carbone e il fracking sulla base di questo passo biblico. Papa Francesco non ha potuto far altro che liberarsi del dominium terrae.[39] È stato d’aiuto il fatto che nella Bibbia si trovano due racconti sulla creazione. Nel racconto del paradiso (Gen 2,4) si dice che l’uomo deve «coltivare e custodire» il giardino dell’Eden, ne consegue che tutte le creature, compreso l’uomo, dovrebbero essere considerate come fratelli e sorelle. Il fatto che tutti abbiano un unico creatore giustifica il legame tra gli esseri viventi da un punto di vista mondiale ed evolutivo. Dunque il grido della Terra e dei poveri non deve essere ascoltato soltanto fisicamente in tutti gli angoli del mondo ma anche spiritualmente, poiché è un venir meno al principio di fratellanza e sorellanza. Le violazioni hanno un riverbero spirituale prima ancora che fisico.
Inoltre molte tesi sulla creazione hanno una doppia interpretazione, teologica e scientifica.[40] Gli scienziati hanno sviluppato una prospettiva sistemica sulla vita, basata sulla consapevolezza che le relazioni sono il modello basilare dell’organizzazione degli esseri viventi.[41] La natura non viene più vista come macchina ma come rete di relazioni, siano esse fisiche o chimiche, mentali o comunicative. Dunque le relazioni tra le parti costituiscono il tutto. Sia l’enciclica che la scienza evidenziano il legame tra tutte le manifestazioni della vita, dai batteri agli scimpanzé fino alla coscienza umana.
Da questa interpretazione della creazione si possono trarre almeno due conseguenze etiche. In primo luogo, la natura viene definita come bene comune, a cui tutti gli esseri viventi prendono parte. Come potrebbe essere altrimenti, se essa è un dono di Dio? E come potrebbe essere altrimenti se la natura ha carattere sistemico? Quindi il possesso individuale o nazionale della biosfera è secondario, poiché i doni della terra sono a disposizione di tutti. La proprietà privata della terra e del suolo è sempre stata vista con sospetto dalla dottrina sociale cattolica, la proprietà delle falde acquifere, dei mari e dell’atmosfera non è legittima. «Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti», afferma l’enciclica.[42] Sebbene il Papa rimarchi che «l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti», si tiene lontano dalle conseguenze sovversive che questa affermazione potrebbe avere.[43] Si pensi soltanto all’industria mineraria, all’estrazione del petrolio, all’inquinamento dell’aria, alla distruzione del paesaggio.

In secondo luogo, le piante, gli animali, le persone, tutti gli esseri viventi in natura possiedono un valore intrinseco, indipendentemente dall’utilità che hanno per l’uomo. La natura non è considerata una risorsa come nella modernità, ma è innanzitutto un dono di Dio – per i non credenti è semplicemente un bene comune. Infatti tutta l’enciclica è pervasa da una forte inclinazione anti-utilitaristica. Mette alla gogna l’«eccessivo antropocentrismo» e nega che l’uomo abbia diritto esclusivo d’uso sulla terra, diritto che anche le formiche e le scimmie e persino gli oceani e i deserti hanno. Tutti gli esseri viventi hanno diritto di esistere a prescindere dagli scopi umani, «si potrebbe parlare della priorità dell’essere rispetto all’essere utili […] Ogni creatura ha la sua propria bontà e la sua propria perfezione».[44] Le creature hanno una propria dignità, l’idea del valore esistenziale (contrapposto al valore d’uso e al valore di scambio) ha forti radici cristiane.

 

Scenari

Se volessimo riassumere questi due documenti del 2015, l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, potremmo dire: l’entusiasmo per lo sviluppo che ha caratterizzato il Ventesimo secolo è scomparso, adesso si cerca di far fronte al tramonto della modernità espansiva. Il motto del secolo scorso era “nell’Occidente come in Terra”, che adesso si è rivelato una minaccia. Il mondo si trova sull’orlo del precipizio: la biosfera è distrutta e, come se non bastasse, il divario tra ricchi e poveri, sotto diversi punti di vista, è aumentato. Dunque, entrambi i documenti concordano sul fatto che il modello economico globale è ormai da considerare come un ferro vecchio, ma ci sono anche grandi differenze. Mentre l’Agenda 2030 vuole correggere in modo significativo il modello economico mondiale, l’enciclica sostiene che l’egemonia economica debba essere respinta e richiede maggiore responsabilità etica a tutti i livelli. L’Agenda 2030 punta su un’economia verde con sfumature socialdemocratiche, mentre l’enciclica immagina un’età post-capitalistica, basata su un cambio di mentalità eco-solidale.
La modernità espansiva è finita. Più questo punto di vista si diffonde nel mondo, più si attenua il discorso sullo sviluppo e con esso anche quello sul post-sviluppo. In tal modo i problemi delle società non vengono più concepiti come problemi legati allo sviluppo e si modificano le strutture mentali. Al momento è popolare pensare in termini campanilisti, mentre sia la narrativa del globalismo che l’etica eco-solidale oppongono resistenza.[45] Questo tipo di pensiero si nutre di un misto tra nazionalismo, xenofobia e autoritarismo, condito da una buona dose di sciovinismo del benessere. Inoltre, genera spesso il desiderio di un “uomo forte” con cui la parte emarginata della popolazione può identificarsi. Dall’altra parte la narrativa del globalismo giura fedeltà alla crescita economica con la conseguente promessa, nonostante tutto, di maggiore benessere. Ma concede maggiore spazio di manovra alla governance multilaterale e soprattutto alla politica rispetto all’era neoliberista. L’Agenda 2030 segue in larga parte questo tipo di pensiero. L’etica eco-solidale, invece, si oppone alla mentalità campanilista come alla narrativa del globalismo, e sostiene un cambiamento culturale, sia locale che globale, consolidato da forme di economia cooperativa e una politica orientata al bene comune. Nell’interesse dell’equità, bisogna porre fine allo stile di vita imperialista della classe media transnazionale. Senza dubbio l’enciclica papale si inserisce in questa prospettiva. In ogni caso, il dibattito paradigmatico sulle direzioni fondamentali della politica ruoterà attorno a questo discorso nel prossimo secolo. Intanto lo “sviluppo”, come la monarchia o il feudalesimo, scivolerà nella polvere della storia. È giunto il momento che qualcuno, dopo 25 anni dalla dichiarazione della fine dell’era dello sviluppo, annunci la fine del post-sviluppo.

 

 

Riferimenti bibliografici

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[1] Sachs et al., Development Dictionary.

[2] Esteva, Development: Metaphor, Myth, Threat; Escobar, Encountering Development; Rist, History of Development.

[3] Sachs, Development. The Rise and Decline.

[4] Pörksen, Plastikwörter.

[5] Nazioni Unite, Transforming the World: The 2030 Agenda.

[6] Easterly, Trouble with the SGDs; Rivera, Wieviel Entpolitisierung vertragen die SDGs.

[7] Blühdorn, Simulative Demokratie.

[8] Nazioni Unite, Agenda 2030; Ziai, Development Discourse. «We commit ourselves to working tirelessly for the full implemention of the Agenda 2030».

[9] Rockström et al., Safe Space.

[10]       Nazioni Unite, Agenda 2030, §50. «We can be the first generation to succeed in ending poverty; just as we may be the last to have a chance of saving the planet. The world will be a better place in 2030 if we succeed in our objectives».

[11]       Die Zeit, 42/2016.

[12]       faz.net,18.9.2016.

[13]       Nazioni Unite, Agenda 2030, §5. «This is an Agenda of unprecedented scope and significance. It is accepted by all countries and is applicable to all, taking into account different national realities... These are universal goals and targets which involve the entire world, developed and developing countries alike».

[14]       Pauw et al., Common but Diffentiated Responsibilities.

[15]       UNDP, HDR 2013, 14.

[16]       Speich-Chassè, Erfindung des Bruttosozialprodukts; Fioramonti, Gross Domestic Problem.

[17]       Nazioni Unite, Agenda 2030, §8.1.

[18]       Ibid., §68.

[19]       Jackson-Webster, Limits revisited.

[20]       Independent Group, A World That Counts. «Data are the lifeblood of decision-making. Without data, we cannot know how many people are born and at what age they die; how many men, women and children still live in poverty; how many children need educating; how many doctors to train or schools to build; how public money is being spent and to what effect; whether greenhouse gas emissions are increasing or the fish stocks in the ocean are dangerously low; how many people are in what kinds of work, what companies are trading and whether economic activity is expanding».

[21]       Fioramonti, How Numbers Rule the World.

[22]       Papa Francesco, Laudato si’, §49.

[23]Ibid., §138.

[24]       Hickel, Pope vs UN.

[25]       Papa Francesco, Laudato si’, §164.

[26]       Ibid., §27.

[27]       Rockstrom et al., A Safe Space for Humanity.

[28]       WWF, Living Planet Report

[29]       Papa Francesco, Laudato si’, §193.

[30]       Sommer-Welzer, Transformationsdesign.

[31]       Brand-Wissen, Imperiale Lebensweise.

[32]       Papa Francesco, Laudato si’, §48.

[33]       Ivi, §51.

[34]       Ivi, §54.

[35]       Ivi, §109.

[36]       Ivi, §114.

[37]       Ivi, §112.

[38]       Boff, Cry of the Earth.

[39]       Papa Francesco, Laudato si’, §67.

[40]       Bals, Sucessful Provation.

[41]       Capra-Luisi, System View of Life.

[42]       Papa Francesco, Laudato si’, §23.

[43]       Ivi, §95.

[44]       Ivi, §69.

[45]       Raskin, Journey to Earthland.

 


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SUSTINAIBLE DEVELOPMENT , ECOLOGY , ENZYCLICAL LETTER , POPE FRANCIS


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Storia

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