La questione ambientale nel dibattito filosofico contemporaneo.
Una prospettiva di ricerca

 

di Alessandro Lattuada

 
 
 

Il problema dell’ambiente lambisce uno dei concetti fondamentali della filosofia contemporanea: la questione della tecnica.[1] L’origine greca del termine τέχνη si rintraccia nei poemi esiodei, in cui indicava il dono che gli dei avevano elargito agli uomini per sopperire ai loro deficit genetici. Successivamente, il suo significato si è progressivamente razionalizzato, distaccandosi dal mito e giungendo a designare la produzione artistica o, più genericamente, la perizia manuale. A partire da questo concetto, nella modernità la tecnica ha assunto una forma più specifica: essa è concepita come il mezzo attraverso cui l’uomo si rapporta al mondo “naturale”. Nel pensiero contemporaneo questo rapporto assume connotazioni più strettamente politiche. Ludwig Klages, considerato fra i primi teorici di un pensiero “proto-ecologico”, assiomatizza il ’900 in questi termini: «la “tecnica” domina la natura».[2] Questo approdo semantico è sorretto dal dogma del progressismo scientifico che, votato totalmente al perseguimento dell’utile a discapito della vita, sostituisce il godimento della bellezza del mondo con «la vuota soddisfazione prodotta dalla coscienza del dominio».[3] Dal punto di vista umano il mondo è dunque dominato in funzione di scopi utilitaristici e particolari. In un aforisma, Emil Cioran compie un’inversione prospettica dal sapore spinoziano: «Alberi massacrati. Sorgono case. Facce, facce dappertutto. L’uomo si estende. L’uomo è il cancro della terra».[4] Dal punto di vista della realtà, l’uomo appare come una cellula cancerosa che assorbe le energie della terra per edificare un ambiente trasfigurato tecnicamente. In seguito ai fasti delle rivoluzioni industriali e delle due Guerre, tuttavia, sono emersi consistenti dubbi sulle reali capacità umane di dominare la tecnica. Di contro agli assunti positivistici, il posto dell’uomo nel mondo tecnologico è stato rivoluzionato: tutt’altro che dominatore, egli appare subliminalmente ed inconsciamente sottomesso al dominio delle macchine. Questa tesi è stata sostenuta in particolare da Günther Anders, il quale ha definito la realtà politica moderna e contemporanea nei termini di un totalitarismo tecnocratico. Il punto nodale risiede nella nozione di utilizzabilità. L’idea secondo cui la tecnica possa essere utilizzata liberamente poggia i piedi sulle sabbie mobili dell’antropocentrismo e del finalismo. L’inconsistenza di questo genere di logica era già stata evidenziata da Spinoza: «[...] gli uomini suppongono comunemente che tutte le cose naturali, come essi stessi, agiscano in vista di un fine».[5] Quest’idea, afferma poco dopo, si basa sul fatto che essi «trovano in sé e fuori di sé molti mezzi che li conducono non poco a perseguire il proprio utile, come ad esempio gli occhi per vedere [...], da ciò deriva che considerano tutte le cose naturali come mezzi per raggiungere il proprio utile».[6] Da qui deriva il giudizio a priori secondo cui l’intero “ambiente”, nel senso più generale del termine, sia essenzialmente inerte di fronte alla potenza umana e, per conseguenza, la presunta supremazia ontologica dell’uomo rispetto al suo Umwelt.[7]

Per quanto l’epoca della civilizzazione inauguri una realtà tecnologica (e dunque, secondo il sentire comune, “a misura d’uomo”), l’uomo è comunque immerso, e dunque parte, dell’ambiente che lo circonda. In questo senso, l’immagine evocata da Cioran schiude inquietanti conseguenze: le malattie che affliggono l’uomo non sarebbero altro che l’effetto della sua stessa etica ambientale. Su questa linea di pensiero emerge la domanda “medica” di Guido Ceronetti, che insinua al tempo stesso un problema etico e politico: «Il cancro entra in noi o noi entriamo, ammalandoci, nella rivelazione del cancro universale?»[8]. Quest’affermazione estrema, dal gusto provocatorio, mette in luce non solo l’impossibilità di scindere l’uomo dal suo ambiente, ma anche l’inconsapevole tendenza umana all’autodistruzione, che appare coadiuvata dall’evoluzione tecnica. Questo sodalizio fra la tecnica e la naturale indole distruttiva dell’uomo ritrova la sua massima espressione nel campo militare. La bomba atomica rappresenta secondo Anders il mezzo esemplare del progresso tecnologico, ma simboleggia anche la natura fallimentare della logica causale. «La bomba», afferma Anders, «non è un mezzo».[9] E non è un mezzo perché, se per definizione il mezzo si liquida nell’esaurimento dello scopo per cui esiste, nel caso della bomba, «il minimo dei suoi effetti sarebbe più grande di qualsiasi scopo (politico, militare), per quanto grande, propostosi da uomini» ed il suo utilizzo trascenderebbe il fine al punto da mettere in dubbio «qualsiasi ulteriore impiego di mezzi; e con ciò annullerebbe il principio mezzo-fine in quanto tale».[10] In questo senso, il «“causante” (cioè chi lavora)» perde il senso del suo stesso lavoro, giacché «non riconosce più come proprio l’effetto del suo fare».[11] Dalla natura del mondo moderno prospettata da Anders – in cui la dialettica mezzi-scopi viene inficiata dal mezzo stesso, che, scalzando il suo demiurgo, diviene il centro della storia – consegue una differente concezione dell’umanità: «la fabbricazione di mezzi è diventata lo scopo della nostra esistenza».[12] L’uomo, in altre parole, diviene il mezzo dei suoi mezzi. Ci troviamo solo apparentemente di fronte ad un paradosso. L’edificazione artificiale dell’ambiente si basa su una logica che impone un ordine – anch’esso artificiale – alla realtà. Ma i prodotti che l’uomo fabbrica al fine di amplificare il suo potere sulla natura, nel momento in cui giungono ad essere, costituiscono la realtà – e, in quanto parte di realtà, contengono una potenza plasmatrice. Con le parole di Anders:

 

la credenza che esistano porzioni del nostro mondo che non sono altro che «mezzi», a cui si possono assegnare ad libitum «scopi buoni», è un’illusione. […] La verità è che lo scindere grossolanamente la nostra vita in «mezzi» e «scopi» [...] non ha nulla a che vedere con la realtà. […] Quel che ci plasma e ci altera, che ci forma e deforma, non sono soltanto gli oggetti mediati dai «mezzi», ma i mezzi stessi, i congegni stessi: i quali non sono soltanto oggetti di un possibile impiego, ma hanno una loro struttura e funzione determinata, che determina il loro impiego e con ciò anche lo stile delle nostre occupazioni e della nostra vita, insomma: noi.[13]

 

In generale, la tecnologia – radicalizzazione economica del concetto di tecnica – si esprime nell’amplificazione della velocità; in termini spaziali, ciò significa realizzare una vicinanza mercé un rapido accorciamento della distanza. Al riguardo, scrive Heidegger: «questa fretta di sopprimere ogni distanza non realizza una vicinanza; la vicinanza non consiste infatti nella ridotta misura della distanza».[14] La prova tangibile di quest’asserzione si trova nell’analisi andersiana della trasmissione televisiva. Quest’ultima, similmente allo sviluppo dei trasporti, nasce infatti come mezzo per accorciare le distanze spaziali e temporali e permettere una fruizione totale e collettiva delle informazioni. La trasmissione televisiva si presenta apparentemente sotto forma d’immagine. Ma l’immagine, quale oggetto, dovrebbe provocare un’esperienza estetica in relazione biunivoca con lo spettatore. La trasmissione, invece, non genera alcuna reciprocità – dunque, non provoca alcuna esperienza. Essa si presenta allo spettatore solo come la parvenza di una presenza, escludendo ogni relazione dialogica e riducendo lo spettatore ad uno stato di mutismo. Peraltro, mostrando un oggetto assente come una presenza presente, essa atrofizza l’“adesso” in un fantasma, generando un dislivello temporale. Essa dunque presenta – nel doppio significato del termine – un oggetto che in realtà non è nello spazio e nel tempo in cui viene fornito. La sua stessa natura è fantasmatica.[15] Inoltre, il fornimento a domicilio crea dipendenza, generando una nuova e paradossale forma di libertà:

 

Ogni momentanea assenza di consumo gli sembra già una privazione; il fumatore a catena ne è l’esempio classico. Così, horribile dictu, la libertà (= tempo libero = non far nulla = non consumare) si identifica con privazione.[16]

 

 Il tempo libero diviene tempo occupato, giacché, consumando trasmissioni, l’individuo sperimenta una peculiare forma di “libertà”. Essa consiste nella consumazione. Di contro, l’assenza di consumo mediatico si tramuta in una sorta di horror vacui. Il supposto “mezzo” diviene dunque la realtà da cui l’uomo è inevitabilmente plasmato in quanto vi è immerso. Come l’oceano per i pesci abissali, la realtà mediatica è, per Anders, l’ambiente dell’uomo della seconda rivoluzione industriale.

 

La pressione dell’oceano, di cui i pesci abissali permanentemente «fanno esperienza» (cioè: da cui permanentemente vengono colpiti), essi non la «sperimentano» (nel senso che non la appercepiscono). Piuttosto questa pressione fa parte fin dall’inizio del loro meccanismo di movimento, anzi dell’intera struttura dei loro corpi. Lo «schema di coercizione» è diventato la conditio sine qua non della loro vita di modo che, quando vengono issati a bordo dai pescatori, scoppiano. […] Lo stesso vale anche per certe condizioni artificiali prodotte dall’uomo. Nella nostra esistenza è già calcolato il modus con cui veniamo trattati e a cui siamo sottoposti permanentemente. Pertanto, non ne «facciamo esperienza».[17]

 

L’uomo diviene così il mero consumatore di merci fornite a domicilio, che lo privano della possibilità di formarsi una differente visione del mondo. Con la consumazione dei prodotti vengono infatti assimilati anche norme e divieti, che in-formano lo spettatore e limitano ulteriormente la sua libertà. L’uomo è dunque in certo senso impiegato come tacito fruitore; il suo lavoro è quello di assimilare e obbedire. Con ciò il dominio è inoculato nella forma più efficace: quella subliminale. Le regole non sono esplicitamente imposte, ma inconsciamente assorbite nel virtuale tempo libero. Per conseguenza, gli uomini della società contemporanea si presentano suddivisi in due categorie: “conformandi” e “conformati”.[18] Ora la dialettica mezzi-scopi, che fonda l’illusione di poter dominare la realtà, è privata del suo velo simbolico: sono i “mezzi” che si servono dell’uomo. Il rapporto di dominio è pertanto invertito: i prodotti di rifornimento sono «i dittatori d’oggi».[19] Similmente, nella Dialettica dell’illuminismo, Adorno e Horkheimer avevano definito la merce come dotata «dei valori che decidono del comportamento degli uomini» attraverso i quali la società incasella il singolo «come elemento statistico, come success or failure»[20] (conforme o non conforme, normale o anormale, adattato o disadattato, etc.). Così l’uomo, tutt’altro che dominatore, appare dominato dalla pubblicità, che impone il conformismo e l’accettazione dello status quo in un processo che si conchiude in se stesso. La pubblicità inaugura una nuova immagine del mondo, anzi una sola immagine del mondo, «il mondo nell’immagine, o meglio: il mondo come immagine, come una parete d’immagini che senza sosta cattura il nostro sguardo, senza sosta lo possiede, senza sosta copre il mondo».[21]Questa nuova realtà necessita di una nuova visione dell’uomo, di una rivisitazione della sua anima, che conceda la possibilità di un’appercezione dello stato di cose in cui si trova immerso. A tal scopo è necessaria una diversa postazione; una fuoriuscita dal proprio ambiente sociale. Con ciò non s’intende un edenico ripristino dell’ambiente ‘naturale’. Non è l’ambiente che deve essere modificato, ma l’uomo: disantropomorfizzato[22] o superato.[23]

Una fuoriuscita dal mondo civilizzato, il “passaggio al bosco” (Waldgang), può essere concepita solo metaforicamente. Il Waldgänger, figurazione politica dello Jünger degli anni ’50, è colui che “passa al bosco” in quanto si ritaglia una postazione individuale, ai margini della società, che gli permette di eludere il destino cui sono sottoposte le masse: «Le masse seguiranno la propaganda, che le costringe a un rapporto tecnico sia con il diritto sia con la morale. Non così il Ribelle».[24] Il Ribelle (Der Waldgänger) fa fronte al Leviatano con la resistenza clandestina attraverso gli strumenti stessi del nemico. Questa resistenza, che si attua attraverso la macchia (ovvero, nel “bosco”), origina da un duro scontro col Reale:[25]

 

L’uomo è troppo profondamente infossato nelle sue costruzioni: si deprezza, sente che sta perdendo terreno. Si avvia così alla catastrofe: verso i grandi pericoli e verso il dolore. Questi lo sospingono dove le vie sono senza uscita; questi lo portano all’annientamento. Ma, cosa singolare, proprio qui, messo al bando, condannato, in fuga, egli incontra di nuovo se stesso nella sua sostanza indivisibile e indistruttibile. Infrange il gioco degli specchi e si riconosce in tutta la sua potenza.[26]

 

In questi termini Jünger delinea la genesi del Waldgänger. Le sue caratteristiche non sono innate, ma originano da un violento e diretto scontro con la realtà contemporanea e le sue nefaste velleità; quest’esperienza permette all’uomo in fuga di ritrovare le sue potenze originarie per fuoriuscire dallo stato di assopimento conformistico. La clandestinità imposta diviene una scelta ed una decisione – lo stato propedeutico all’azione di rottura. La figura politica jüngeriana emerge dal sentimento di paura che permea la contemporaneità; questi non lo rifugge, ma crea da sé uno spazio ed una morale individuali per opporre una resistenza silenziosa.

Per Anders, invece, il sentimento che più di ogni altro caratterizza l’uomo contemporaneo non è la paura, ma la vergogna – più precisamente, la vergogna prometeica. Essa sarebbe all’origine della spasmodica produzione tecnologica. L’uomo, secondo l’autore, si vergogna della sua stessa origine e della sua nascita, del suo non essere fabbricato, del suo corpo imperfetto, della sua non sostituibilità; in una parola, della sua mortalità. Il problema è, così come in Jünger, quello della libertà; ma secondo Anders la libertà – nell’anima dell’uomo contemporaneo – è solamente appannaggio delle macchine: «Libere sono le cose; mancante di libertà è l’uomo».[27] La vergogna di non poter sopravvivere attraverso una sostituzione meccanica, e non poter dunque partecipare al fenomeno della reincarnazione industriale, genera quel che Anders chiama «malaise dell’unicità», la sofferenza per l’inesistenza di «spare men», uomini di ricambio, che determina «l’effetto di un memento mori».[28] Ciò spiega l’idolatrica esaltazione per le “star” (cioè gli individui più iconografati). L’iconomania permette la sopravvivenza dell’immagine della persona anche dopo la sua morte; essa è un surrogato d’immortalità, una virtuale riproduzione meccanica. Questi soggetti rappresentano di fatto l’archetipo dell’eroe. La figura dell’eroe, nell’Antica Grecia, rappresentava l’uomo più vicino agli dei in quanto capace di realizzare imprese titaniche; similmente, gli uomini più vicini all’immortalità delle macchine sono considerati i modelli di comportamento della contemporaneità. Le macchine sono dunque gli dei della nuova religione industriale; ed il principio primo di questa nuova religione delle macchine è la tecnica. Parafrasando la nota affermazione hegeliana, l’intero è la tecnica – il mondo contemporaneo non è altro che un’emanazione dei suoi prodotti. Da qui, segue la constatazione della natura mediatica e virtuale dell’ambiente. La ricerca della libertà risiede secondo Anders nella sfera emozionale. Per far fronte alla vergogna dell’uomo nei confronti delle macchine, ed appianare così il dislivello prometeico, occorre amplificare le proprie capacità emozionali e permettere una «dilatazione della capienza della nostra anima»[29] per attenuare o annullare del tutto la smania produttiva. Non vi è dunque in Anders la formulazione di un soggetto specifico, ma la costituzione di un’etica della salvezza che si fonda sul principio disperazione.[30]

Heidegger collima con l’idea andersiana secondo cui la tecnica sia l’elemento preponderante della contemporaneità. Ma una profonda differenza metodica separa i due autori. Anders applica la sua filosofia d’occasione: «un ibrido incrocio tra metafisica e giornalismo»[31] che dispone lo studio di un singolo “evento” (o di una singolare occasione) come punto di partenza per la costruzione di categorie universali. Heidegger, invece, ritiene che la questione riguardo la tecnica sia costitutivamente ontologica:

 

La tecnica non si identifica con l’essenza della tecnica. […] l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico. Non possiamo quindi esperire veramente il nostro rapporto con l’essenza della tecnica finché ci limitiamo a rappresentarci la tecnicità e a praticarla, a rassegnarci ad essa o a rifuggirla. Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza. Ma siamo ancora più gravemente in suo potere quando la consideriamo qualcosa di neutrale; infatti questa rappresentazione […] ci rende completamente ciechi di fronte all’essenza della tecnica.[32]

 

La domanda ontologica – che interroga il che cosa della tecnica – costituisce per Heidegger il punto nodale della questione. Essa pone una distinzione fondamentale: quella fra la tecnica e l’essenza della tecnica. Giungendo all’essenza, a ciò che essa è in sé, e prescindendo dunque dalle sue implicazioni contingenti, la tecnica moderna si differenzia da quella antica in quanto si fonda sull’estrazione e sull’accumulo. Essa non si basa sulla pro-duzione (Her-vor-bringer),[33] come la ποίησις greca, ma sulla pro-vocazione (Herausfordern).[34] La conseguenza lampante di tale differenza si riversa nel contesto ambientale, in particolare nel campo dell’agricoltura, che si è trasformata in un’«industria meccanizzante dell’alimentazione».[35] In quanto modo del disvelamento – ἀλήθεια – la tecnica, in generale, è ciò che fa giungere qualcosa alla presenza. Ma ciò che giunge alla presenza nel disvelamento pro-vocato dalla tecnica moderna non è un oggetto: è un Fondo (Bestand). Questo termine, avvisa l’autore, non deve essere inteso semplicemente come “scorta”, ma in quanto risultato del venire alla presenza del processo di pro-vocazione, che è un modo del disvelamento.[36] Sotto questa luce, l’uomo appare intimamente coinvolto in questo processo; anch’egli appartiene al Fondo. Scrive Heidegger:

 

Solo nella misura in cui l’uomo è già, da parte sua, pro-vocato a mettere allo scoperto (herausfördern) le energie della natura, questo disvelamento impiegante può verificarsi. Se però l’uomo è in tal modo pro-vocato e impiegato, non farà parte anche lui, in modo ancor più originario che la natura, del “fondo”?[37]

 

Coerentemente con ciò che afferma Anders, anche secondo Heidegger l’uomo condivide con l’ambiente circostante il medesimo destino. Anders radicalizza questo concetto sostenendo che l’uomo lo porta a compimento suggellando la fine dei tempi – che, hegelianamente, corrisponde alla fine della storia. L’autore de L’uomo è antiquato sostiene infatti che la conseguenza dell’impossibilità di comprendere gli effetti di ciò che produciamo, a causa della nostra arretratezza emozionale, conduce alla cristallizzazione di un dogma industriale: «Non solo ciò che si può fare si deve fare, ma anche ciò che si deve fare è ineluttabile».[38] Quest’idea annuncia il primato dell’astoricità sulla storia, trasformando quest’ultima in mera apparenza; con il dominio della tecnica,

 

la nostra storia si è tramutata in una ininterrotta storia della cancellazione istantanea del presente, vale a dire in una storia che non diventa mai consapevole di sé, dunque non può mai essere dimenticata, e quindi non è propriamente “storia” ma solo una inosservata successione.[39]

 

Il problema non risiede dunque nel prodotto in sé – la bomba – ma sul principio di necessità che caratterizza il dominio tecnocratico. Laddove c’è necessità non c’è possibilità; dove non c’è possibilità non c’è libertà. Laddove vige il principio di necessità, la storia, il cui percorso ha un senso solamente sui binari del possibile, perde ogni significato. Su questa linea di pensiero, Heidegger afferma:

 

Resta vero, comunque, che l’uomo dell’età della tecnica è pro-vocato al disvelamento in un modo particolarmente rilevante. Tale disvelamento concerne anzitutto la natura come principale deposito di riserve di energia.[40]

 

Sottoponendo l’ambiente e l’uomo al medesimo destino (Geschick), Heidegger non solo rivela l’illusione che fonda il concetto ordinario di libertà (che comprende la libertà di dominare la natura),[41] ma identifica anche nel destino stesso della im-posizione (Ge-stell), che inerisce l’essere della tecnica, il principio in cui «alberga in sé il possibile sorgere di ciò che salva».[42] Per tal motivo, l’autore indica nell’originale essenza del termine τέχνη – ovvero, l’atto della «produzione del vero»[43] in quanto ποίησις il punto in cui la tecnica ritrova la sua essenza veritativa e salvifica. L’appropriazione di questo senso della tecnica rappresenta la decisione fondamentale per il destino dell’intera Europa.[44]

Il singolo, o (per utilizzare i termini di Anders) occasionale, problema dell’ambiente costituisce dunque un rilevante tassello del ben più ampio problema politico, che – nell’epoca della radicalizzazione tecnologica e industriale – si tramuta nel problema della fine della storia e della politica. I disastri ambientali non sono che la conseguenza dell’uso sfrenato della tecnica, che promana dal progressismo e che trasforma l’ambiente in una tecnocrazia mediatica. Il nucleo essenziale di tale stato di cose risiede nell’imperante logica economica mondiale. Con le parole di Jünger:

 

Ciò che occorre vedere con chiarezza è l’esistenza di una dittatura del pensiero economico in quanto tale, il cui ambito comprende ogni possibile dittatura adattandola al proprio metro. All’interno di questo mondo, infatti, non è possibile compiere alcun movimento, poiché esso smuoverebbe la torbida melma degli interessi [...]. Il centro di questo cosmo è costituito dall’economia in sé, dall’interpretazione del mondo in senso economico [...].[45]

 

La dittatura del pensiero economico ha un nome che Ludwig Klages non esita a pronunciare: capitalismo. Ed il popolo del capitalismo è, secondo l’autore, il popolo cristiano, che annuncia il primato dell’uomo «in idolatrica opposizione all’intera natura» adattandosi perfettamente allo spirito del tempo, in quanto dietro la maschera della predicazione dell’amore nasconde un preciso intento: «la svalutazione dell’intera vita, all’infuori di quella utile all’uomo».[46] Klages individua così uno stretto rapporto gemellare fra la sovrapposizione monoteistica sugli dei pagani e la violenza esercitata dal progressismo sul paesaggio naturale. Visto sotto questa luce, la fuoriuscita dal tempo gnostico-metafisica di Cioran e Ceronetti – auspicata non a caso in entrambi gli autori per mezzo estetico[47] –  non rappresenta una fantasia romantica. Essa origina dalla rivelazione della logica luciferina che regge l’intero sistema globale – la logica del dominio economico e della progressiva ed incontrastata ambizione dello sviluppo tecnologico ai danni del mondo naturale. Al fondo della loro teoria metafisica giace dunque un progetto politico, incarnato dai due corrispettivi soggetti a-storici: l’apolide metafisico ed il filosofo ignoto. Poiché il mondo contemporaneo, fondato sulla logica capitalistico-cristiana dell’utile, prende forma attraverso il sacrificio dell’originario «essere intrecciato nella multiformità di immagini e nell’inesauribile pienezza della vita a favore dello sradicamento senza patria di una spiritualità separata dal mondo» causata dall’uomo che ha tradito «il pianeta che lo partorì e lo nutrì […] perché è dominato da una forza vampiresca [la forza capitalistica]»,[48] allora si rende necessario uno sradicamento da questa stessa realtà per ritrovare un rapporto autentico con il proprio ambiente. In tal senso Agamben[49] ha individuato nella categoria nietzschiana di inattualità l’esigenza primaria dell’essere contemporanei. Essa è all’origine dello Übermensch nietzschiano, ma si potrebbe individuare anche alla base del Dasein heideggeriano, del Waldgänger di Jünger, del Filosofo Ignoto di Ceronetti e dell’apatride métaphysique di Cioran. Questa sfasatura essenziale permette di mantenere lo sguardo fisso sul proprio tempo senza coincidervi perfettamente – ovvero vivendo ai suoi margini. Solo a queste latitudini è possibile la creazione di nuovi valori, invertendo il percorso di caduta dell’uomo nell’abisso della sua stessa tracotanza e frenando così il suo inconsapevole progetto di autodistruzione.

 

[1] La celebre questione della tecnica, su cui tutte le filosofie contemporanee, da Heidegger in poi, si sono confrontate, è stata sollevata in primis da O. Spengler in L’uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine [1931], a cura di E. Mattiato, Prato, Piano B, 2008.

[2] L. Klages, L’uomo e la terra [1913], a cura di L. Bonesio, Milano, Mimesis, 1998, p. 29.

[3] Ivi, pp. 30-31.

[4] E. Cioran, De l’inconvénient d’être né [1973], in Œuvres, Paris, Gallimard, 1995, p. 1376; tr. it. L’inconveniente di essere nati, a cura di L. Zilli, Milano, Adelphi, 2003, p. 154.

[5] B. Spinoza, Etica, in Id., Opere, a cura di F. Mignini, Milano, Mondadori, 2009, p. 826.

[6] Ivi, p. 827.   

[7] Sulla questione del rapporto fra l’uomo ed il suo ambiente-Umwelt, sono fondamentali anche gli studi di antropologia e di scienza dell’ambiente. Per citare qualche esempio: P. Alsberg, Der Ausbruch aus dem Gefängnis. Zu den Entstehungsbedingungen des Menschen, Gießen Focus, 1975; D. Claessens, Das Konkrete und das Abstrakte. Soziologische Skizze zur Anthropologie, Francoforte, Surhrkamp, 1980; J. Von Uexküll, Ambiente e comportamento [1934], tr. it. di P. Manfredi, Milano, il Saggiatore, 1967. Per un’interpretazione filosofica di questi studi in un’ottica post-heideggeriana, cfr. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger [2001], tr. it. di A. Calligaris e S. Crosara, Milano, Bompiani, 2004, in particolare: La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung [pp. 113-184], L’offesa delle macchine. Sul significato epocale della più recente tecnologia medica [pp. 267-292] e L’ora del crimine mostruoso. Per una giustificazione filosofica dell’artificiale [pp. 293-310]. L’interpretazione della tecnica come formazione artificiale di un nuovo ambiente si basa sugli studi di L. L. Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue. I fondamenti biologici della nostra civilizzazione, Milano, Adelphi, 1996 e di H. Blumenberg, ‘Mimesi della natura’. Sulla preistoria dell’idea dell’uomo creativo, in Id., Le realtà in cui viviamo [1944], tr. it. di M. Cometa, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 50-84.

[8] G. Ceronetti, Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina, Milano, Adelphi, 1979, p. 33.

[9] G. Anders, L’uomo è antiquato I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale [1956], a cura di L. Dallapiccola, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 234. Riguardo il rapporto fra l’uso della tecnica ed il pericolo della bomba, con l’annesso pericolo per il contesto ambientale cfr. Id., Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, tr. it. di L. Pizzighella, Milano, Mimesis, 2008. A questo può essere affiancato il testo di J. Dupuy, Piccola metafisica dello tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo [2005], a cura di M. Guerra, Roma, Donzelli, 2006, (in particolare pp. 90-91) che rimarca l’inevitabilità dell’uso dell’atomica e dunque la natura puramente dilatoria della distruzione ambientale insita nella tecnica.

[10] Ivi, pp. 234-235.

[11] Id., L’uomo è antiquato II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale [1980], a cura di M. A. Mori, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 58.

[12] Id., L’uomo è antiquato I, cit., p. 236.

[13] Ivi, p. 97. Trad. leggermente modificata.

[14] M. Heidegger, La cosa, in Id., Saggi e discorsi [1957], a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976, p. 109.

[15] In questo senso, Deleuze e Klossowski individuano nel simulacro (o virtuale) la categoria centrale della contemporaneità.

[16] G. Anders, L’uomo è antiquato I, cit., p. 134.

[17] Id., L’uomo è antiquato II, cit., p. 183-184.

[18] Ivi, p. 184.

[19] Ivi, p. 188.

[20] Horkheimer - Adorno, Dialettica dell’illuminismo [1944], a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2010, p. 36.

[21] G. Anders, L’uomo è antiquato II, cit., p. 231.

[22] Cfr. G. Rensi, Spinoza, Immanenza, Napoli, 2014, p. 93; G. Raciti, L’ospite orientale, in Id., Cinque scritti delfici, Lavis, La Finestra, 2004, p. 143.

[23] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra [1891], a cura di M. Montinari, Milano, Adelphi, 2010, p. 5.

[24] E. Jünger, Trattato del Ribelle [1951], a cura di F. Bovoli, Milano, Adelphi, 2004, p. 113.

[25] Utilizziamo qui esplicitamente la categoria di Lacan, con particolare riferimento alle sue connotazioni politiche delineate da Slavoj Žižek (Cfr. S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo [2006], a cura di M. Nijhuis, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, passim).

[26] E. Jünger, Trattato del Ribelle, cit., p. 72.

[27] G. Anders, L’uomo è antiquato I, cit., p. 41.

[28] Ivi, p. 58.

[29] Ivi, p. 293. Trad. leggermente modificata.

[30] In aperto contrasto col principio responsabilità di Hans Jonas (cfr. P. P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, passim).

[31] G. Anders, L’uomo è antiquato I., cit., p. 17.

[32] M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, cit., p. 5.

[33] Ivi, p. 9.

[34] Ivi, p. 11.

[35] Ibidem.

[36] Ivi, p. 12.

[37] Ivi, p. 13. Il caso esemplare proposto da Heidegger è quello della guardia forestale in relazione all’industria del legname. Ma l’autenticità e attualità della sua affermazione è tangibile nell’espressione “risorsa umana” utilizzata per descrivere, nelle odierne aziende, gli operai e gli impiegati.

[38] G. Anders, L’uomo è antiquato II, cit., p. 11.

[39] Ivi, p. 275.

[40] M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 16.

[41] Cfr. ivi, pp. 19-21.

[42] Ivi, p. 25.

[43] Ivi, p. 26.

[44] Cfr. Id., Introduzione alla metafisica [1935], a cura di G. Masi, Milano, Mursia, 2015, pp. 49-52.

[45] E. Jünger, L’operaio [1932], a cura di Q. Principe, Parma, Guanda, 2010, p. 28.

[46] L. Klages, L’uomo e la terra, cit., p. 53.

[47] Il primo Cioran identifica nell’essere lirici la possibilità di salvezza dal mondo (Cfr. Al culmine della disperazione [1934], a cura di F. Del Fabbro e C. Fantechi, Milano, Adelphi, 1998, pp. 15-18). Per Ceronetti ogni forma d’arte contiene in sé frammenti di luce salvifica (per un approfondimento di questo argomento mi permetto di rinviare al mio Frammenti di una luce incontaminata in Guido Ceronetti, Lavis, La Finestra, 2016, pp. 108-122).

[48] L. Klages, L’uomo e la terra, cit., p. 55.

[49] G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Roma, Nottetempo, 2008, p. 9.


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FILOSOFIA CONTEMPORANEA , TECNICA , DOMINIO , PAURA.


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Filosofia

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Siculorum Gymnasium

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