Etica dell’ambiente e valore della natura

di Marcello Di Paola e Gianfranco Pellegrino

[Questo articolo è una versione ridotta e riveduta del capitolo secondo di Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo].[1]

 

In questo articolo presentiamo alcuni concetti e questioni cardine dell’etica dell’ambiente, concentrandoci in particolare sul dibattito filosofico relativo al valore della natura e dei suoi elementi. Nel primo paragrafo diamo una panoramica storica dello sviluppo della disciplina. Nel secondo paragrafo diamo conto di tre modalità in cui l’etica dell’ambiente è stata declinata: antropocentrica, estensionista e storica. Il terzo e quarto paragrafo sono dedicati alla presentazione della modalità antropocentrica e alla sua critica, rispettivamente; mentre il quarto e quinto discutono la modalità estensionista e alcune obiezioni che le possono essere rivolte. Il sesto e settimo paragrafo presentano la modalità storica, con il settimo dedicato alla nostra proposta: una prospettiva storica (non antropocentrica, non estensionista) che si concentri non tanto sul valore generale della natura come processo ma sul valore particolare dei risultati di questi processo. L’ottavo paragrafo conclude l’articolo e contestualizza la nostra proposta all’interno del quadro più ampio con cui l’etica dell’ambiente si trova oggi a confronto: l’Antropocene, questa nuova epoca in cui nessuna entità, processo o sistema della natura sfugge all’influenza delle attività umane.

 

  1. Le origini dell’etica dell’ambiente

Nonostante l’attenzione filosofica alla natura non sia affatto una novità recente, l’etica ha avuto molto spesso una prospettiva ristretta, che nella stragrande maggioranza dei casi escludeva - oltre a gruppi specifici di esseri umani - tutti gli animali non umani e la natura in generale. I perimetri della moralità – cioè il novero degli esseri che hanno status morale e sono quindi soggetti di diritti o oggetto di doveri, oppure meritevoli di considerazione o rispetto, ovvero dotati di valore – sono stati per secoli abbastanza angusti.[2]

Nella Bibbia, ad esempio, l’ira divina che scatena il diluvio fa eccezione per l’umano Noè, e il Creatore stabilisce con lui una «alleanza» che porterà alla relazione speciale fra il Dio della Bibbia e il popolo d’Israele. L’etica implicita in questi testi antichissimi è particolaristica o tribale, almeno a tratti – nel senso che stabilisce dei confini precisi che separano chi è degno di considerazione morale e chi non lo è, escludendo che certe norme e principi morali valgano universalmente.

Eppure il testo biblico contiene formulazioni che fanno pensare a una possibile estensione universale dell’alleanza con Dio. Infatti, all’inizio Dio, rivolgendosi a Noè, afferma che l’alleanza è stabilita «con voi e con i vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi», chiarisce che «non sarà distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio», e che l’alleanza comprende «ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra» – espressioni che sembrano suggerire un’estensione universale della protezione divina che si spinge sino agli animali (ma potrebbe forse escludere le piante).[3]

La medesima alternanza fra una moralità tribale e una moralità universale compare in un altro testo fondamentale nella storia dell’etica filosofica, la Repubblica di Platone. Secondo Polemarco, la giustizia consiste nel fatto che «gli amici siano tenuti a fare del bene agli amici, e nulla di male» e che «il nemico deve al nemico ciò che gli spetta, un male» (I, 332, a-b).[4] Socrate, però, mostra subito a Polemarco che la giustizia non può consistere nel ripagare con il bene i cattivi, anche fossero amici, e che non può essere giusto ledere i buoni, anche fossero nemici: i confini della moralità non possono coincidere con i limiti del gruppo.[5]

Da qui in poi, la storia dell’etica occidentale si può vedere come una progressiva, anche se non sempre lineare, espansione dei perimetri della moralità – una sorta di «sequenza etica», per usare l’espressione del naturalista Aldo Leopold.[6] Si è passati dai doveri verso se stessi – dall’etica dell’orgoglio e dell’onore presentata nell’epica omerica – ai doveri verso pochi altri appartenenti allo stesso gruppo – l’etica tribale del popolo di Dio o della polis, l’etica dei gruppi e delle nazioni –, e poi ai doveri verso tutti i conspecifici – l’etica dei diritti umani, con i fondamentali allargamenti costituiti dalla troppo recente inclusione delle donne e degli individui non di razza bianca. È stata un’evoluzione lunga, difficile, singhiozzante, e costosissima in termini di sofferenze patite dagli esclusi. Più recentemente, lo sguardo dell’etica si è allargato agli animali non umani e ai loro diritti.[7] L’etica dell’ambiente prende avvio proprio dall’estensione agli animali della considerazione morale - per poi tentare di allargare ulteriormente la prospettiva anche alla natura vegetale ed inanimata.[8]
  L’etica dell’ambiente ha avuto origine negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando è divenuto chiaro che alcune attività umane avevano un impatto crescente e distruttivo sulla natura. Tre pubblicazioni ebbero un ruolo molto influente. Primavera silenziosa, della biologa statunitense Rachel Carson, comparso nel 1962, attirò l’attenzione sugli effetti di pesticidi sintetici come il DDT su cibo, ambiente e animali – specialmente su uccelli come le aquile e i falchi pellegrini, la cui scomparsa avrebbe portato, avvertiva Carson, a una primavera silenziosa, senza più i suoni dei loro richiami.[9]
Il libro di Carson vendette mezzo milione di copie, la CBS gli dedicò una trasmissione di un’ora, Kennedy ne parlò in conferenza stampa e istituì una commissione speciale per esaminarne le conclusioni, e il rapporto finale della commissione accolse gran parte delle tesi. L’autrice venne ascoltata dal congresso nel 1963, e poco dopo iniziarono a nascere le prime associazioni ambientaliste negli Stati Uniti. Nel 1970 venne fondata l’Environmental Protection Agency.
Il libro di Carson pose per la prima volta le questioni ambientali al centro della discussione pubblica statunitense. Primavera silenziosa suscitò l’ira delle grandi aziende chimiche messe sotto accusa nel libro, che usarono tutti gli stereotipi misogini possibili, accusando l’autrice di isteria e incompetenza scientifica. Come sarebbe poi accaduto nel caso del cambiamento climatico, gruppi finanziati dalle aziende produttrici di pesticidi organizzarono campagne milionarie volte a gettare dubbi su dati scientifici.[10]

La seconda pubblicazione che fece da stimolo allo sviluppo dell’etica dell’ambiente uscì nel 1967 e stabiliva una controversa connessione fra la tradizione ebraico-cristiana e il degrado ambientale osservabile in quegli anni. Lo storico Lynn Townsend White Jr. pubblicò su Science un articolo intitolato «Le radici storico-culturali della nostra crisi ecologica».[11] White partiva dal primo capitolo del Genesi, con l’intento di ricostruire i valori e le visioni del mondo responsabili del degrado ambientale che osservava intorno a sé.
Nella Bibbia, dopo aver creato cielo e terra, luce, giorno e notte, firmamento, mari e terre emerse, e poi piante, stelle, sole e luna, e infine gli animali, Dio fa «l’uomo a sua immagine e somiglianza» e lascia che «domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Genesi 1,26). La tradizione ebraico-cristiana, sostenne White, incorpora nel suo testo sacro questa idea che il dominio e lo sfruttamento degli esseri umani sulla natura sia lecito, anzi sia voluto da Dio stesso. Inoltre, il creazionismo ebraico-cristiano fa differenza fra creatore e creato: il mondo è sacro, in quanto prodotto dell’opera creatrice di Dio, ma non divino – come era invece per molte visioni religiose precedenti, dove erano frequenti semi-divinità custodi di molti luoghi, entità, processi e sistemi naturali che facevano della natura un’entità spirituale. La struttura logica della creazione dal nulla – che era sconosciuta al pensiero della Grecia classica – presuppone una distinzione ontologica fra creatore e creatura. Infine, nella tradizione ebraico-cristiana fu importante la cosiddetta teologia naturale, cioè lo studio della natura come segno e prodotto dell’intelligenza divina.
Insomma, per ebrei e cristiani la natura ha valore in quanto creatura, in quanto rimanda a Dio, ma non in sé e per sé. Queste idee, secondo White, stanno anche alla radice della scienza moderna. L’atteggiamento espresso in certi scritti di Bacon o Descartes, ad esempio - per cui lo scopo principale degli esseri umani è padroneggiare la natura, comprendendola e piegandola ai propri fini - è eredità della teologia creazionista ebraico-cristiana. E quest’atteggiamento è quello che ha portato a uno sfruttamento cieco della natura e alla crisi ecologica di cui si iniziava a prendere coscienza in quegli anni.
 Secondo White, bisognava abbandonare la tradizione ebraico-cristiana rappresentata dal creazionismo gerarchico espresso nei primi due capitoli del Genesi. Ci si poteva e doveva invece rivolgere a una tradizione alternativa, pur se interna al cristianesimo stesso: quella di Francesco d’Assisi, fondata sull’«umiltà dell’uomo come specie»[12] - una sorta di «democrazia di tutte le creature di Dio»[13] o di «eguaglianza di tutte le creature».[14] La tradizionale visione tomistica della Scala naturae (con Dio all’apice, l’uomo dopo i santi ma sopra animali, piante e minerali) andava sostituita con la visione più “eco-sistemica” ed egalitaria del santo d’Assisi, che nella storia della dottrina della chiesa è stata perlopiù minoritaria.

Infine, Garrett Hardin, in un articolo intitolato «La tragedia dei beni comuni», uscito nel 1968 su Science, attirava l’attenzione sull’impatto ambientale della sovrappopolazione e sulle difficoltà di limitare la crescita demografica o il consumo di risorse che ne conseguiva. Riprendendo una impostazione risalente a Thomas Malthus, Hardin sosteneva che migliori condizioni di vita possono far aumentare la popolazione, e una popolazione più numerosa può avere un impatto esponenzialmente maggiore sulle risorse limitate e sull’ambiente, le cui conseguenze colpiranno i più deboli e poveri causando morti e una riduzione forzata della popolazione.[15] I suggerimenti di Hardin anticiparono le conclusioni raggiunte in una ricerca commissionata dal Club di Roma e dal MIT di Boston, che produsse un volume intitolato I limiti dello sviluppo, comparso nel 1972 – dove si suggeriva una politica di limiti alla crescita tanto industriale quanto demografica.[16]

La nascita dell’etica ambientale venne anche favorita da un diffuso spostamento dell’attenzione dei filosofi morali e politici, almeno nel contesto di lingua inglese, a questioni concrete. A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta si passa da un periodo in cui la filosofia morale e politica si dedicava soprattutto all’analisi del linguaggio, a un periodo di nuovo impegno filosofico sui problemi morali e politici della vita di tutti i giorni. Questa transizione, preconizzata dai mutabili interessi filosofici di Bertrand Russell, che passò dalla stesura dei Principi della matematica nel 1903 a quella di Crimini di guerra in Vietnam del 1967, vide tra i suoi attori più rappresentativi Peter Singer, Michael Walzer e John Rawls. L’etica normativa e applicata guadagnò spazio accademico, e l’etica ambientale è una delle sue varie dimensioni.

 

2. Modi dell’etica dell’ambiente

Nella sua ancor breve storia, l’etica dell’ambiente è stata declinata in almeno tre diverse modalità. Un primo filone è stato antropocentrico: la natura non umana ha valore in quanto strumento per realizzare fini degli esseri umani, o perché oggetto dell’apprezzamento umano. La natura va tutelata solo nella misura in cui sia utile alla vita degli esseri umani, e/o susciti negli umani sentimenti e atteggiamenti di ammirazione, godimento, rispetto o reverenza.

Un secondo filone, invece, è non antropocentrico, e dà valore alla natura in sé, indipendentemente dagli interessi e dall’apprezzamento umani. Il filone non antropocentrico, a sua volta, ha due versioni. In una versione il valore della natura deriva da caratteristiche generali che sono dette essere portatrici di valore in ogni caso in cui esse siano istanziate. Queste versioni di etica dell’ambiente non antropocentrica adottano tutte una strategia di estensione, e procedono come segue: si considerano esseri che senza dubbio hanno valore - tipicamente gli umani - e le caratteristiche in virtù delle quali essi hanno valore, e le si ricercano poi in altre entità non-umane. Se queste caratteristiche si ritrovano anche in queste entità, queste ricevono un accredito per entrare all’interno dei perimetri della moralità.
Per esempio, secondo alcuni tutte le entità capaci di provare sensazioni piacevoli o dolorose (come da ispirazione utilitarista), oppure tutte quelle che hanno una qualche forma di soggettività (come da ispirazione deontologica), oppure tutte quelle che possono avere uno sviluppo o una vita buona (come da ispirazione neo-aristotelica), meritano una qualche forma di considerazione morale e di tutela. Dunque gli animali - che possono provare piaceri e dolori, hanno in molti casi una loro soggettività più o meno marcata, e possono svilupparsi e avere una vita buona - hanno valore e vanno rispettati. Le piante possono quantomeno avere uno sviluppo o una vita buona, e secondo alcuni anche una qualche forma di soggettività, possibilmente diffusa a mo’ di network.[17] L’esercizio filosofico estensionista è complesso, e ci torniamo nei paragrafi quattro e cinque.

Un’altra versione di non antropocentrismo si fonda invece sull’idea che sia l’esser parte della natura, intesa qui come tutto ciò che non è umano o umanizzato, a fondare il valore di certe entità, processi e sistemi – e che questo valore si estenda anche a insiemi (a entità complesse come gli ecosistemi o le nicchie ecologiche, per esempio) e non solo a singoli individui. In questa prospettiva, il  valore della natura non deriva da caratteristiche che possono accomunarla agli esseri umani ma, al contrario, proprio dal suo essere fondamentalmente altra da essi. Questa prospettiva ha ispirato varie forme di conservazione, in particolare attraverso l’istituzione di parchi e riserve naturali in cui è bandita l’attività umana che non sia puramente contemplativa. È il paradigma (o la mitologia) della “natura incontaminata”. Secondo questo paradigma, è l’origine e la storia non-umana della natura a fondarne il valore e a generare doveri di rispetto e tutela verso di essa.[18]

 

3. Antropocentrismo

Un’etica ambientale antropocentrica applica alla natura certi principi consolidati nell’etica tradizionale che si occupa delle relazioni fra umani.
Per White, il cristianesimo era la religione antropocentrica per eccellenza. Con il termine ‘antropocentrismo’, White si riferiva a due tesi differenti. Da un lato, il creazionismo ebraico-cristiano implicava una forma di antropocentrismo teleologico e ontologico: gli esseri umani sono il fine e il centro della creazione e sono ontologicamente differenti rispetto al resto della natura – gli esseri umani rappresentano un’eccezione all’interno del creato, data la loro posizione intermedia fra il mondo della natura e la divinità. Le creature non umane, ontologicamente inferiori, sono destinate a fungere da strumenti per il bene degli esseri umani.
Dall’antropocentrismo teleologico e ontologico, secondo White, deriva l’antropocentrismo assiologico o etico, vale a dire la tesi secondo cui solo gli esseri umani hanno valore in sé, mentre tutti gli esseri viventi non umani e la natura inanimata hanno valore solo strumentale al bene degli esseri umani. Secondo questa prospettiva, nei confronti della natura possiamo avere solo doveri indiretti o derivati. L’esaurimento delle risorse naturali, dunque, o il cambiamento climatico, sono da condannare “solo” perché dimostrano mancanza di lungimiranza - perché potrebbero impedire la realizzazione a lungo termine di interessi umani.

Gran parte dei discorsi sulla conservazione delle risorse naturali e degli ecosistemi, o sulla oculata gestione o previsione del rischio ambientale, si fondano esplicitamente o implicitamente su una premessa antropocentrica. L’analisi costi-benefici, per esempio, di solito impiegata nelle politiche ambientali e nell’economia dell’ambiente, calcola i costi e i benefici per gli esseri umani. Parimenti una larga porzione delle discussioni sulle politiche di abbattimento delle emissioni di gas serra si fonda sull’assunto che ciò che giustifica (o non giustifica) queste scelte politiche siano i costi per gli esseri umani che gli impatti dei futuri cambiamenti climatici comporterebbero.
È questo tipo di visione, secondo White, che starebbe alla base della crisi ecologica. A forza di badare solo ai fini o al valore degli esseri umani, questi fini e questi valori medesimi potrebbero venire frustrati o diminuiti dalla devastazione della natura derivante da uno sfruttamento troppo intenso. L’antropocentrismo che giustifica lo sfruttamento senza limiti della natura si condanna così all’insuccesso.

Alla lettura del Genesi e della tradizione morale occidentale data da White – il paradigma del dominio – si può controbattere, come ha fatto il filosofo J. Passmore (1973), articolando una lettura alternativa delle stesse fonti (o di parti alternative delle medesime fonti) e della complessiva tradizione culturale dell’Occidente. Da tale lettura emerge un paradigma alternativo, il cosiddetto paradigma della tutela (il termine originale, difficilmente traducibile e difficile da definire con chiarezza anche in inglese, è stewardship). Questa prospettiva interpreta Genesi non come un’autorizzazione allo sfruttamento, ma come il conferimento di un incarico: gli esseri umani hanno doveri di tutela nei confronti della natura tutta, e questa ha un valore che deriva dal suo essere frutto dell’opera di un essere divino.[19] Ci fosse anche una qualche gerarchia fra gli esseri umani e le altre creature, c’è pure una comune creaturalità, per così dire, fra tutte le creature di Dio. Questa relazione mette tutti sullo stesso piano: tutte le creature di Dio hanno valore in quanto prodotto del fiat divino. Secondo i fautori di questa prospettiva, enfatizzare la dimensione gerarchica della tradizione ebraico-cristiana, come fa White, è un errore sia esegetico che concettuale.

 

4. Critica dell’antropocentrismo

White criticava l’antropocentrismo tradizionale che assegnava agli esseri umani il dominio assoluto sulla natura. Passmore rispondeva che il ruolo degli esseri umani è sì speciale, ma è piuttosto un ruolo di custodia e cura del mondo naturale: un antropocentrismo ben inteso non giustifica affatto lo sfruttamento senza limiti del mondo naturale.
Ma, anche se tutto questo fosse vero, rimarrebbe un problema. Per ogni antropocentrismo qualsivoglia, la natura è, in ultima analisi, una risorsa – una risorsa materiale oppure una risorsa in senso più ampio: ciò che dà significato alla vita, una parte di noi stessi, e via dicendo. Tuttavia, molti elementi della natura non sono risorse in nessuno di questi sensi, eppure non siamo sicuri che essi siano privi di valore.
Il biologo David Ehrenfeld, per esempio, s’interroga sul valore di un animaletto come il rospo endemico di Houston (Bufo houstonensis). «Quest’animale», osserva Ehrenfeld, «non ha mostrato alcun valore, neanche ipotetico, come risorsa per gli esseri umani. Se si estinguesse, il suo posto verrebbe preso da altre razze di rospi, né ci si può aspettare che la sua morte farebbe una qualche differenza rilevabile sull’ambiente della città di Houston o nei dintorni».[20] Il rospo di Houston è inutile, facilmente rimpiazzabile, e non è parte del senso della nostra vita o di ciò che le dà significato.
Eppure l’estinzione di una intera specie ci sembra spesso una perdita di valore – anche quando non si tratti di specie rare. Ci sono molti, secondo alcuni troppi, pini marittimi nell’Italia centrale: ma che penseremmo di una persona che, per provare la sua nuova sega elettrica, ne buttasse giù quanti più possibile - così, senza un motivo ulteriore? E che penseremmo di alberi di plastica da mettere al posto dei pini per ridurre le spese di manutenzione?

È difficile scrollarsi del tutto di dosso la sensazione che le entità naturali, dal rospo di Houston alle foreste e le montagne, abbiano una sorta di irriducibilità alla prospettiva umana, un essere altro – un valore, per l’appunto, indipendente dai valori umani. Secondo molti, l’etica dell’ambiente parte proprio dall’intuizione filosofica che sta dietro a quella sensazione: che la natura sia altro da noi e abbia un valore in sé, indipendentemente dagli interessi o apprezzamenti umani. Come ha detto John Passmore, «il filosofo deve imparare a vivere con la ‘stranezza’ della natura, con il fatto che i processi naturali sono del tutto indifferenti alla nostra esistenza e al nostro benessere – non positivamente indifferenti, naturalmente, ma incapaci di curarsi di noi» (Passmore 1980).[21]
Tentando di tratteggiare filosoficamente questa intuizione del valore indipendente della natura, in un articolo del 1973 Richard Routley propose il seguente esperimento mentale:

 

Gli ultimi giorni dell’umanità L’umanità è sull’orlo dell’estinzione, e l’ultimo essere umano può salvarsi solo se distrugge qualsiasi essere vivente attorno a lui – animale o pianta.[22]

 

Se si adotta una posizione antropocentrica (cioè se si dà valore in sé solo agli interessi umani), non ci sono dubbi: è ovvio che, per salvarsi, l’ultimo individuo possa distruggere tutto. Ma, se si pensa – come molti penserebbero – che questa distruzione sia un prezzo troppo alto da pagare, e dunque che la natura abbia valore anche quando non è utile – anzi, che essa abbia valore anche quando la sua persistenza potrebbe addirittura essere dannosa per gli esseri umani, come lo sarebbe per l’ultimo umano nell’esempio di Routley – allora l’antropocentrismo va abbandonato.
Se si crede che la natura abbia valore in sé, indipendentemente dal suo valore come strumento, allora è necessaria un’etica non antropocentrica. Per molti, un’etica dell’ambiente non può che essere non antropocentrica. Solo attribuendo valore in sé alla natura, indipendentemente dagli interessi umani, si può dare rilevanza morale all’ambiente. Tutto il resto è solo un’etica dell’uso dell’ambiente.

Ammettiamo che la reazione naturale a Gli ultimi giorni dell’umanità sia pensare che distruggere tutto il resto dei viventi purché l’ultimo essere umano si salvi sarebbe una perdita troppo grossa. O forse quella plausibile è una reazione più moderata, secondo cui in un caso del genere ci troveremmo di fronte a un dilemma autentico – due perdite incommensurabili, o egualmente grandi – e non è chiaro quale sarebbe il giusto corso d’azione. Entrambe queste reazioni si oppongono alla prospettiva di vedere la natura come mera risorsa.
Se queste reazioni ci sembrano plausibili, allora condividiamo l’intuizione secondo cui la natura ha un valore in sé, indipendentemente dagli interessi e dalla prospettiva degli esseri umani. Si tratta di un’intuizione diffusa anche ai livelli più alti di giurisdizione politica. Per esempio, la si trova espressa nella Carta mondiale della natura, approvata nel 1982 a Montevideo, secondo cui «ogni forma di vita è unica e merita di essere rispettata quale che sia la sua utilità per gli esseri umani».
L’antropocentrismo va contro, o comunque non può giustificare, quest’intuizione. Questo è un problema. Una teoria morale che non riesca a spiegare giudizi morali che ci sembrano evidenti non può essere una teoria valida. L’antropocentrismo non può essere un’etica dell’ambiente adeguata perché non può giustificare un giudizio morale ovvio, che dovrebbe stare al centro di qualsiasi visione morale della natura: il giudizio secondo cui la natura ha valore indipendentemente dalla sua utilità per gli esseri umani.
 Si possono dare varie risposte a questa obiezione all’antropocentrismo. Per esempio, si potrebbe dire che il senso di perdita che ci assale di fronte alla prospettiva che l’ultimo essere umano distrugga tutto pur di salvarsi deriva pur sempre dalla rilevanza degli interessi umani. Se distrugge tutta la natura attorno a sé, l’ultimo essere umano sopravvivrà, certo, ma lo farà in un mondo desolato e spoglio. E non è neppure detto che sia possibile per lui sopravvivere, in quel mondo: forse morirà comunque, per mancanza di tutti quei mezzi di sostentamento che derivano dalla natura non umana – e allora tanto vale morire lasciando intatta la natura. Ma ciò dimostra solo che interessi umani e valore della natura nei fatti coincidono, o vanno nella stessa direzione – anche in casi drammatici come questo. Quindi l’antropocentrismo, di fatto, conduce alla tutela e alla difesa della natura, rispettando così i requisiti di un’etica dell’ambiente adeguata.

Forse, però, la descrizione del caso non è adatta a giudicare se veramente la natura abbia un valore indipendente dagli interessi umani, perché, nella situazione che stiamo considerando, le due cose – natura e interessi umani – sono troppo inestricabilmente connessi per consentirci di giudicare con accuratezza. Consideriamo allora un caso diverso:

 

Due pianeti Ci sono due pianeti, lontani dalla Terra tanto che nessun essere umano potrà mai esplorarli, né ci saranno mai relazioni fra loro e il nostro mondo. Uno è privo totalmente di vita – SenzaVita; l’altro contiene solo forme di vita vegetale – Flora. Premendo un bottone, possiamo distruggere uno dei due pianeti. Quale lasceremmo intatto?[23]

 

    In un caso del genere, per molti la scelta sarebbe ovvia: Flora è il pianeta da salvare. Ma questa scelta è ovvia solo se si ammette che la natura vivente ha un valore in sé, indipendentemente dagli interessi e addirittura dallo sguardo degli esseri umani. Se si ritiene che la nostra esitazione nel distruggere Flora esprima un sentimento e un giudizio morale attendibili, ciò è una prova che l’antropocentrismo non è una posizione adeguata.
Anche in questo caso si potrebbe tentare di difendere l’antropocentrismo. Si potrebbe dire che dobbiamo comunque immaginare questi due pianeti, per esprimere il nostro giudizio di valore su di essi. Può darsi che la loro distruzione non si ripercuota sugli interessi umani – sono pianeti lontani dalla Terra, nessuno li potrà mai visitare, e così via – e che quindi il loro valore non stia nell’utilità che possono avere per realizzare fini e interessi umani. Tuttavia, è comunque lo sguardo umano che dà loro valore, è la prospettiva umana l’unico orizzonte da cui partire per scegliere quale dei due pianeti distruggere. Se è così, la fonte del valore è pur sempre negli esseri umani – e ci troviamo di nuovo di fronte a una forma di antropocentrismo. La natura ha valore perché gli esseri umani glielo danno.
Quest’antropocentrismo, che potremmo chiamare antropocentrismo meta-etico, va distinto dall’antropocentrismo assiologico o etico – l’idea che gli esseri umani abbiano un ruolo eccezionale nel mondo e che per questa ragione solo i loro interessi abbiano valore in sé e vadano considerati, tutelati e promossi.[24] Sostenere che sia solo dal punto di vista umano che si può dare valore alla natura non implica che la natura abbia valore solo come strumento per la soddisfazione degli interessi umani. La natura può aver valore in sé, indipendentemente da fini e interessi umani, anche se essa non avrebbe valore al di fuori della contemplazione umana.

Si può sostenere che l’antropocentrismo meta-etico sia in un certo senso inevitabile: come sarebbe possibile per le cose, e inclusa la natura non umana e inanimata, avere valore se non perché c’è un qualche essere cosciente il cui apprezzamento costituisce la fonte di questo valore? È ovvio, secondo molti, che se non ci fosse nessuno nell’universo non avrebbe senso pensare che Flora valga più di SenzaVita. Che cosa vorrebbe dire che una qualche parte di un universo del tutto desolato, privo di vita cosciente, possa avere più valore di un’altra? In che senso lo potrebbe avere? Avere valore significa che sarebbe meglio che la cosa di valore esista piuttosto che non esista. Ma in un universo desolato e solitario, dove niente e nessuno si dà alcun conto di ciò che esiste o addirittura che esista alcunché, non ha importanza che cosa esista.[25]
L’etica dell’ambiente ci spinge così quasi ai confini dell’ intelligibilità morale. Ma, come spesso è il caso, al filosofo si rimprovererà a questo punto un grottesco allontanamento dalla realtà concreta della vita di tutti i giorni. Dopotutto, l’intera discussione fatta sin qui si basa su casi idealizzati - ma, in realtà, non siamo di fronte alla prospettiva immediata di estinguerci, o, se lo siamo, l’alternativa non è tra estinguerci o sopravvivere distruggendo il pianeta (anche perché sopravvivere su un pianeta distrutto forse sarebbe impossibile, come già detto). Le nostre reazioni a esempi del genere, tanto astratti e stilizzati, non hanno, dunque, vero peso. Forse l’antropocentrismo non può spiegare in modo del tutto convincente i nostri giudizi morali in casi così lontani dalla vita ordinaria; ma funziona benissimo nella vita di tutti i giorni.

Il problema è che è proprio nella vita di tutti giorni che l’antropocentrismo spesso non funziona. Per esempio, si dice spesso che la biodiversità sia un patrimonio dell’umanità. Si sostiene poi che dobbiamo lasciare alle generazioni future un mondo vario come quello che abbiamo avuto noi, perché possano provare il piacere della varietà che noi abbiamo avuto – un piacere che ha fatto parte della nostra forma di vita e della nostra cultura. Questo pronunciamento resta del tutto antropocentrico poiché il valore di ogni specie, di ogni parte della natura, pur se indipendente da interessi umani particolari è derivato dall’interesse dell’umanità in generale. Se bene inteso e in tal modo espanso, l’antropocentrismo si rivela dunque ancora una volta capace di giustificare doveri molto rigorosi di proteggere la natura, senza per questo dare alla natura un valore indipendente dagli interessi e dall’apprezzamento degli esseri umani.
Ma le cose non sono così facili. Se l’obiettivo è garantire a tutti gli esseri umani che vivranno nel futuro l’esperienza della biodiversità, non si vede perché non dovremmo ricorrere a sostituti, a simulazioni. Se salvare il rospo di Houston è costoso, perché non farne una riproduzione fedele in uno dei nostri laboratori, o farne il protagonista di un modulo di realtà virtuale? Sarà presto possibile produrre piante sintetiche – piante cyborg che riproducono molti, se non tutti, i processi organici delle piante che abbiamo conosciuto in passato. E sarà possibile produrre animali robot. Perché non trasformare il mondo naturale nella sua perfetta replica d’umana fattura, allora? Se questa possibilità provoca un moto di rifiuto in molti di noi, come fa, che tipo di perdita stiamo paventando? Dovremmo rimpiangere le vecchia piante e gli animali “naturali”? Ma perché mai? L’antropocentrismo, di fronte a queste domande, arranca innegabilmente, e ha poco da dire a spiegazione di questo senso di perdita e rimpianto che assale molti di noi quando ci accorgiamo che le lucciole, la notte, non ci sono più, e che le nuove lucciole cyborg avranno “Termini e Condizioni” che dovremo sottoscrivere prima di poterle usare.

 

5. Strategie di estensione   

L’antropocentrismo è la tesi secondo cui solo gli esseri umani, o i loro interessi, hanno valore. Avere valore significa avere titolo a un certo trattamento: le cose che hanno valore vanno protette, difese, promosse e così via.
L’antropocentrismo a sua volta discende da due premesse. In primo luogo, c’è l’idea che il valore di un certo essere derivi da certe caratteristiche che possiede – ci sono certe proprietà che danno valore a chi le possiede. Per esempio, siccome gli esseri umani sono capaci di raziocinio, e la razionalità è ovviamente una cosa che ha valore, allora gli esseri umani hanno valore[26]. La seconda premessa è semplicemente l’idea che certe caratteristiche siano possedute solo dagli esseri umani – è una tesi sull’eccezionalità degli esseri umani. La conclusione che si deriva è che, siccome solo gli esseri umani hanno la o le caratteristiche che danno valore a chi o ciò che le possiede, allora solo gli esseri umani hanno valore e status morale, cioè debbono essere considerati, tutelati e veder promossi i propri interessi.
Un modo ovvio per contrastare l’antropocentrismo così inteso è quella che sopra abbiamo chiamato strategia dell’estensione. Ammettiamo che gli esseri umani abbiano valore in virtù di certe caratteristiche che possiedono. Se si può mostrare che essi condividono con altri esseri (non umani) queste caratteristiche, allora il valore degli esseri umani non sarà più esclusivo. Abbiamo già visto una strategia del genere: sottolineando la comune creaturalità di esseri umani, animali, piante e natura tutta, la tradizione francescana a cui White faceva appello impiega una versione della strategia dell’estensione.
La strategia dell’estensione mette in questione la seconda premessa dell’antropocentrismo. Certe caratteristiche di valore non sono possedute soltanto dagli esseri umani: anche gli animali, o le piante, o la natura non umana nel suo complesso le hanno; quindi, anche gli animali, le piante e la natura non umana hanno valore. Non c’è nessuna eccezionalità degli esseri umani. Sostenerlo significherebbe discriminare gli animali e le piante, o la natura, manifestando un pregiudizio specista, cioè il pregiudizio secondo cui la mera appartenenza alla specie umana farebbe la differenza.[27] Abbandonarsi allo specismo è, strutturalmente, come abbandonarsi al razzismo, allo sciovinismo o al sessismo: principi discriminatori di stampo tribale da cui l’etica si è con enorme fatica, nei secoli, distaccata in direzione universalistica. Lo specismo è una sorta di razzismo ecologico.

Qui non ci occuperemo delle singole argomentazioni usate da vari autori che si sono impegnati in tentativi di estensione – argomentazioni oggetto di un’ampia letteratura (per esempio, sull’intelligenza degli animali o delle piante, o sulla natura degli esseri viventi, oppure sulle caratteristiche che rendono entità non individuali, come specie o ecosistemi, dotate di valore). Piuttosto, elencheremo alcune delle caratteristiche che sono state estese dagli esseri umani al resto della natura, con l’obiettivo di mostrare i problemi generali che affliggono la strategia dell’estensione e che rendono necessario seguire una strada diversa per costruire un’etica dell’ambiente non antropocentrica.

Una prima caratteristica ad essere stata estesa è la capacità di essere un soggetto. Per Tom Regan, per esempio, gli animali sono «soggetti di una vita», perché possono avere credenze e desideri, percezione, memoria, senso del proprio futuro.[28] Secondo Regan, i soggetti di una vita hanno vite che sono importanti per loro, e quindi hanno un valore che egli chiama inerente e debbono essere trattati come fini in sé, non come mezzi. Gli animali condividono con gli esseri umani la soggettività, e debbono avere dunque lo stesso status morale. Questo, secondo Regan, autorizza ad attribuire loro veri e propri diritti e interessi.
Questo tipo di estensione è stato tentato anche per le piante. Autori come Matthew Hall e Michael Marder hanno sostenuto che le piante hanno una forma di intelligenza attiva - che si realizza principalmente nelle loro capacità di adattarsi all’ambiente selezionando certe modalità di crescita, nelle loro capacità di acquisire e reagire alle informazioni, di risolvere problemi, di comunicare fra loro, e forse persino di fare scelte autonome. Per questa ragione, le piante si dovrebbero considerare «persone non umane», e le si dovrebbe rispettare come si rispettano gli esseri umani, se necessario anche considerandole soggetti di diritti, almeno giuridici.[29]
Più difficile è ovviamente estendere caratteristiche così complesse agli ecosistemi o addirittura alla natura tutta. Ma ci sono stati alcuni tentativi. Per Scott Friskics,[30] la natura parla un linguaggio che gli esseri umani possono comprendere – un linguaggio fatto di muta presenza, forse, ma di una presenza che è enormemente significativa nelle nostre vite. Per David Abram[31] la natura ha un’espressività di cui il linguaggio umano non è che una versione.

Più di recente, Jane Bennett ha proposto una teoria della materia vibrante o della materialità vitale.[32] L’idea centrale di questa teoria è che le cose – le parti della natura inanimata – siano quasi-agenti, o meglio ‘attanti’, e che ci siano gradi e modalità molteplici di azione, non limitate all’azione umana, e compiute da soggetti non umani, o da non soggetti. L’idea è che gli oggetti partecipino alle relazioni umane in molteplici maniere, entrando nelle azioni e la vita delle persone a livello materiale, simbolico e storico – e che una distinzione fra ciò che è umano (e capace di azione intenzionale) e ciò che non è umano o naturale non sia netta, ma venga per gradi, e sia continuamente rinegoziata.
Ciò che tutte queste prospettive condividono è un tentativo di estendere ad animali, piante e natura inanimata caratteristiche specificamente umane – come la soggettività, la razionalità, il linguaggio, la capacità d’agire. Ma, ci si potrebbe chiedere, perché mai si dovrebbe pensare che la caratteristica che dà valore a chi la possiede sia proprio la razionalità, il linguaggio o la capacità di agire? Ci sono molti esseri umani irrazionali, incapaci di parlare e agire. Lo sono i neonati, lo sono i disabili, lo sono gli anziani, lo siamo tutti, in certi momenti della vita. Si deve allora concludere che gli umani in queste condizioni non meritino rispetto e non abbiano valore? Siccome questa conclusione va rifiutata, allora la razionalità e altre caratteristiche variamente connesse ad essa non possono essere quelle che fondano il valore e la tutela della natura.[33] 

Il filosofo utilitarista Jeremy Bentham suggeriva invece di considerare come caratteristica che dà valore a chi la possiede la capacità di provare piacere e sentire dolore – o comunque stati di coscienza percepiti come positivi o negativi.[34] L’idea è che tutti gli esseri che sono capaci di avere esperienze coscienti (una forma particolarmente minimal di soggettività) abbiano valore e siano degni di tutela, dal momento che possono avere l’interesse a, cioè il desiderio di, continuare le proprie esperienze positive ed evitare o cessare quelle negative.
Per Bentham, l’estensione agli animali è dunque ovvia – molti, se non tutti gli animali, hanno capacità di provare piacere e dolore, e gli animali più complessi possono anche avere preferenze e desideri. Sulla base di questo, Peter Singer ha concluso che causare sofferenze non necessarie agli animali solo perché non sono esseri umani sarebbe un atto di ingiustificabile discriminazione specista – il dolore e il piacere degli animali debbono avere, a parità di intensità e durata, lo stesso peso di quelli umani.[35]
Molti degli studi recenti di neurofisiologia delle piante fanno pensare che anche gli organismi vegetali abbiano forme di sensibilità e siano capaci di reagire a condizioni sfavorevoli dell’ambiente tentando di evitarle o di difendersene. In senso lato, si potrebbe dunque dire che anche le piante hanno desideri o preferenze, e possono provare dolore e piacere.[36]

Naturalmente, però, questo senso è molto lato, se non addirittura metaforico: non si può pensare la sensibilità di esseri privi di coscienza come si pensa quella di esseri coscienti (ritorneremo su questo punto nel prossimo paragrafo). Questo non significa che non possano esserci doveri che concernono gli esseri privi di coscienza, come le piante, ma solo che non ci siano doveri verso questi esseri. I doveri che concernono le piante sono doveri verso quegli esseri dotati di sensibilità che dalle piante dipendono – come gli umani e gli animali non umani.[37]
Tuttavia, alcuni autori hanno suggerito che la caratteristica che rende gli animali degni di considerazione, rispetto e tutela non è solo, o tanto, la sensibilità (o la soggettività), quanto il fatto di essere vivi, di vivere una vita che può oggettivamente (anche se non soggettivamente) andare più o meno bene. Le entità viventi, come le piante e i funghi, anche se prive di coscienza o autocoscienza e incapaci di essere soggetti, hanno interessi - non tanto perché hanno desideri o preferenze, o sensibilità al dolore o al piacere, ma perché possono subire danni e benefici, essendoci cose che oggettivamente ne favoriscono l’esistenza, sopravvivenza e sviluppo, e cose che invece oggettivamente le ostacolano.

Secondo Kenneth Goodpaster, per esempio, «la sensibilità è una caratteristica adattiva di organismi viventi che li fornisce di una capacità migliore di anticipare ed evitare minacce alla propria vita. Questo suggerisce come minimo (per quanto non lo provi), che le capacità di soffrire e provare godimento siano in realtà ancillari rispetto a qualcosa di più importante […]», cioè la vita.[38]
Il filosofo bio-centrico Paul Taylor ha costruito un’argomentazione estensionista a partire da questa premessa. Taylor propone una sofisticata teoria complessiva fondata sull’idea che l’essere in vita, e avere vite che possano andare bene o male, meglio o peggio, sia la caratteristica che dà valore a chi la possiede. Questo è vero degli uomini come degli animali, delle piante, dei funghi e dei batteri[39].

L’argomentazione di Taylor consta delle seguenti mosse:

i. gli esseri umani fanno parte della comunità dei viventi sulla Terra proprio come gli individui appartenenti ad altre specie (dal momento che, come i non umani, gli umani hanno necessità biologiche e fisiche; hanno un bene proprio; sono soggetti in parte a fattori che vanno al di là del loro controllo ma possono perseguire il proprio bene con una certa libertà; sono comparsi sul pianeta di recente come prodotto dell’evoluzione;  e dipendono dalla biosfera ma la biosfera non dipende da loro);

 ii. tutti gli organismi viventi individuali sono centri teleologici di vita – cioè sono organizzati internamente in maniera da tendere al proprio bene, inteso nei termini dl funzionamento biologico e della forma di vita propria dell’organismo, proprio come gli esseri umani: «ogni essere vivente […] [è] un’entità che persegue il suo bene a modo suo, secondo la specifica natura della specie»;[40]

iii. non ci sono giustificazioni valide per sostenere che gli esseri umani abbiano un valore morale superiore a quello dei membri di altre specie.[41]

A partire da queste premesse, Taylor ricava un principio di imparzialità morale fra diverse forme di vita: indipendentemente dalla specie cui un essere vivente appartiene, esso va considerato come meritevole di eguale considerazione e interesse da parte degli agenti morali. Il suo bene è considerato degno di venir promosso e protetto come fine in sé. Ogni entità che ha un bene in sé possiede valore inerente – e il medesimo valore inerente, dal momento che nessuna, in questo specifico rispetto (esser viva), è superiore all’altra.[42]

La visione bio-centrica di Taylor può fornire le basi all’idea che la natura abbia valore in sé e meriti dunque rispetto e tutela. Una obiezione immediata, però, è che la natura non è solo una serie di esseri viventi individuali, ma il loro complesso incluse le loro interazioni. Questo contraddice l’individualismo di Taylor, che sosteneva il valore di singole entità viventi, e si apre invece a varie forme di olismo. In risposta, con Taylor, si può insistere che gli ecosistemi abbiano valore in quanto collezioni di esseri individuali viventi, ma che tutto il non-vivente - le pietre, il suolo, i minerali - potrebbe avere valore, pur se solo strumentale (ma non antropocentrico), in quanto condizione di possibilità per la vita degli organismi viventi e dell’ecosistema stesso inteso come unitario. Ma di nuovo contro Taylor, e olisticamente, si può dire che gli ecosistemi siano in sé dotati di valore, perché sono organizzazioni complesse, che hanno uno sviluppo dinamico unificato e un bene loro proprio, pur se distribuito. Gli individui viventi entro di essi hanno valore come parti costituenti questo tutto, oltre che (o forse più che) come esseri viventi in sé.

Al di là di come si risolvano queste dispute, che queste dispute ci siano segnala un interesse verso la domanda se possano darsi casi in cui la natura inanimata (le montagne, le caverne, le nuvole) abbia valore in sé. Questi casi non possono essere spiegati dal biocentrismo. Ci sono miriadi di pianeti senza vita nel sistema solare: sono privi di valore? O, per restare con i piedi per terra: davvero le rocce dei deserti hanno valore solo perché ospitano batteri, e la sabbia delle dune ha valore solo perché è l’habitat delle ginestre? Certo, si può dire che le dune e le rocce abbiano un valore estetico, dunque non strumentale. Ma ciò che è bello non necessariamente è buono. Davvero il valore della natura inanimata è “solo” estetico oppure necessariamente strumentale? Torneremo su questo punto nel paragrafo 7.

 

6. Critica delle strategie di estensione

L’obiettivo primario della strategia di estensione è di indicare delle caratteristiche moralmente rilevanti della natura o suoi elementi che permettano di dar loro valore non meramente strumentale. La strategia dell’estensione vuole coerenza morale. Essa si basa su un ragionamento che si articola nei seguenti passi:

i. ci sono entità che sicuramente hanno valore (es. gli esseri umani);

ii. il loro valore deriva dal possesso di certe caratteristiche (es. soggettività, sensibilità e via dicendo). Queste caratteristiche sono portatrici di valore;

iii. se si ritrovano le caratteristiche portatrici di valore in entità anche differenti  dagli umani (es. gli animali), allora si può e deve estendere il valore dalle prime alle seconde (es. gli animali hanno valore proprio come gli esseri umani). Rifiutare questa conclusione è specismo, e lo specismo è razzismo ecologico.

A questo approccio si possono porre alcune obiezioni generali. Consideriamo la prima delle modalità di estensione elencate sopra – dove alla natura animata e inanimata viene attribuita la caratteristica della soggettività. Si considerino gli animali. Forse i primati superiori hanno capacità di linguaggio e funzioni mentali complesse simili a quelle umane; ma ovviamente altri animali hanno capacità meno complesse – o semplicemente meno simili a quelle umane. Bisogna per questo attribuire loro meno valore? Può darsi: secondo teorie non egualitarie o differenziali, il valore, e la misura di rispetto dovuto agli animali, dipende dal grado in cui essi hanno certe caratteristiche. Questa impostazione può essere plausibile, soprattutto nei casi di scelte difficili – quando, ad esempio, per tutelare la vita di certi animali sia necessario lederne altri, o sia necessario danneggiare gli esseri umani. Ma rimane il fatto che la caratteristica estesa agli animali allo scopo di dar loro valore finisce per istituire gerarchie – e peraltro gerarchie che devono poi, coerentemente, valere anche per gli umani (che in fin dei conti sono animali). Ci sono esseri umani che possono essere meno capaci di agire e di usare il linguaggio di certi animali, ma sostenere che questi umani affetti da disabilità permanenti o da malattie transitorie ma fortemente invalidanti abbiano meno valore degli altri è quantomeno controverso. Però, una volta istituite gerarchie fra animali più o meno intelligenti, o più o meno capaci di avere preferenze, o di provare piacere e dolore, non applicare tali gerarchie agli esseri umani è una discriminazione ingiustificata.

Se si considerano le piante, le cose diventano ancora più difficili. In che senso le piante sono intelligenti? Se lo sono, lo sono in modalità molto differenti da quelle umane. L’intelligenza delle piante è diffusa – è intelligenza di organismi complessi o di insiemi di piante. Inoltre le singole piante non sono individui nello stesso senso in cui lo sono gli animali e gli esseri umani.[43] Il fatto è che concetti come ‘individuo’, ‘soggetto’, ‘intelligenza’ e così via sono troppo complessi e difficili da definire già quando si limita la loro applicazione agli esseri umani (in riferimento ai quali tali concetti sono altresì modellati), e risulta praticamente impossibile usarli in modo univoco e coerente quando ci si riferisce a entità così diverse come le piante. E quando allarghiamo il discorso a entità collettive come le specie o gli ecosistemi, o alla natura inanimata, l’estensione si riduce spesso a mero esercizio di creazione di metafore più o meno suggestive.

Se si mostra che non c’è la stessa caratteristica, ma solo una caratteristica linguisticamente assimilabile, in modo sensato e intellegibile ma metaforico (se le piante sono intelligenti “in un certo senso”, le montagne sono senzienti “in un certo senso”, gli ecosistemi sono vivi “in un certo senso”), allora non è detto che il passo iii della strategia dell’estensione, presentato prima, sia lecito. Coerenza morale include infatti accuratezza nella descrizione delle caratteristiche portatrici di valore che forniscono la base giustificatoria dell’ estensione. Come è moralmente incoerente non estendere valore e tutela in presenza delle stesse caratteristiche, è moralmente incoerente, in ottica estensionista, estendere valore e tutela in presenza di caratteristiche diverse, per quanto linguisticamente assimilabili.  Gli esseri umani non sono (nella stragrande maggioranza dei casi) intelligenti, senzienti, o vivi “in un certo senso”; e ad ogni modo sono intelligenti, senzienti o vivi nel senso che ha valore, per assunto. Perché possa esservi estensione, gli animali, le piante e gli ecosistemi non devono solo essere intelligenti, senzienti o vivi al pari degli esseri umani, ma anche nello stesso modo in cui lo sono gli esseri umani.

Se, ad esempio, l’intelligenza umana è non solo la capacità di adattarsi all’ambiente - una capacità che, al pari degli umani, anche le piante possiedono - ma quella di far ciò come individui, o come soggetti dotati di autocoscienza, allora, anche se le piante possano essere intelligenti “in un certo senso” non lo sono nel senso rilevante: l’intelligenza degli esseri umani e quella delle piante non sono la stessa intelligenza. E non serve dire che allora dovremmo rifondare il nostro concetto di intelligenza: questo potrebbe essere utile o necessario per altri motivi (ad esempio per comprendere meglio cos’è l’intelligenza), ma la strategia dell’ estensione prescrive estensione morale qualora ce ne siano le condizioni, non la creazione di tali condizioni attraverso rifondazione concettuale. Se tale rifondazione sarà resa necessaria dalle scienze, ne seguirà estensione morale. Ma questa sarà, appunto, coerente conseguenza, e non motore, di tale rifondazione. 

C’è un altro problema. La mossa iii. della strategia dell’ estensione  equivale a sostenere che le caratteristiche portatrici di valore apportino valore ovunque si presentino. Ma in realtà la capacità di certe caratteristiche di portare valore può variare a seconda dei contesti. Ammettiamo, ad esempio, che la caratteristica di procurare piacere dia valore alla cosa che la possieda. La gentilezza, dunque (ad esempio), ha valore perché ci fa piacere. Ma ovviamente la stessa caratteristica, in gradi e contesti diversi, può perdere il suo valore, o addirittura divenire un dis-valore. La gentilezza di un essere umano subordinato a un altro per ragioni ingiuste – la gentilezza di uno schiavo verso il suo padrone, ad esempio – non ha valore ma dis-valore, perché realizza l’ingiustizia del sistema della schiavitù (il che non significa che lo schiavo sia moralmente deprecabile per la sua gentilezza: deprecabile è il sistema schiavista di cui egli è vittima). Allo stesso modo, la vita delle piante, se ha valore, potrebbe non averlo ovunque e sempre e comunque: un esempio ovvio è quello delle erbacce in giardino o negli spazi verdi delle città, che la maggior parte dei giardinieri e dei cittadini considerano un dis-valore degno di essere estirpato.

Se questo giudizio anti-erbacce appare troppo antropocentrico, si ricordi che le erbacce, tecnicamente, non sono altro che piante estremamente adattabili alla, e generalmente favorite dalla, presenza e attività umana.[44] Le erbacce si diffondono e moltiplicano attraverso i continenti all’ aumentare della pervasività umana. In futuro non ci saranno meno piante vive, ma in un mondo sempre più umanizzato una proporzione sempre più ampia di queste saranno erbacce, e questo è un dis-valore eco-sistemico - e dunque non bio-centrico, e non solo antropocentrico - in termini sia di resilienza che di diversità perduta. 

Un altro problema affligge invece la mossa ii. della strategia dell’ estensione, cioè l’idea che siano certe caratteristiche a dare valore a chi (o ciò che) le possieda. Consideriamo di nuovo l’intelligenza o la vita. La tesi è che l’intelligenza o la vita siano cose di valore, da rispettare e tutelare rispettando gli esseri che le possiedono. Secondo questo ragionamento, dunque, gli esseri intelligenti o viventi hanno valore e sono meritevoli di tutela in quanto ricettacoli o contenitori di un elemento che ha valore, e non in sé. Come già detto, è l’intelligenza o la vita ad avere valore, a rigore, non gli esseri intelligenti o vivi: questi hanno valore e vanno tutelati perché ospitano l’intelligenza o la vita, e non per le entità particolari che sono.

La strategia dell’estensione, dunque, ha almeno due problemi – legati  ai passi ii. e iii. Da un lato, perde di vista che certe caratteristiche, in contesti differenti, possono non essere portatrici di valore o addirittura possono togliere valore alla cosa che le possiede. Dall’altro, affidandosi totalmente a caratteristiche generali, non riesce a dare valore agli esseri specifici, per quello che sono. Se si ignora la contestualità del valore si perdono di vista distinzioni importanti a livello teorico quanto pratico. Se si vede il valore di umani, animali, piante e natura come semplicemente derivato dalla presenza di caratteristiche generali, si perde di vista il valore di esseri umani, animali, piante, specie, montagne, paesaggi ed ecosistemi particolari. Torniamo su quest’ultimo punto nei prossimi due paragrafi, in particolare nell’ottavo.

 

7. Il valore sacro e inviolabile della natura

Come abbiamo visto, estendere alla natura caratteristiche umane o caratteristiche comuni a umani, piante e animali non produce una teoria del tutto convincente sul valore della natura in sé. Allora, forse il passo da compiere è volgersi a una tesi secondo cui la natura in sé ha valore ma non in virtù di estensioni varie. Ovviamente, perché questa tesi sia difendibile bisogna spiegare perché, e in virtù di cosa, la natura avrebbe valore – e perché e in virtù di cosa la natura avrebbe valore in quanto natura, nel suo specifico essere tale e nelle sue specifiche incarnazioni.

Un suggerimento si può trarre da una discussione esterna all’etica dell’ambiente. Nel suo Il dominio della vita (1993), Ronald Dworkin distingue due tipi di valore in sé. Ci sono entità, suggerisce Dworkin, che hanno valore incrementale – «più se ne ha, meglio è», e altre che invece hanno valore sacro o inviolabile (‘sacro’, per Dworkin, non rimanda ad assunzioni religiose).  Se qualcosa ha valore incrementale, allora abbiamo il dovere non solo di proteggerla, ma anche di promuoverne l’esistenza. Un esempio è la conoscenza, dice Dworkin: «la nostra cultura vuole conoscere l’archeologia, la cosmologia, le galassie lontane molti milioni di anni luce, anche se poco di questa conoscenza probabilmente porterà un qualche beneficio pratico, e noi vogliamo conoscere tutto quanto possiamo».[45]

Quel che ha valore sacro o inviolabile ce l’ha invece «solo una volta che esista»: questo valore non richiede di produrre le cose che ce l’hanno se non esistono, e quindi di incrementare il loro numero. Un esempio, per Dworkin, è la vita umana («una volta che una vita umana sia iniziata, è molto importante che si sviluppi e non sia distrutta»), ma anche l’arte:

trattiamo molta dell’arte cui conferiamo valore come avente valore sacro, piuttosto che incrementale. Attribuiamo gran valore alle opere d’arte una volta che esistono, anche se ci preoccupiamo meno del fatto che se ne producano un maggior numero. Naturalmente possiamo credere che la produzione continua di grandi opere d’arte sia estremamente importante, che più una cultura produce oggetti veramente meravigliosi meglio è, e lo stesso vale per le grandi vite. Anche i più strenui sostenitori del controllo demografico non vogliono meno Leonardo Da Vinci o Martin Luther King. Ma anche se non rimpiangiamo che ci sia un numero maggiore di opere di un certo pittore, o più esemplari di un certo genere artistico, insistiamo sul rispetto che di fatto proviamo nei confronti di questi esemplari. Io stesso non desidero che vi siano più opere del Tintoretto di quante ve ne siano. Ma ciononostante sarei inorridito dalla deliberata distruzione di anche uno dei suoi dipinti.[46]

 

Dopo l’arte, Dworkin menziona le specie animali:

[…] tendiamo a trattare particolari specie animali (sebbene non gli animali considerati individualmente) come sacre. Pensiamo che sia molto importante, e degno di un considerevole investimento economico, proteggere le specie in via di estinzione dalla distruzione per mano dell’uomo o delle sue attività: il mercato di corni di rinoceronti, apprezzati per il loro supposto potere afrodisiaco, dighe che minacciano l’unico habitat di certe specie di pesci, o i metodi dell’industria del legno che condurranno alla scomparsa degli ultimi assioli. Restiamo sconvolti da questa prospettiva (sarebbe terribile se i rinoceronti cessassero di esistere) e indignati (sicuramente è sbagliato consentire una tale catastrofe solo perché gli uomini possano fare più soldi o accrescere il loro potere).

[…] Si tratta di un esempio di valore sacro piuttosto che incrementale: pochi credono che il mondo sarebbe peggiore se ci fossero state da sempre poche specie di uccelli, e pochi considerano importante inventare nuove specie di uccelli, se questo fosse possibile. Ciò che consideriamo importante non è che vi sia un numero particolare di specie, ma che una specie che ora esiste non si estingua a causa nostra. Consideriamo una sorta di colpa cosmica il fatto che una specie che la natura ha sviluppato cessi di esistere a causa delle azioni dell’uomo.[47]

 

Per Dworkin, dunque, il rispetto della natura non impone, ad esempio, di promuovere spazi sempre più ampi di natura incontaminata: impone piuttosto di conservare la natura che c’è, e di farlo perché la sua esistenza, nelle sue specifiche incarnazioni, è degna di tutela e di rispetto. Secondo Dworkin, ciò che rende inviolabili  certe cose è la loro genesi: è il processo creativo – creazione umana e creazione della natura – ad essere degno di rispetto («il […] modo in cui una cosa può diventare sacra è attraverso la sua storia, come essa è venuta ad essere»).[48] 

Nonostante egli stabilisca una analogia fra arte e natura, Dworkin non sostiene che siano le qualità estetiche comuni ad arte e natura a fondarne il valore: «proteggiamo un dipinto anche se non ci piace molto, proprio come cerchiamo di difendere culture che non ammiriamo in modo particolare, perché incorporano processi della creazione umana che consideriamo importanti e degni di ammirazione».[49] Allo stesso modo, non è il fatto che certi elementi della natura suscitino piacere, o altri sentimenti di apprezzamento, a fondare il loro valore, secondo Dworkin. L’analogia è, piuttosto, fra i processi creativi umani e naturali:

 

sia l’arte che le specie sono esempi di cose per noi inviolabili […] in virtù della loro storia, del processo attraverso il quale sono state portate all’esistenza. Vediamo il processo evolutivo tramite quale le specie si sono sviluppate come se contribuisse in qualche modo alla vergogna di ciò che facciamo ora che causiamo la loro estinzione  […].  Dovremmo rimpiangere la perdita di specie proprio come dovremmo rimpiangere, anche se in grado molto maggiore, il fallimento di un progetto frutto della nostra o altrui dedizione costante. Rimpiangiamo la perdita di un investimento creativo non già per ciò che viene a mancarci, ma a causa del particolare dolore rappresentato dalla frustrazione di un grande sforzo.[50]

 

Dworkin, inoltre, spiega:

 

Quando si dice che la distruzione di una specie è uno spreco dell’investimento della natura, non si intende dire che la natura investe coscientemente, ma che anche processi naturali e      inconsapevoli di creazione dovrebbero essere trattati come investimenti degni di rispetto.[51]

 

Quella di Dworkin potrebbe allora essere una teoria del valore storico della natura. Questa teoria dice, più o meno, che per ogni cosa che esiste c’è stata una genesi creativa, un moto d’alterazione di ciò che esisteva precedentemente, e che questo moto ha valore in sé. Ogni specie animale e vegetale incarna una vittoria su tutte le altre possibilità d’esistenza, più o meno allo stesso modo in cui ogni opera d’arte incarna una vittoria su tutte le altre opere che l’artista avrebbe potuto realizzare ma che non ha realizzato.    

La visione di Dworkin rappresenta un passo avanti rispetto alle strategie dell’estensione, perché è un tentativo di spiegare il valore peculiare della natura come entità distinta e non in virtù di sue caratteristiche generali. Certi elementi della natura, come le specie o particolari luoghi o ecosistemi, hanno un valore specifico che deriva dalla loro storia, cioè dal processo che li ha prodotti, da quel che Dworkin chiama «investimento della natura».[52] Il valore della natura deriva dal suo essere come è, e non da una qualche proprietà che essa condivide con gli esseri umani.

Nell’ambito dell’etica dell’ambiente sono state proposte teorie simili a quella di Dworkin, dove il valore di certi elementi della natura deriva dalla loro genesi – ed è quindi un valore storico. Per Robert Elliot, ad esempio, il valore della natura discende dal suo «essere frutto dell’evoluzione naturale» e non della «cultura e tecnologia».[53] Per Elliot, il valore della natura sta nel suo essere separata, radicalmente differente rispetto al mondo artificiale ed umano, nel suo essere intatta – ed è per questo che la natura finta, artificiale, non ha valore. E anche Dworkin, che pur non sembra vincolato dalla sua posizione ad accordare valore solo, o soprattutto, alla genesi creativa naturale (ovvero non umana), osserva che «i genetisti hanno creato piante di cui riconosciamo il valore strumentale: producono nutrimento e possono salvare la vita. Ma non pensiamo che queste specie prodotte artificialmente abbiano valore in sé, nel senso in cui ce l’hanno le specie naturali».[54]

Queste prospettive, per quanto immuni da alcune obiezioni che possono muoversi alle strategie d’estensione, non superano del tutto certi problemi messi in luce alla fine del paragrafo precedente. Forse ci sembra plausibile dare valore al processo che ha portato l’evoluzione a produrre certe specie o certi elementi della natura perché influenzati dall’analogia con l’arte – per estensione, di nuovo, pur se in un altro senso. È perché vediamo i processi naturali come se fossero creativi che diamo loro valore. Dworkin lo dice esplicitamente: è come se la natura fosse «un’antica opera d’arte, il cui autore sconosciuto è morto ormai da molti secoli, o […] qualche antico linguaggio o forma d’arte creati da persone che mai pensarono di stare investendo in qualcosa».[55] Anche se non c’è intenzionalità né esiste un autore della natura, noi vogliamo vedere qualcosa di simile a un processo di creazione, che ne anima l’evoluzione e fonda il suo valore. Il rischio di ritrovarci a parlare per metafore è però alto, qui: almeno quanto lo era nel caso della strategia dell’estensione.

In secondo luogo, non è detto che questa visione possa spiegare il valore degli elementi specifici della natura. Anche per Dworkin ed Elliot, in fin dei conti, la natura e i suoi elementi particolari hanno valore perché contenitori o esemplificazioni di una certa caratteristica del tutto generale:

 

il senso del sacro consiste nel valore che attribuiamo a un processo, un’attività, un progetto piuttosto che ai suoi risultati, considerati indipendentemente da come sono stati prodotti. […] il nostro interesse per la conservazione delle specie animali è […] basato sul rispetto per il modo in cui vengono a esistere, piuttosto che per gli animali considerati indipendentemente dalla loro storia naturale.[56]

 

Anche in queste teorie, insomma, come nelle strategie di estensione, l’elemento singolo (i “risultati” di Dworkin) non ha valore in quanto tale, ma in virtù di una caratteristica generale – in quanto esemplificazione di un processo di valore. Il valore storico della natura non è il valore particolare di pezzi specifici di natura.

 

8. Il valore particolare della natura

Nelle teorie viste nel paragrafo precedente, il valore della natura è il valore dei processi naturali: un valore storico, quindi. Queste teorie danno valore ai processi ma non ai risultati – o meglio i risultati hanno valore solo perché prodotti da certi processi. Questa impostazione non dà valore a singoli pezzi della natura – non dà valore in sé a questo particolare animale, a questa particolare pianta, a questo specifico paesaggio o nicchia ecologica. Ma è ovvio che queste cose hanno valore per noi. Sono spesso proprio le cose particolari ad avere valore, i prodotti dunque e non (o quantomeno non solo) i processi. Ci serve allora una teoria del valore particolare.

Un utile suggerimento si trova di nuovo in una discussione esterna all’etica dell’ambiente. Gerald A. Cohen distingue fra il valore che qualcosa ha in quanto realizza certi fini generali o esemplifica certe caratteristiche generali che hanno valore – per esempio il valore di un mezzo per ottenere piacere, o per alleviare le sofferenze – e il valore che qualcosa ha in quanto oggetto particolare dotato di valore.[57] La distinzione, qui, è fra la cosa di valore e il valore che in essa risiede.

Per spiegare la distinzione, Cohen istituisce un’analogia fra valore e amore. Si ama una persona non, o comunque non solo, perché ella esemplifica certe caratteristiche – è bella, buona e gentile, per esempio – ma si ama quella particolare persona, e non (o comunque non solo) quella persona in quanto portatrice di certe caratteristiche generali. Una implicazione immediata è che non si sarebbe disposti a scambiare quella persona con un’altra che magari avesse in maniera più marcata certe caratteristiche - che fosse più bella, più buona, più gentile. L’amore spesso non finisce anche quando l’amato perde alcune delle qualità che lo resero amabile – per esempio quando invecchia, o si ammala – o quando arrivi qualcuno che ha quelle qualità in maggior misura.

Allo stesso modo, suggerisce Cohen, certe cose hanno valore per il particolare oggetto che sono, piuttosto che perché esemplificano caratteristiche dotate di valore; e non si è disposti a scambiarle, o a mutarle, per renderle migliori - laddove ‘migliori’ significa che le caratteristiche generali dotate di valore sarebbero poi presenti in misura maggiore.
Ciò vale spesso per le istituzioni sociali, ad esempio. Si consideri un istituto universitario che promuove con efficacia l’educazione dei giovani ma si ferma prima del dottorato. Forse diventerebbe un’università migliore aumentando l’offerta di corsi di dottorato: così si potrebbero attrarre più studenti nuovi e offrire a quelli già iscritti possibilità maggiori. Ma si potrebbe anche dire che il valore di quella particolare università, il valore della sua identità specifica, non solo non necessita di questo cambiamento ma anzi richiede di non farlo. Aggiungendo corsi di dottorato quell’università perderebbe la sua identità, diventerebbe qualcos’altro.
L’idea è che il valore particolare di quest’istituzione va preservato anche a costo di non migliorarla, cioè anche al prezzo di non trasformarla in una istituzione diversa che magari sarebbe pure migliore. Il miglioramento potrebbe causare una perdita non compensabile: la perdita del valore dell’esistente, di ciò che deriva da una storia specifica e realizza un’identità specifica. Ci sono cose, si può dire, che sono date, cioè che hanno assunto una certa forma per un insieme di ragioni, anche contingenti e casuali, e che hanno valore in quella forma - e questo valore richiede di astenersi dall’intervenire su di esse - dal cambiarle, anche se in meglio. 

Cohen ipotizza dunque che ci sia un valore particolare dell’esistente che si aggiunge al valore che qualcosa può avere quando esemplifichi una caratteristica dotata di valore. Ma, al contrario di Dworkin ed Elliot, il valore per Cohen non deriva dal processo, ma risiede nel risultato: nell’esempio, è il valore della specifica istituzione universitaria considerata. Non è il valore che esemplificano tutte le istituzioni simili che si potrebbero creare riproducendo il complicato processo storico che ha dato vita a quella particolare università; né tantomeno il valore dei processi che producono università del genere; né il valore dei risultati che simili università conseguono - o niente che sia in alcun modo descrivibile in termini che astraggano dal caso particolare.
Ciò che esiste, in altre parole, può porre un limite all’azione o all’intervento, e questo limite proviene dal valore particolare che ciò che esiste può avere. Si può, in altre parole, sminuire il valore delle cose se si è troppo pronti a migliorarle, ad esempio se le si conserva solo finché non si sia trovato un qualche sostituto che esemplifichi caratteristiche di maggior valore.

Se qualcosa che ha valore esiste, innanzitutto c’è il dovere di preservarlo. Questo non significa che non si debba mai migliorare nulla: significa che il miglioramento stesso ha dei costi, che esso implica perdite e distruzioni di ciò che ha valore particolare e viene migliorato – e questi costi vanno anch’essi considerati, prima di lanciarsi a capofitto in sempre nuove avventure. Questo spiegherebbe come sia possibile che effettivamente, in alcuni casi, ci si possa ritrovare a dire “si stava meglio quando si stava peggio”.

Consideriamo un altro esempio. Immaginiamo di avere nel nostro giardino una copia grossolana del Gruppo del Laooconte. La statua è piena di incrostazioni di muschio e di licheni, e Laooconte ha un braccio rotto. Potremmo sostituirla con una copia migliore, nuova, senza macchie. Forse è il caso di farlo, se ciò che vogliamo è solo un contenitore di valore estetico – se ci preme di riprodurre l’esperienza di guardare il Gruppo del Laocoonte. Ma non è il caso di farlo se ci preme il valore particolare di questa statua, con la sua storia – il suo fascino estetico un po’ delabré, il ricordo dell’occasione in cui l’abbiamo posizionata, o il fatto che la statua segnala, proprio con la sua fattura grossolana, l’esistenza del modello e la sua inimitabilità. E, si badi bene, non è neanche il caso di sostituire la statua con un’altra ancora più cadente, o ancora più grossolana, per massimizzare tutti i valori simbolici o relazionali cui abbiamo appena fatto riferimento. È proprio quella statua, in quanto tale e per come è, che ha valore, e questo valore richiede la sua conservazione.

Il punto è la conservazione di ciò che ha valore, non la conservazione o massimizzazione del valore. La prima preclude la distruzione e la sostituzione di ciò che ha valore con qualcosa che abbia lo stesso o anche maggiore valore, la seconda no. Se si accetta la prima si capisce come si possa allora sacrificare un maggior valore generale al fine di preservare il valore particolare di specifici oggetti di valore già esistenti. Con le parole di Cohen: «il valore [in generale], si potrebbe dire provocatoriamente, non è l’unica cosa che ha valore. Ce l’hanno anche le cose particolari che hanno valore».[58]

Questa visione del valore sfugge alle obiezioni che abbiamo mosso alla strategia dell’estensione e alle teorie del valore storico della natura. Questo modo di vedere riesce a spiegare che gli oggetti specifici hanno valore in quanto tali, e non solo come contenitori di un qualche fattore capace di generare valore. Riesce inoltre a riconoscere valore alla natura e i suoi elementi senza dover ricorrere a controverse estensioni di ciò che consideriamo di valore (generale) negli umani. Riesce infine a spiegare cosa perdiamo quando perdiamo pezzi di natura: il loro valore particolare, la loro identità specifica, per come è risultata da processi storici particolari; e con questo spiega anche l’impulso fondamentale della conservazione ambientale. Ciò che esiste ha valore particolare: quel valore va perduto sia quando ciò che esiste è degradato che quando ciò che esiste è migliorato in riferimento a criteri di valore generali. La tutela della natura non astrae dal particolare, allo stesso modo in cui l’amore fra due persone non astrae dal particolare.  

 

9.  Conclusioni: etica dell’ambiente nell’Antropocene

Il precetto di conservare il valore particolare di ciò che esiste può apparire debole, eppure la sua applicazione avrebbe sicuramente costituito un notevole freno ad almeno molti casi di degrado ambientale che osserviamo oggi sia localmente che globalmente. E se il precetto pare astratto, la sua applicazione può essere concreta e lineare: si può, ad esempio, richiedere che il calcolo costi/benefici riguardante la perdita di particolari specie, ecosistemi o nicchie ecologiche a favore di sviluppo umano debba totalizzare una somma di benefici non uguale ma due o più volte superiore alle perdite ambientali coinvolte. Pochissimi paesi al mondo - ad esempio Costa Rica e Botswana – adottano questa linea in maniera sistematica e non solo episodica (a tutela non solo di certe aree ma di tutto il territorio nazionale, ad esempio, e da ogni forma di sviluppo e non solo alcune).

Più che aspirare a fornire consigli di gestione sociale e ambientale, però, il compito di una teoria del valore particolare della natura è quello di rendere conto delle nostre intuizioni morali e relazioni pratiche con gli ambienti che ci ospitano e le entità, processi e sistemi che li popolano e animano. Questo è un compito particolarmente complesso nell’Antropocene, questa nuova epoca in cui nessun elemento della natura, dal clima alle correnti degli oceani, fino al DNA degli esseri viventi, sfugge all’influenza dell’attività umana e dei suoi vari ordini di conseguenze. [59]

Nell’Antropocene, il processo storico non-umanizzato (o solo marginalmente umanizzato) che produceva la natura in passato diventa invece processo sistematicamente ibrido, dove non c’è più chiara demarcazione fra umano e naturale. Nell’Antropocene, la natura compie ancora un investimento nel senso di Dowrkinma è un investimento ibrido, per così dire, che può contribuire alla creazione del valore ma non è più la sede del valore – non ha valore in sé. Quel che ha valore in sé è il prodotto finale dell’investimento ibrido della natura e dell’umanità. 

Piuttosto che elencare una serie di dati scientifici che mostrano tutti come l’impatto delle attività umane su entità, processi e sistemi della natura si sia intensificato in modo esponenziale a partire dalla Rivoluzione Industriale e particolarmente dal 1950 ad oggi, preferiamo spiegare l’Antropocene con un esempio.[60] Poco fuori la città di Siracusa, in Sicilia, e precisamente in un paese di nome Priolo, si trova un impianto petrolchimico tra i più grandi d’Europa. I danni ambientali e alla salute umana causati da questo impianto – che ha preso il posto delle saline che c’erano un tempo – sono numerosi, profondi e documentati. Eppure, in quest’area si sono da alcuni anni insediate delle colonie di fenicotteri. Fino al recente passato, i fenicotteri si fermavano in Sicilia principalmente per far tappa sulla via per l’Africa. A causa dell’innalzamento delle temperature, i fenicotteri non hanno però più bisogno di arrivare in Africa e molti si fermano a Priolo. Qui, tra i fanghi e gli sterpi delle antiche saline poi spodestate dall’industria petrolchimica, e circondati da ciminiere, silos fumanti e miasmi, i fenicotteri non sono più solo di passaggio: nidificano, nascono, vivono e muoiono – in un nuovo habitat. Pochi panorami sono così spiazzanti come un impianto petrolchimico animato da centinaia di fenicotteri rosa. Una nutrita comunità di cittadini si occupa della tutela dei fenicotteri, li nomina e segnala uno per uno e li protegge. Sempre più turisti vanno a visitare questo luogo quasi onirico. Paradossalmente, le saline di Priolo sono state dichiarate riserva naturale nel 2000. 

Sembra ovvio che questa natura ibrida abbia valore – se ‘avere valore’ significa che distruggerla sarebbe una perdita. E infatti c’è chi tutela le nuove saline di Priolo, i loro fenicotteri e le centinaia di altre specie che le abitano. Il valore di questi luoghi, habitat ed ecosistemi ibridi non è il valore dell’esser stati selezionati dalle forze non umane dell’evoluzione naturale, né è il valore di un’opera dell’ingegno umano. Può essere esclusivamente il valore strumentale per il benessere dei fenicotteri e delle altre specie viventi che abitano questi ecosistemi? O degli umani che li contemplano o se ne prendono cura?

Anche se ciò fosse parte della risposta, appare esserci un residuo ancora non spiegato. Sembrerebbe anche che proprio quella particolare ibridazione abbia valore in sé, proprio perché così aleatoria e, nel più grande schema delle cose, transitoria ed effimera (se il clima continua a cambiare, i fenicotteri si fermeranno nella pianura padana).  Non è la storia umana, come prodotto intenzionale, né la storia naturale, come processo evolutivo, a dare valore alle saline di Priolo e i loro fenicotteri. È la storia lunga, complessa, irriproducibile dell’interazione fra mano umana e natura che ha dato vita a quelle particolari ibridazioni, ad avere valore. È, in un certo senso, precisamente la radicale contingenza e accidentalità storica di questi risultati a dar loro valore. Questi risultati potrebbero molto più facilmente non essersi mai verificati – questi ibridi potrebbero non essere mai stati, o essere diversi in miriadi di versioni possibili, poiché tutti i passaggi ed eventi che li hanno portati ad essere potrebbero non essersi mai verificati. In particolare, sia se la natura avesse fatto il suo corso in totale isolamento da ogni attività umana, sia se l’attività umana fosse rimasta del tutto isolata dalla natura, non ci sarebbero mai stati fenicotteri petrolchimici. Questi luoghi, habitat ed ecosistemi, questi animali individuali e specie, e le piante che li contornano e di cui si nutrono – tutto questo poteva esserci solo nell’Antropocene.  

Non è che la radicale contingenza dei processi dell’Antropocene sia più radicale di quella dei processi delle epoche precedenti: tutti i processi sono radicalmente contingenti, da sempre, nell’universo. La contingenza che è radicale e viene ulteriormente radicalizzata nell’Antropocene è piuttosto quella dei risultati – figli ora non solo della contingenza cosmica ed evolutiva ma anche della contingenza storica dettata da decisioni umane e dagli effetti non previsti delle attività umane in interazione con la natura. Quanto più contingente, improbabile, irripetibile il risultato, tanto più il suo valore - più o meno nello stesso modo in cui vincere la lotteria ha più valore se il biglietto vincente lo si è trovato per strada, o in cui l’esistenza di ognuno di noi ha più valore precisamente perché poteva non essere mai (se i nostri genitori non si fossero mai incontrati, ad esempio, perché magari i loro genitori non si erano mai incontrati e via via risalendo, fino al Big Bang). L’accidente irripetibile cosmico-storico-ecologico, l’ibrido mai visto che è un fenicottero petrolchimico, ha valore in sé ed è da tutelare (e infatti viene tutelato) anche e proprio per la loro radicale contingenza.

Sostenere che il valore particolare dei pezzi di natura dell’Antropocene discenda dalla sua radicale contingenza non significa negare che ci siano altre fonti di valore in loro – la vita, la diversità, l’apprezzamento che provocano a umani e non umani, la bellezza. Piuttosto, si sottolinea come anche il valore di queste altre caratteristiche sia amplificato, per così dire, dalla radicale contingenza di questi particolari ibridi. La natura ibrida dell’Antropocene – dai giardini di città[61] ai fenicotteri petrolchimici - ha valore in quanto prodotto radicalmente contingente, altamente improbabile, irriproducibile, e probabilmente effimero e irripetibile allo stesso tempo di processi naturali e storici, di culture materiali e contesti naturali e della loro reciproca interazione.

Ciò detto, un’etica dell’ambiente non è solo una teoria del valore della natura. Bisogna stabilire priorità e relazioni fra valore della natura e altri valori, specialmente in casi problematici. Un’etica dell’ambiente completa dovrebbe indicare come ordinare valori diversi nei casi di conflitto. Si tratta di un compito difficile, ma non più difficile ora di quanto non lo fosse prima dell’Antropocene, e di quanto non sia in altri ambiti dell’esperienza morale. Allo stesso modo, un’etica dell’ambiente completa dovrebbe stabilire quali specifici doveri derivino per individui e gruppi dal valore della natura. Tutto questo necessita di una ulteriore, lunga elaborazione, che non faremo qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Questo articolo è una versione ridotta e riveduta del capitolo secondo di Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo (Pellegrino e Di Paola 2018).

[2] Sulla nozione di ‘considerabilità morale’ e ‘status morale’, cfr. Goodpaster 1978. 

[3] Cfr. Passmore 1974, p. 8.

[4] Citiamo da Platone 2003, p. 34.

[5] Cfr. Repubblica, I, 333c-335a (Platone 2003, pp. 36–37).

[6] Cfr. Leopold 1949, p. 202.

[7] Cfr. Singer 1976.

[8] Cfr. Callicott 1994.

[9] Cfr. Carson 1963.

[10] Sulle campagne volte a mettere in dubbio i dati scientifici sul cambiamento climatico, cfr. Oreskes e Conway 2010.

[11] Cfr. White 1967.

[12] White 1967, p. 1206.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Cfr. Hardin 1968.

[16] Cfr. Meadows et al. 1973.

[17] Cfr. Mabey 2015.

[18] Per una critica serrata del paradigma della “natura incontaminata” cfr. Vogel 2015.

[19] Cfr. Passmore 1974, pp. 3-9.

[20] Cfr. Ehrenfeld 1976, p. 648.

[21] Cit. in O’Neill 1993, p. 151.

[22] Cfr. Routley 1973, p. 207.

[23] Cfr. Scherer 1983. Il caso in questione è una versione del famoso test dell’isolamento di G.E. Moore.

[24] La metaetica è quella branca della filosofia morale che si occupa non di cosa sia giusto o sbagliato, o di cosa abbia valore e cosa no, ma di questioni sulla natura stessa e la portata ontologica dei nostri giudizi morali. La meta-etica si chiede, ad esempio: che cosa giustifica i nostri giudizi morali? Si riferiscono alla realtà fuori di noi o esprimono soltanto sentimenti e proiezioni della mente umana? Qual è la fonte del valore? Ci sono valori eterni ed oggettivi, o il mondo ha valore solo perché gli esseri umani proiettano su di esso i propri sentimenti?

[25] Sull’antropocentrismo metaetico, cfr. Sandler 2007, pp. 113-114.

[26] Cfr. Zuolo 2016.

[27] Sullo specismo, si veda almeno Singer 1976.

[28] Cfr. Regan 1979.

[29] Cfr. Stone 2010; Attfield 1981; Hall 2011; Marder 2013.

[30] Friskics 2001.

[31] Abram 1996.

[32] Bennett 2010.

[33] Su quest’argomentazione, nota come argomentazione dei casi marginali, si veda Regan 1979.

[34] Cfr. Varner 2003.

[35] Cfr. Singer 1976.

[36] Si vedano i riferimenti alla nota 29.

[37] Singer ha suggerito che «se un essere non è capace di soffrire, o di fare esperienza di godimento o felicità, allora non c’è nulla di cui curarsi» (Singer 1976, p. 154).

[38] Goodpaster 1978, p. 316.

[39] Che dia valore ai batteri, secondo molti, rende il biocentrismo assurdo.

[40] Taylor 1986, p. 45.

[41] Cfr. Taylor 1986, capp. 2 e 3.

[42] Taylor 1986, p. 155. Taylor propone dunque una teoria egualitaria del valore, dove ciascun essere vivente ha lo stesso valore degli altri. Questo può essere problematico – un batterio ha lo stesso valore di un essere umano? Taylor ha indicato alcune soluzioni (Taylor 1986, p. 295).

[43] Cfr. Agar 2001, pp. 29-30; 56-57; 59-61.

[44] Cfr. Meyer 2006.

[45] Dworkin 1994, p. 100.

[46] Dworkin 1994, p. 101.

[47] Ivi, pp. 102-103.

[48] Ivi, p. 102.

[49] Ibidem.

[50] Ivi, pp. 103-104.108.

[51] Ivi, pp. 108-109.

[52] Cfr. O’Day 1999 per una discussione sia della distinzione fra valore incrementale e sacro che della nozione di ‘investimento’.

[53] Elliot 1997, pp. 59-60.

[54] Dworkin 1994, p. 107.

[55] Ivi, p. 109.

[56] Ivi, p. 107.

[57] Cfr. Cohen 2011.

[58] Cohen 2011, p. 212.

[59] Per una disamina articolata del concetto dell’Antropocene cfr. Pellegrino e Di Paola 2018, cap. 1.

[60] Si veda Steffen et al. 2011 per una panoramica dei dati empirici.

[61] Cfr. Di Paola 2017.


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ETICA , AMBIENTE , NATURA , ANTROPOCENE , SACRO.


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