Ambiente, eccessi mediatici e geografie immaginarie

di Elio Manzi

 
 

Una delle domande che gli italiani muovono più spesso a se stessi, ai governanti del proprio Paese, ai concittadini, agli stranieri soprattutto europei è questa: perché l’Italia, culla vera o presunta dell’arte, della cultura, del bel paesaggio, ricca di gente operosa (la stessa Costituzione repubblicana al famoso Art.1 recita con retorica  d’altri tempi che l’Italia è fondata sul lavoro) famosa meta turistica internazionale ecc. ecc., conta così poco nel consesso europeo e mondiale?

 Naturalmente le “colpe” di tale storica “inferiorità” sarebbero quasi tutte esterne, come quelle presunte dei guai interni: le banche, i “poteri forti”, gli invasori stranieri che “devono essere aiutati a casa loro”, le mafie, i governi corrotti, e, in altri tempi per fortuna lontani (si spera) gli ebrei, gli zingari (oggi rom), i fascisti, i comunisti, i bigotti, gli atei, ecc. ecc. Mai che le colpe fossero nostre, per carità, sempre del vicino, dell’altro. L’enorme debito pubblico italiano, palla al piede per ogni tentativo di serio sviluppo duraturo, specie del Mezzogiorno, deriverebbe dagli stessi biechi nemici esterni a noi. Mai che ci si ricordi delle assurde pretese sindacali del passato, delle pensioni concesse a migliaia di persone con 14 anni, 6 mesi e un giorno d’anzianità (donne) e 19 anni, 6 mesi e un giorno (uomini), del salario “variabile indipendente” (indipendente dal rendimento, dalle assenze, insomma dalla condotta lavorativa), dell’abolizione per lunghi anni dei concorsi per merito, della creazione di diecine di sedi universitarie in ogni capoluogo di provincia e poi con filiazioni in quasi ogni centro circondariale, con enorme aggravio della spesa a scapito degli atenei più antichi e famosi; e poi, delle “partecipate”, cioè le finte società private ma a capitale pubblico, finte SpA possedute dai comuni e talora da province e regioni, affiancate  negli anni alle aziende comunali di servizi (ad es., per la nettezza urbana o per i trasporti) per eludere l’obbligo di assunzione con pubblico concorso e poter così infilarvi amici, clientes, parenti, elettori vari ecc. a discrezione, ovviamente pagando i dipendenti delle vecchie aziende “smontate” e quelli nuovi. Una spesa pubblica enorme e spesso parassitaria, possibile con l’emissione di mostruose quantità di titoli di stato o regionali, imponendo alle banche di acquistarli e pagando specie in periodi d’inflazione, grandissimi interessi a loro volta produttori di altri debito.

Sempre colpa degli “altri”. Anche la parziale rovina del celebrato paesaggio, una delle ragioni dell’attrazione turistica del Paese, terribile nel trentennio 1960-1990 ma già virulenta alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, per via di una pervicace e solida speculazione edilizia, si deve agli “altri”.

Il cd “populismo” politico sfrutta da sempre questi luoghi comuni che hanno una certa base reale, e predilige in genere l’ignoranza dei cittadini, specie per l’incapacità del ragionamento territoriale, a scale interagenti, in parole semplici “geografico”. Il cittadino elettore dev’essere preferibilmente ignorante, privo di seri strumenti di giudizio, quindi non in grado di smascherare le insipienze della politica, la mancanza di pianificazione paesistica, turistica, ambientale. La stessa progressiva semidistruzione della scuola pubblica, con continue riforme contraddittorie e demagogiche, è funzionale a questo disegno, in parte, e in parte solo deriva da insipienza e corte vedute politiche, che rincorrono l’immediato in un eccesso di scadente mediaticità.

La rincorsa è più o meno questa: i mezzi di informazione (o disinformazione) di massa e i giornalisti (tranne quelli specializzati, pochi, e i rari “grandi” giornalisti) creano un’opinione, vera o falsa che sia purché verosimile salvo smentite, i politici ascoltano, sondano l’elettorato del momento, assai variabile, e decidono creando una legislazione spesso (a non sempre per fortuna) contraddittoria, di difficile attuazione pratica  ma di immediato impatto mediatico. L’applicazione spetta poi ai funzionari, ai cittadini, ai sudditi. Spesso le categorie interessante (ad esempio, per la scuola, insegnanti, dirigenti e simili) non vengono ascoltate se non formalmente, mentre  si decide in base alle opinioni mediatiche basate su luoghi comuni o impressioni datate.

Da anni cerco di spiegare ai giornalisti che all’Università non esistono i “baroni” se non nelle (ex) facoltà dove girano potere e danaro, cioè Medicina e un po’ anche altre scuole tecniche, che gli “assistenti” sono stati aboliti da molti anni, che il taglio continuo delle risorse pubbliche porta allo scadimento della qualità, come la creazione insostenibile delle tante sedi minori clientelari e provinciali, con cicli brevi di lezioni e lauree anch’esse brevi, di poca utilità per i giovani ma utili a far quadrare le stostistiche di confronto con altri stati europei.
Parecchi anni fa, insegnando in una Facoltà del profondo Sud, più o meno doppione delle Facoltà di Lettere e Filosofia, ma con iniziale poi tradita missione della specializzazione per l’insegnamento secondario, di fronte alla bassa qualità dei fruitori (salve eccezioni sempre benvenute) e alla non eccelsa qualità media dei docenti (primo fra essi ovviamente io stesso,  salve eccezioni di alta qualità anch’esse sempre benvenute) proponevo che i genitori di bambini appena nati, allo stato civile, assieme alla dichiarazione di nascita, inserissero la richiesta di una laurea attribuita sin dall’inizio della vita, tanto, si sa, in Italia, siamo tutti dottori sin dalla nascita e quindi tanto valeva ufficializzare la faccenda. S’intende, con il pagamento di  una tassa di laurea all’origine, ovviamente senza oneri per i meno abbienti o per gli evasori fiscali, spesso coincidenti nei fatti.[1]

L’ignoranza indotta dall’alto e tollerata dal basso (termini della sociopolitica d’accatto che non sa poi dove sia l’alto e dove il basso) è massima in campo territoriale, diciamo pure “geografico”. La geografia sparisce dalle scuole e dall’Università, sostituita da materie più alla moda, e più forti nella contrattazione dei saperi di tipo sindacal-corporativa, ovviamente non dichiarata come tale, ma nell’interesse superiore degli studi e degli studenti. Sociologie dalle varianti quasi infinite, architetture ambientaliste e ecologisti d’assalto (che però credono essere la mitica Amazzonia l’unica foresta pluviale del pianeta), storie e politiche del sapere alla moda.

“Ambiente” parola mitica, che copre tutto e niente. In genere, ma non sempre, area praticata da autodidatti, privi di basi scientifiche, orecchianti, genericamente ritenuta utile in teoria, ma disattesa in pratica come cosa fastidiosa e contraria a grandi interessi aziendali e politico-corporativi.

L’Italia firma tutte le convenzioni internazionali sull’ambiente, tanto per l’attuazione concreta c’è tempo. Ad esempio, accordi sul clima, la Convenzione Europea del Paesaggio, agricoltura sostenibile, produzioni agricole. Poi si scopre che un ex ministro delle politiche agricole, oggi presidente della Regione Veneto, leghista filo nordista, ha inserito in un trattato internazionale sul riconoscimento dei prodotti di qualità da esportazione, tra l’olio d’oliva, solo quello veneto, cioè la minuscola produzione del Garda! Dimenticando gli oli liguri e toscani spesso pregiatissimi…non cito quelli del Mezzogiorno, per non urtare sensibilità “nordiste”!

La conoscenza geografica scientifica in Italia è scarsissima, e peggiora negli ultimi anni.

Qualche esempio derivante da esperienze personali di geografo di lungo corso. Ho tenuto cattedra nel profondo Sud (Sicilia) e nel profondo Nord (Pavia) per  tanti anni, quindi ho modesto titolo per esporre pareri e vicende da varie angolazioni.

Ho fatto parte di Commissioni CNR di tipo “ambientale” come esperto di paesaggio umanizzato e di strutture urbane. In una di esse c’erano colleghi  studiosi  di climatologia, di variazioni ambientali e simili. Tormentati dai cronisti che, specie in occasione di eventi “eccezionali” (alluvioni, terremoti, eruzioni, periodo di caldo forte o freddo intenso ecc.) chiedevano immancabilmente se il deserto avanzasse rapidamente, se in Sicilia negli anni prossimi i dromedari sahariani sarebbero stati indispensabili, se era possibile prevedere il giorno e l’ora dei terremoti, perché i vulcani sono così cattivi ecc. Insomma, le banalità che tutti ascoltiamo dopo eventi spesso dovuti a cattiva gestione del territorio, o a scarsi controlli del medesimo, anche nei parchi nazionali o regionali. E i colleghi a tentare di spiegare che i mutamenti climatici non sono così meccanici, ma si svolgono in quadri estremamente complessi come sistemicamente complesso è il funzionamento del pianeta degli uomini. Queste commissioni, pur utili (ad esempio per far parte di organismi internazionali che decidono sull’ambiente) furono sciolte dal CNR per mancanza di fondi, limitati ma indispensabili almeno per una riunione annuale a Roma, peraltro con i magri rimborsi dei pubblici dipendenti, tenuti al rispetto della Contabilità di Stato, a differenza dei politici (specie quelli regionali) che, come  recenti fatti penali hanno evidenziato,  chiedevano rimborsi a pie’ di lista, per qualsiasi cosa più o meno attinente all’ufficio (incluse le mutande). La faccenda ha avuto grande clamore giornalistico, ma pochi ne hanno conosciuto il finale, e cioè il nulla di fatto sostanziale della giustizia perché la politica aveva provveduto a stilare norme non stringenti come invece sono quelle dei normali pubblici funzionari, meno elastiche e quindi non soggette a interpretazioni varie.

L’abolizione tentata delle province, per fare un altro esempio di ignoranza geografica, e poi fallita, era frutto anch’essa di assai superficiale conoscenza dei meccanismi territoriali. Come pure l’istituzione acritica delle Province o Città metropolitane. Da geografo professionista e componente per anni dei consigli direttivi di società geografiche, come la Società Geografica Italiana di Roma, che esiste da 150 anni, ho assistito alla stesura e all’edizione di rapporti tecnici sulle confinazioni regionali (che vuol dire anche provinciali o comunali), presentate ai politici in varie occasioni. E tenute in nessun conto nei fatti. Grande clamore mediatico sull’abolizione delle “malvage” province, nessuna riflessione sulle regioni costituzionali, che in vari periodi sono state criticate e additate come fonte di sprechi di pubblico danaro o inutili per il disegno territoriale italiano. Ad esempio, varie volte si è proposta l’abolizione delle regioni “minori” come Umbria, Molise, Basilicata, Valle d’Aosta, da scorporare e aggregare alle contermini, ma…apriti cielo! Le tradizioni, san Francesco, l’autonomia linguistica, Giustino Fortunato, ecc. ecc.

Le province non andavano abolite tout court bensì ridotte a una trentina, incluse quelle metropolitane, le quali comunque si potevano ridisegnare secondo criteri di geografia politica e di urbanistica seria, cioè tenendo conto delle realtà conurbate, dei campi d’attrazione urbana christalleriani e non in base alla meccanica trasformazione della provincia esistente con dentro il capoluogo regionale. Questo semplicistico criterio può andare per qualche provincia molto urbanizzata, come Milano, Napoli, forse Genova (conurbazione lineare costiera). Ma come fa la Provincia di Palermo a diventare miracolosamente metropolitana, non si capisce. Infatti, in essa esistono rilievi montuosi semi-spopolati e poche città conurbate solo sul litorale, più o meno da Carini a Ovest fino, al massimo, a Termini Imerese a Est, verso l’interno, con Monreale, ma solo la cittadina, non il suo immenso territorio comunale che arriva al centro della Sicilia. Ma come fare ad escludere molti comuni? Impossibile. Proteste, pressioni irresistibili ecc. Si vede che la metropoli palermitana si estende fino ai Monti Sicani anche se noi non la vediamo.

Gli eccessi e l’ignoranza mediatica determinano anche percezioni durature, che “fanno territorio”. Un esempio su Napoli. La città del Golfo è sempre stata oggetto di migliaia di figurazioni e scritti, da alcuni secoli e soprattutto dal periodo del Grand Tour in poi. Dipinti, cartografia, guide di viaggio, e poi fotografie, film, sceneggiati, romanzi, e altre espressioni mediatiche, spesso legate ad aspetti negativi o criminali, altre volte  basate sull’immagine di luoghi naturali o natural-costruiti di grande e originale bellezza, perché il mito classico, la morfologia calcarea e quella vulcanica si mescolano in un originale connubio solo in parte occultato dalla speculazione edilizia e dall’abusivismo feroce e stupido. Napoli, insomma, è scenario attraente per i media di ogni tipo, e qualcosa che avviene a Napoli, spesso negativa “fa notizia” più che altrove. Anche per via della propaganda politica antimeridionale prosperata per anni, che ha rinverdito di fatto la tendenza risalente all’unificazione politica del Paese raggiunta a fatica e con la sconfitta culturale oltre che militare del Regno delle Due Sicilie, con i siciliani complici iniziali delle mire sabaude.

Il giornalismo svelto e pressappochista conosce una Napoli inesistente, ad esempio in una schematica divisione amministrativa che si rispolvera ad ogni servizio in occasione di eventi vari: Napoli è Scampia (parte di un quartiere amministrativo, spesso citata senza nemmeno dire “Napoli”, come se fosse un’entità amministrativa autonoma), i Quartieri Spagnoli (scambiati per un quartiere amministrativo, mentre la dizione risale solo all’acquartieramento sulle colline sopra Toledo delle truppe spagnole del Viceregno), il Rione Sanità, anch’esso solo titolo di una commedia di Eduardo De Filippo e non divisione amministrativa, e talora Posillipo, zona di pregio conosciuta perché scenario di sceneggiati e film grazie ai panorami e alle residenze lussuose. Il resto quasi non esiste. Il disagio sociale e il degrado urbano di Ponticelli, San Pietro a Patierno, in parte anche San Giovanni a Teduccio dopo la deindustrializzazione, non esiste. Esiste solo Scampia con le sue folli Vele, edifici assurdi che però, quando furono eretti, vennero magnificati dai media del tempo come realizzazione architettonica e toccasana per il degrado sociale.
Bagnoli viene fuori più di rado, in occasione di eventi giudiziari legati alla complessa e incompiuta opera di bonifica dei suoli compromessi da decenni di attività industriale inquinante.

Il turismo dei grandi numeri è tornato a Napoli dopo decenni di fuga dei visitatori verso le isole del Golfo: mezza giornata e via verso Ischia, Capri o Pompei. Le strutture alberghiere irrobustite, i tanti B&B aperti, e soprattutto la propaganda in parte spontanea, insomma le cosiddette recensioni dei luoghi, del cibo, del paesaggio e altro, quasi sempre entusiastiche, hanno indotto centinaia di migliaia di persone ad una viaggio nella città. La cucina tradizionale, con prodotti originali e celebri nel mondo, ma che a Napoli si possono gustare in “originale” per così dire, e l’enorme ricchezza del patrimonio museale, artistico e culturale, hanno aiutato un poderoso risveglio. Non certo l,a mancata concorrenza di altri luoghi del Mediterraneo meridionale, sminuita dalla paura del terrorismo, come Egitto o Tunisia, che non hanno mai goduto di grandi numeri.

 La componente ambientale, “ecologica”  sarebbe ancora importante come lo era in passato, quando i vulcani si venivano a studiare a Napoli  senza andare in Indonesia o lungo la Cordigliera Andina, o a Santorini in Grecia. Pochi sanno che Vivara, la più piccola delle isole flegree presso Procida, presenta la stessa morfologia di semicratere spaccato da una violenta eruzione antica, come Santorini. Ma Santorini è turisticamente famosa, addirittura spacciata per l’Altantide di Platone da frettolosi e superficiali commentatori, i quali forse non hanno mai letto i dialoghi Crizia e Timeo del grande filosofo. Pochi sanno che a Napoli esiste il più antico acquario d’Europa ancora funzionante (se i lavori di restauro finiranno) dovuto alla sapienza e lungimiranza del naturalista tedesco Dohrn a fine Ottocento. Dohrn come altri stranieri fu affascinato dalla grande diversità ambientale del Golfo, allora ancora in parte non rovinato dall’eccessiva umanizzazione, pur se già molto fitta, una perla ambientale autentica, l’acquario di Napoli, che poco ha a che fare con i mega acquari mediatici fatti con fauna tropicale estranea ai nostri mari a imitazione di quelli statunitensi.

Purtroppo gli eccessi mediatici sull’ambiente non si limitano agli  stupidari climatici, ma investono aspetti più drammatici. In occasione del sisma di Casamicciola nell’agosto 2017, i media per giorni hanno ossessivamente ripetuto notizie in parte fasulle diramate purtroppo, per leggerezza, dall’Istituto Nazionale di Geofisica, che ha ipotizzato un epicentro nel mare, a non grande distanza dalla costa. Avevo soggiornato a Ischia appena una settimana prima, e, seppur non esperto di terremoti, da geografo avevo giudicato strano che, con epicentro nel mare, i danni sulla linea di costa, ad esempio a Porto o a Ponte d’Ischia, fossero risultati molto lievi o inesistenti, a parte la paura per la forte scossa. Il prof. Longo, già direttore dell’Osservatorio vesuviano, ha qualche giorno dopo smentito la faccenda, e così si è stabilito che l’epicentro è stato proprio sotto il quartiere interno di Casamicciola, guarda caso nel medesimo luogo del terribile terremoto di fine Ottocento, nel quale perirono i genitori di Benedetto Croce. In quel giorno del sisma, nell’Osservatorio operavano tecnici informatici, abilissimi nella lettura di dati computerizzati, ma evidentemente meno specializzati in geografia fisica, in geomorfologia e in vulcanologia, scienze indispensabili per interpretare un sisma. Ho notato questa carenza degli informatici anche in passato, ad esempio nella lettura delle rappresentazioni territoriali da satellite, LUCC, laddove l’informatico non possiede che nozioni scolasticamente elementari di geografia e di interpretazione dei paesaggi agrari e può confondere i dati in certe zone.

E ancora, fa riflettere la faccenda delle scale di misurazione dei sismi. Ovviamente, in Italia, dove si scimmiotta malamente l’America (ad esempio chiamando “governatori” i presidenti delle Regioni, per analogia assurda con i governatori degli Stati USA, come se le Regioni fossero stati, e quindi inculcando nei giovani l’abitudine a diciture false e a funzioni inesistenti) si usa la scala Richter, che misura solo la potenza energetica del sisma, e non l’impatto sul territorio. Invece la nostrana Scala Mercalli, che i media non conoscono, misura i gradi di danni reali sul costruito, sul paesaggio, sulle opere dell’uomo. Ho vissuto per anni a Pavia, nella  Sezione geografica dell’Ateneo, che possiede la biblioteca Baratta, cioè quella lasciata dallo studioso, che si era specializzato nell’impatto dei terremoti sull’ambiente, specie umano. Il terremoto di Messina di inizio Novecento fu da lui ampiamente studiato. Per i media Mario Baratta fu un “sismologo”, mentre era professore ordinario di Geografia nell’antico Ateneo ticinense, nel quale sono stato per vent’anni il geografo, successore appunto del Baratta. Baratta adoperava la scala Mercalli. Ma la scala Richter parla inglese, la Mercalli l’italiano, che conta nulla, specie se gli italiani lo pasticciano con un finto inglese pseudo-aziendale, peraltro pronunciato in modo sbagliato e ridicolo. Come possiamo sperare di essere credibili?

 La geografia questa sconosciuta, proprio in un Paese che avrebbe grande necessità di conoscenze territoriali complesse e interagenti anche per evitare una sottocultura ambientale fatta di Amazzonia, ostracismo verso gli inceneritori (che però di devono chiamare termovalorizzatori) senza spiegare che la raccolta differenziata  totale di rifiuti con l’illusione di nulla istradare verso gli inceneritori è impossibile, e poi uova marce contro le pellicce di allevamento scambiandole per quelle di animali selvaggi,  ipocrisie da salotto radical-chic, tutto frutto di profonda ignoranza di base.

La Sicilia, dove si pubblica questo bel periodico, è da sempre tormentata dai luoghi comuni mediatici e afflitta da geografie immaginarie. Per altri 20 anni, in due riprese, ho svolto il mio insegnamento geografico in Sicilia. Per un certo tempo, sono stato l’unico professore ordinario di geografia in tutta l’isola, esistendo cattedratici coevi solo in geografia economica, a Catania. Poi altri colleghi sono pervenuti alla cattedra. Intervistato talora da trasmittenti locali o anche nazionali, in occasione di Convegni, mi sono speso  per chiarire che Sicilia non è solo mafia, e che in Sicilia non fa sempre caldo (il contrario di Totò e Peppino che ritenevano che a Milano fa sempre freddo, anche in estate), che in inverno sulle alte montagne nevica, che l’acqua non vi può essere privatizzata, dal momento che la “privatizzazione” già da sempre avviene dove è scarsa, con la vendita da pozzi o sorgenti private…queste ultime oggi sfruttate dalle multinazionali alimentari. 

Che regione e quali paesaggi in Italia sono realmente simbolici rappresentativi di tutto il Paese? Una risposta scontata trarrebbe in ballo la Toscana, regione “di mezzo”, culla della lingua nazionale (seppur oggi svilita e ormai poco conosciuta dagli stessi italiani). Ma a me piace invece sostenere che la Sicilia riassume un po’ tutta l’Italia, nei suoi molti pregi e nei suoi gravi difetti. Per la varietà dei paesaggi, per la ricchezza artistica, urbana, umana, sociologica. Per la diversità subregionale e la  bontà della cucina e della pasticceria, perché il mare vi è presente ovviamente in modo pervasivo, come dovrebbe essere per l’Italia, dove invece il mare per anni è stato messo da parte, esaltando una inesistente continentalità padana, espressione di un nordismo da osteria di paese. Perché la politica soffre di familismo (altrove è ugualmente tale, ma più ipocritamente lo si sottace), perché la mafia non è tutto, perché i siciliani perbene, lavoratori infaticabili e desiderosi di migliorare se ci fossero le possibilità, sono tantissimi. Perché, a dispetto dei nordisti da osteria che sostenevano che gli insegnanti meridionali non dovevano andare nelle scuole del mitico Nord in quanto incomprensibili dai locali (magari figli di immigrati meridionali “ripuliti”), alcuni dei maggiori scrittori in italiano sono stati e sono siciliani.

Quando sono venuto in Sicilia, tanti anni fa, prima come turista poi come stabile residente e docente, ho voluto girare per anni tutta l’isola, dalle pianure alle montagne, dalle coste allora ancora in parte solitarie (come a Vendicari, una visione speciale) dai centri della colonizzazione baronale alle grandi città, dai borghi montani solatii alle località del turismo internazionale, dai paesoni in odore di mafia alle campagne spopolate percorse dai campieri a cavallo, armati, ai quali  mi rivolgevo per informazioni ove avessi perso la strada nelle trazzere  e nei sentieri, dalle meraviglie arabo normanne ai resti della grecità classica, fino al coltivare poche e selezionate amicizie che durano tutta la vita e oltre, come solo i siciliani sanno offrire. E le scarse  ma meravigliose foreste, come la Ficuzza o occidente e la Malabotta a oriente, aiutato nella mia ignoranza sulle specie vegetali dai colleghi dell’Orto Botanico di Palermo, luogo meraviglioso nel quale ho avuto la fortuna di trascorrere gli ultimi anni della mia carriera accademica, in una facoltà di scienze, da geografo umano.
Anche i colleghi naturalisti lamentavano l’ignoranza e gli eccessi dei facitori d’informazione circa il cosiddetto ambiente.

Una parte della colpa dello scadimento della geografia si deve agli stessi geografi. Geografia è studio di Terra, Acqua, Aria, Fuoco e Masse Umane abitanti, secondo l’antico assioma classico aggiornato dalla pervasività umana attuale. Tutto mescolato in infinite combinazioni sistemiche, alcune a noi non del tutto note. Se i geografi non fanno più geografia ma si dedicano a blande sociologie, nelle quali terra, aria, acqua e fuoco sono assenti, non ci si deve poi lamentare. Lo studio dei negozi d’epoca a Catania, ad esempio, può essere esercizio appagante, ricordo di un passato urbano scomparso, aggregazione di elementi storici e sociali vari, ma con la geografia c’entra poco. E’ una elementare sociologia, campo in cui i sociologi di professione sono più bravi. Bravissimi ad occupare spazi universitari e mediatici. Anni addietro ho insegnato a Milano, presso lo IULM, dove era rettore e docente il sociologo Alberoni. Le sue lezioni erano gremite: parlava dell’innamoramento, della gelosia e di altri sentimenti, ovviamente secondo sue interpretazioni. I geografi italiani non hanno voluto o saputo far valere le proprie ragioni, e si sono trastullati nelle discussioni interne su che cosa è o non è la geografia. Hanno osannato e ormai deificato Lucio Gambi, grande e raffinato studioso certamente, ma pure distruttore della geografia con l’affermare che non esiste in quanto metà storia e metà scienze naturali. Molti osannatori attuali non hanno mai letto molti scritti di Gambi, secondo il radicato costume italico di giudicare e pontificare senza seria documentazione. Gambi, marxista, si dimostrava però idealista e quasi gentiliano, confondendo volutamente, per tesi polemica, i campi di studio tradizionali con la realtà del mondo, che è sistemica e non divisibile in campi rigidamente separati. Affermazioni graditissime agli storici, che non vedevano l’ora di strappare posizioni accademiche ai geografi, ovviamente in nome del superiore interesse degli studi, dei giovani, di un non precisato popolo e quant’altro.

Il lettore di queste modeste righe potrebbe riflettere su questa  altra “bufala” dell’ambientalismo improvvisato: questo periodico è online, quindi, secondo una moda attuale, favorisce il risparmio di carta. Quindi di legno, quindi delle mitiche foreste (l’Amazzonia?) da cui la carta sarebbe tratta ecc. Però non si calcola l’energia elettrica necessaria per far funzionare i computer, o i metalli pesanti presenti nelle le pile in caso di tablet o smartphone, e nemmeno il fatto che in realtà la stampata su carta avviene ugualmente, ma a spese del fruitore finale, quindi spesso si tratta solo di un risparmio di costi spostato sul cittadino. Le foreste, l’ambiente e simili c’entrano poco o niente. E comunque, gran parte della carta di oggi si fa con materiali di riciclo.

Per gli Atenei, ormai asfissiati dal burocratismo ministeriale a caccia di inesistenti “neutralità” di giudizio sulla valutazione di docenti sottopagati e impediti nella ricerca scientifica da mancanza di fondi e da una didattica sempre più punitiva e sostanzialmente inutile, importa  la  collocazione delle riviste nelle “fasce”, A, B, ecc. Per esempio, se un docente di alto livello per malattia o impedimento temporaneo non pubblica anche una sola recensione per 3 anni in fascia A, e magari ha prodotto 200 pubblicazioni in precedenza, viene escluso dai concorsi e da altro a vantaggio di un eventuale analfabeta disciplinare che però ha pubblicato qualcosa di recente. Una follia. Che stimola ovviamente la buona valutazione dei furbi, dei profittatori, dei raccomandati di ferro.

I media, al solito superficiali, hanno giudicato questo sistema meraviglioso all’inizio, per poi in parte ricredersi dopo anni di negative applicazioni. Ai giornalisti, almeno a molti di essi, verrebbe da chiedere se per entrare nel loro ordine professionale o per lavorare in un quotidiano vale solo il merito personale, ovviamente nella massima trasparenza, senza alcuna influenza politica , amicale, editoriale ecc. O se, come in tutti campi del mondo, ci siano influenze e situazioni varie. Ma la stampa, come la magistratura, è corporazione potente e temuta, lo dico con grande rispetto e stima per molti operatori onesti, abili e talvolta eroici, mentre l’Università, la cultura, e, nel nostro caso la cultura geografica e quella ambientale seria e scientifica, contano nulla.

 

 

 

 

 

 

Riferimenti Bibliografici

De Filippo E., Il sindaco del Rione Sanità, in Cantata dei giorni dispari, Torino, Einaudi, 1971 (ma la Commedia è del 1960), pp.123-196.

Doria G., Le strade di Napoli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971.

Infusino G., Le nuove strade di Napoli, Napoli, Gallina, 1987.

Mansfield B., Doyle M., Nature: a Conversation in Three Parts, «Annals of the American Association of Geographers», n.1, 2017, pp.22-27.

Manzi E., Capire la Calabria. Rischio ambientale: conoscenza, prevenzione, Regione Calabria, Assessorato P.I., Salerno, Infoter, 1998.

Manzi E., Paesaggi come? Geografie, geo-fiction e altro, Napoli, Loffredo, 2001.

Manzi E., Le ali della farfalla. Fondamenti di Geografia Umana sostenibile, I,  Napoli, Loffredo, 2002.

Manzi E., Viaggiare, conoscere, scoprire (Prolusione alla Società Geografica Italiana in Roma per la nomina a Socio d’Onore), «Bollettino della Società Geografica Italiana», 2012, pp. 615-631.

Manzi E., Identità italiane identità del Mezzogiorno tra miti e sottoculture, «Geografia nelle Scuole. Ambiente Società Territorio», n. 2, 2012, pp. 3-7 (I parte) e n.3, 2012, pp. 13-16 (II parte).

Westgate J., Crossing Rivers, Revisiting Trauma, and Contemplating the Geo: Thinking into the Anthropocene, «Geohumanities. Space, Place, and the Humanities», n.1, 2017, pp. 233-245.

 

 

[1] Questa ironia bonaria vuol far capire a chi legge come anche in anni passati in moltissime sedi universitarie italiane non si perseguisse la qualità, che avrebbe voluto dire anche selezione, cioè quasi una bestemmia in quei tempi di sindacalismo irresponsabile post-sessantottino.

 


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