Tra natura e artificio.
La riflessione dantesca
nel De vulgari eloquentia

di Cristina Salanitri

 

 
 
 

Alla ricerca di una via media, il dibattito medievale sui diversi modelli che spiegano l’origine della società civile si è orientato verso una rivisitazione della filosofia aristotelica laddove un approccio squisitamente antropologico aveva permesso di riconoscere alle capacità razionali umane il compito di sopperire a una natura incline all’egoismo e alla prevaricazione e aveva così spiegato filosoficamente la fondazione della società civile. La riscoperta di Aristotele, in età medievale, ha rimesso in discussione il tradizionale paradigma teologico agostiniano con cui si era guardato alle regole della civile convivenza come a un remedium peccatorum. Così, grazie alla grande diffusione delle dottrine aristoteliche nell’occidente latino – rielaborate sul finire del Duecento dai maestri della Scolastica – il cosiddetto “naturalismo” politico si è innestato nel solco della tradizione cristiana, ha subito feconde contaminazioni incontrando la cultura classica di impronta ciceroniana e ha dato vita a una nuova concezione naturalistica che ha mantenuto però fermo il principio della convenzionalità del vincolo politico.[1]

Alcuni passaggi del De Re Publica di Cicerone invitavano a riflettere sull’immutabiltà e unicità della vera legge, naturae congruens, diffusa in omnis, naturale in quanto razionalmente fondata e perciò universale.[2] Sappiamo che, a partire dall’alto medioevo, le opere ciceroniane ebbero una grande influenza nell’elaborazione delle dottrine etico-politiche, anche grazie alla larga diffusione del Somnium Scipionis commentato da Macrobio, il quale permetteva di mettere in relazione il De Re Publica di Cicerone con i vari commenti alle opere platoniche rilette alla luce delle dottrine neoplatoniche.[3] Sul piano della scienza giuridica, in epoca romana, il giureconsulto Gaio aveva già enfatizzato il legame tra ratio naturalis e ius gentium; in seguito, il parallelo tra ragione e diritto avrebbe avuto grande rilevanza anche all’interno della scolastica cristiana grazie alla sintesi tomista[4] a sua volta debitrice del giusnaturalismo isidoriano orientato a rivalutare il diritto naturale come patrimonio comune di tutte le nazioni: ius naturale ... [est] commune omnium nationum.[5] Si ponevano così le basi per lo sviluppo di una dottrina che avrebbe armonizzato gli aspetti volontaristici del diritto con il naturalismo etico-politico caro ai più antichi cultori della ragione naturale.[6]

Un continuo confronto dialettico tra “natura” e “arte” è rinvenibile anche nella riflessione dantesca. L’opposizione tra “naturale” e “artificiale” è fatta oggetto dell’attenzione di Dante nei due trattati filosofici composti nei primi anni dell’esilio: il De vulgari eloquentia[7] e il Convivio.[8] Nel primo trattato, il poeta insiste sulla maggiore nobiltà del volgare (linguaggio naturale) rispetto all’artificialità del latino (locutio secundaria) ma quest’affermazione sembra contraddetta nel Convivio. È oggi opinione diffusa tra gli studiosi[9] che la presunta contraddizione nel pensiero linguistico dantesco riveli tuttavia una coerenza interna dalla quale emergerebbe l’esistenza di una radice comune ai due idiomi. Per Dante anche il latino sarebbe assimilabile a una lingua nostra o, per meglio dire, avrebbe una sua italianità.[10] Il nostro poeta riconosce alla normatività dell’ordine naturale una razionalità che pure appartiene agli elementi artificiali della cultura, a ciò che ha carattere convenzionale ed è opera della sapienza umana, un sapere razionale che si articola nelle diverse discipline e si concretizza nei saperi pratici utili alla felicità terrena – scilicet huius vite[11] tra cui spicca, nella sfera etico-politica, il diritto come arte di bene e d’equitade.[12]

A questo punto, prima di procedere con la nostra indagine, occorre fare una breve digressione e soffermarsi sull’umanesimo cristiano di Dante, una definizione sintetica con cui si indica un pensiero filosofico-teologico che valorizza la razionalità, pur riconoscendone i limiti, e la integra con la sapienza cristiana;[13] ogni personaggio della Commedia è infatti «colto in una sua totalità e unità di corporale e spirituale».[14] Una preoccupazione filosofica preminente in Dante è stabilire quale tra le due facoltà dell’anima razionale, intelletto e volontà, sia la vera causa che indirizza le azioni umane. La  virtù che consiglia (il riferimento è al canto XVIII del Purgatorio),[15] ha fornito molte occasioni di dibattito tra gli studiosi che ancora si interrogano sul ragionamento filosofico a cui conducono i versi danteschi. Il pensiero teologico e filosofico di Dante[16] si colora di accenti “intellettualistici” quando si sofferma sulla questione morale del libero arbitrio, un tema che richiamerebbe piuttosto il tipico “volontarismo” agostiniano.[17] Dante riassume così le coeve dispute scolastiche sulla responsabilità morale dell’uomo e sulle inclinazioni naturali che determinerebbero gli atti umani, affrontando le stesse quistioni che avevano ispirato le condanne pronunciate a Parigi dal vescovo Tempier nel 1277.[18] Alla ricerca di una soluzione utile a conciliare diverse dottrine, il poeta mira a ricondurre a unità ciò che è apparentemente incompatibile; perciò insiste sulla razionalità della scelta, sulla libertà del giudizio, sullo stretto rapporto tra atti volontari e intelletto, la potenza naturale che li determinerebbe.[19] Tornando ai due trattati filosofici, questa stessa prospettiva armonizzante, favorevole ad operare una sintesi tra dottrine apparentemente antitetiche, permetterebbe di ridurre lo iato tra le due opere; da un punto di vista schiettamente politico sappiamo che Dante è un convinto assertore della convenzionalità (o artificialità) dei vincoli che legano le società umane, benché non si possa dubitare del suo aristotelismo. Si tratta quindi di indagare sul naturalismo filosofico che in Dante si accompagna all’idea di una natura creata per volontà di Dio; come nota Nicolò Mineo, lo stesso sistema mentale di Dante è «definibile come metafisico e creazionista».[20]
 

«Le teorie linguistiche di Dante nascono nella sua mente in risposta agli stessi stimoli da cui nasce l’ideazione del Convivio. E questi stimoli sono in primo luogo politici…».[21] Così Mirko Tavoni introduce un recente articolo sui due trattati danteschi. Alla luce di ciò, potremmo chiederci se l’interesse di Dante per il binomio naturale/artificiale testimoni un suo più generale impegno a esprimersi in merito al dibattito sull’origine della società umana, nel tentativo di ridurre lo iato tra aristotelismo e agostinismo politico. L’analisi storica sull’origine del linguaggio umano assume un ruolo strategico, visto che nella capacità di comunicare il pensiero l’umanità ha sempre riconosciuto lo strumento principale di socializzazione. Grazie alla parola, infatti, l’uomo rivela la sua natura razionale nonché la sua natura di animale politico.[22] La nostra ipotesi di lavoro mira a sostenere che il progetto di Dante, nel comporre i due trattati, abbia avuto sin dall’inizio finalità linguistiche e politiche insieme. Il classico paradigma di tipo naturalistico sarebbe assunto, nella riflessione dantesca, per costruire un pensiero che tenta di coniugare naturalità e artificialità, nella consapevolezza che la società civile e politica poggi le sue basi sul contrattualismo, segnata com’è da buone leggi positive (cioè dalla “ragione scritta”)[23] sulle quali esiste un consenso universale, possibile grazie alla comune natura razionale degli uomini. Sappiamo che il poeta fiorentino ebbe una formazione culturale enciclopedica, di grande respiro, perciò è stato sottolineato che le sue opere «sono di stampo sincretico e totalizzante».[24] L’aristotelismo, e dunque il naturalismo filosofico che aveva trovato in Cicerone un felice interprete, andrebbe inteso come il completamento di una formazione culturale profondamente radicata nella cultura cristiana.[25] Si tratta perciò di un aristotelismo “critico”,[26] particolarmente evidente nel Convivio dove Dante, curandosi di diffondere tra il suo pubblico l’amore per la Filosofia, rivolge la sua attenzione alla riflessione etico-politica nell’ambito della quale filosofi e teologi medievali assumevano come punto di partenza l’analisi di uno stato d’innocenza ormai tragicamente perduto, secondo la tradizione biblica, dopo la colpa di Adamo.[27]

Mosso da «naturale amore a propia loquela»,[28] Dante si confronta con due paradigmi linguistici: da una parte la lingua “naturale”, comune a popoli appartenenti allo stesso ceppo linguistico, unica e distinta dalle almeno quattordici varietà in cui essa si articola nelle diverse regioni (quare adminus xiiii vulgaribus sola videtur Ytalia variari…);[29] dall’altra una lingua “artificiale”, un insieme di regole grammaticali alla cui conoscenza si giunge nel tempo attraverso uno studio metodico (est et inde alia locutio secundaria nobis, quam Romani gramaticam vocaverunt).[30] Tuttavia, c’è da dire che la razionalità accomuna il nobile volgare al latino, e su questo intendiamo soffermarci. Il De vulgari eloquentia non è un trattato politico ma un’opera storico-linguistica. Eppure, come è già stato osservato, Dante colloca il suo trattato sul volgare sotto il segno della filosofia politica rimandando al commento alla Politica aristotelica di Tommaso d’Aquino.[31] Il nostro autore dimostra che una riflessione sull’origine del linguaggio non può prescindere da considerazioni sulla “naturalità” o “artificialità” del consorzio civile. Egli perciò ricorre alle stesse premesse che caratterizzavano il discorso politico medievale sull’origine della civitas: l’esegesi biblica, l’esame della prima natura umana nello stato edenico, la condizione postlapsaria che rende necessario un riadeguamento a una seconda natura. Come nel lessico politico dei teologi medievali – lettori di Agostino, nonché di Aristotele e Cicerone – si focalizza l’attenzione sulla perdita dell’originaria purezza e si giustifica come necessaria la costituzione di rapporti giuridico-politici finalizzati a regolamentare razionalmente la società civile,[32] anche uno studio sull’origine e sulla natura del linguaggio può avere la stessa impostazione: Dante pone come punto di partenza l’analisi filosofica di uno status naturae, ma lascia che il libro Genesi mostri la verità più alta, collocando i nostri progenitori in una dimensione edenica[33]. In tutti i suoi scritti Dante si mantiene fedele all’insegnamento biblico e segue la tradizione teologico-filosofica di impronta neoplatonica; perciò dalla loquela concreata prende le mosse per indagare sul volgare illustre, a cui appartengono quei segni – sensuali e razionali insieme – che dopo l’episodio di Babele e la confusio linguarum si sostituiscono alla primigenia lingua adamitica dando vita a un idioma razionale che pur mantiene un carattere di naturalità.[34]  Nel De vulgari Dante cita la vicenda della torre di Babele,[35] dopo la quale sarebbe nata la lingua a nostro beneplacito reparata; è il momento in cui gli uomini, puniti da Dio, si rendono conto dell’oblio della lingua originaria e danno vita a una nuova loquela variabile nel tempo e nello spazio. Secondo Giorgio Inglese si tratterebbe di una seconda nascita del linguaggio: «dopo la nascita per opera divina diretta, la nascita secondo natura».[36] Il racconto si fa quindi politico-morale: bisogna ricostruire le basi di un amicabile commercium[37] che ponga fine all’incomunicabilità e al disordine civile.[38]

Il tratto comune al Convivio e al De vulgari «è il loro razionalismo».[39] Ampiamente persuasi di ciò, ci permettiamo di aggiungere qualcosa: se è vero che per Dante la ragione è la più nobile parte dell’uomo[40] e, nello stesso tempo, il poeta esalta il volgare illustre come nobilior, sembra evidente che al nobile volgare si debba riconoscere oltre che la sua naturalità anche un’evidente (e altrettanto nobile) razionalità. Inoltre, tenendo conto del carattere etico-politico dei due trattati, interessanti spunti di riflessione deriverebbero dai riferimenti danteschi alla virtù morale e alla legge civile quali metri di paragone indispensabili quando occorre misurare la rettitudine degli atti umani; la chiara intenzione di Dante è infatti esaltare il valore regolativo che il volgare illustre assume rispetto ai molteplici municipalia vulgaria:

 

Resumentes igitur venabula nostra, dicimus quod in omni genere rerum unum esse oportet quo generis illius omnia comparentur et ponderentur, et a quo omnium aliorum mensuram accipiamus: […]. Nam, in quantum simpliciter ut homines agimus, virtutem habemus, ut generaliter illam intelligamus: nam secundum ipsam bonum et malum hominem iudicamus. In quantum ut homines cives agimus, habemus legem, secundum quam dicitur civis bonus et malus. […]. Itaque, adepti quod querebamus, dicimus illustre, cardinale, aulicum et curiale vulgare in Latio quod omnis latie civitatis est et nullius esse videtur, et quo municipalia vulgaria omnia Latinorum mensurantur et ponderantur et comparantur.[41]

 

Resumentes igitur venabula nostra, andiamo alla ricerca di quell’universalità che sembra il carattere distintivo del pensiero dantesco. Nella Monarchia, il riconoscimento dei due fini – terreno e ultraterreno –  permette a Dante di esprimere le sue idee sul diritto e sulla funzione salvifica dell’Impero universale, un’istituzione voluta da Dio al fine di ripristinare la giustizia terrena,[42] il che testimonia un volontarismo che insiste tuttavia sull’autonomia della ragione politica.[43] Nel De vulgari eloquentia la stessa universalità contraddistingue il nobile volgare, sebbene Dante ne ribadisca continuamente la variabilità. Ci inoltriamo dunque nella sfera della normatività, alla ricerca di analogie tra la riflessione storico-linguistica e la tradizione giuridica da cui Dante attinge: la scelta di Dante cade infatti sul volgare, la lingua naturale che permette agli uomini di comunicare tra loro e riuscire così a costruire su solide basi il consorzio civile,[44] nonostante la confusione linguistica che Babele aveva originato. Il volgare, però, si manifesta in forme diverse, nel tempo e nello spazio (multis varietatibus latio dissonante vulgari…).[45] Non è forse, questo, anche il caso del diritto?

Il pensiero politico di Cicerone – uno degli autori classici più amati da Dante, come mostra un recente volume di Luciano Canfora[46] – può aiutarci, perché un’idea centrale nella riflessione dell’Arpinate era il richiamo al potere persuasivo della ratio – che induce gli uomini a consociarsi – oltre che al linguaggio, strumento attraverso cui il genere umano riesce a realizzare concretamente il fine politico.[47] La retorica costituiva per Cicerone la via maestra per trasmettere valori etici e politici. L’ars oratoria ciceroniana non poteva prescindere dall’uso di concetti meta-giuridici (come vera lex, summa ratio, lex naturalis) ma di grande respiro speculativo: i dettami della ragione naturale si identificano con quelle norme universali di condotta sulle quali il genere umano fonda le regole della civile convivenza. Così, l’Arpinate presentava il diritto delle genti (ius gentium) come il risultato di una commistione di elementi “naturali” e “artificiali” costituenti il diritto naturale positivo che tutti i popoli hanno statuito. Lo ius gentium è equipollente alla legge naturale; esso non scaturisce da una scelta arbitraria di alcuni valori ai quali viene garantita una tutela giuridica, ma traduce positivamente la legge universale di natura (summa ratio). Tra i dialoghi di Cicerone, il Brutus esprimeva l’esigenza di raccontare la storia dell’eloquenza, enfatizzando il potere della ragione e le sue capacità persuasive necessarie nel momento in cui sembrava prevalere la forza bruta delle armi.[48] Ed è all’eloquenza che Dante dedica una delle sue opere minori, quando è già in esilio; sebbene l’interesse politico qui sembri marginale rispetto all’intento storico-linguistico, non possiamo escludere che il suo autore abbia desiderato seguire uno dei suoi maestri per chiarire alcuni concetti che possono genericamente essere associati alla concezione ciceroniana sull’origine della comunità civile (eius autem vinculum est ratio et oratio).[49]

Ricordiamo la perentoria affermazione contenuta nella parte iniziale del De vulgari: «Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: […] tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat».[50] Se è vero che il nobile volgare cui Dante dedica la sua particolare ricerca – distinguendolo dal latino – è il linguaggio naturale, espressione di una facoltà comune a tutte le genti, è anche vero che il poeta sottolinea gli elementi di convenzionalità e insieme di unicità che distinguono tale loquela dalle lingue della confusione babelica.[51] Umberto Eco ha chiarito che il vero interesse di Dante – nell’affrontare l’esame del volgare illustre – è sottolineare la dicotomia “varietà/unicità” linguistica, ovvero volgere lo sguardo verso la naturale facoltà del linguaggio; la razionalità umana si rivelerebbe nella disposizione naturale a comunicare attraverso segni che hanno una loro convenzionalità (ad placitum):[52]

 

Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est in quantum sonus est; rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum.[53]

 

La nostra indagine si concentra ora sul lessico giuridico del tempo e su alcune nozioni che risultavano basilari nell’ottica di un ordo iuris medievale.[54] A tal proposito, occorre ricordare quella tripartizione tra ius naturale, ius gentium e ius civile che dal Corpus Iuris Civilis si era trasmessa a glossatori e giuristi bolognesi arrivando intatta fino al XIV secolo. Riallacciandoci ad un’antica lettura della canzone Tre donne,[55] nella quale si coglierebbe un’allegoria dei tre gradi di giustizia naturale, umana e statuale, intendiamo proseguire sulla strada già tracciata, per riflettere ancora sull’idea di giustizia terrena in Dante. Nella tripartizione appena ricordata, prevalevano elementi di continuità tra i vari “diritti”. Già il De Officiis di Cicerone aveva rivelato il superamento di una visione che opponeva tra loro diritto naturale e diritto positivo: l’opera sottolineava una coincidenza tra legge di natura e ius gentium e nello stesso tempo indicava uno stretto rapporto tra ius gentium e ius civile, che l’Arpinate intendeva come un’aspirazione ideale, affinché principi razionali e valori morali caratterizzanti la natura universale del diritto dei popoli (ius gentium) trovassero piena attuazione nelle legislazioni particolari di ogni singola civitas (ius civile).[56] Come è stato giustamente osservato, il termine gens indicherebbe un’entità intermedia tra l’umanità e le singole civitates;[57] tra i principi naturali della comunità umana, che legano tutto il genere umano, Cicerone individuava la ragione e il linguaggio (eius autem vinculum est ratio et oratio).[58] Soffermandoci su alcune pagine del De vulgari eloquentia, proviamo ora a costruire un parallelo tra diritto e linguaggio, strumenti indispensabili di una ragione che si fa prassi politica: «nam eorum que sunt omnium soli homini datum est loqui, cum solum sibi necessarium fuerit».[59] Se linguaggio e diritto sono propri dell’umanità, scopriamo una prima attinenza tra ius naturale e volgare originario, il primiloquium di Adamo:

 

Redeuntes igitur ad propositum, dicimus certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreata fuisse. […]. Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis locuti sunt omnes posteri eius usque ad edificationem turris Babel, que ‘turris confusionis’ interpretatur; […].[60]

 

Il paradiso terrestre, il luogo in cui vigeva la legge naturale, prima del peccato originale,[61] avrebbe accolto anche la prima parola di Adamo, la parola che significa ‘Dio’ cioè El.[62] Un secondo linguaggio si delinea però quando occorre ricreare le condizioni per una convivenza ordinata, quando bisogna trovare un mezzo per rimettere gli uomini in comunicazione nel tempo e nello spazio. Il bisogno di una reparatio si presenta quando, nonostante la naturale tendenza degli uomini ad una certa instabilità, occorre renderli capaci di consolidare relazioni, di manifestare concetti, idee, valori comuni, dopo Babele. Il volgare illustre apparterrebbe a tale seconda natura, a nostro beneplacito reparata:

 

Cum igitur omnis nostra loquela – preter illam homini primo concreatam a Deo – sit a nostro beneplacito reparata post confusionem illam que nil aliud fuit quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimum atque variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed sicut alia que nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum temporumque distantias variari oportet.[63]

 

Nella teoria del diritto medievale lo ius gentium ricopriva il ruolo di un secondo diritto naturale, sostituitosi all’originaria legge naturale (e divina), un diritto umano fondato razionalmente. E qui si innestava l’insegnamento ciceroniano (decisamente giusnaturalista) che rivalutava la ragione come la vera natura dell’uomo.[64] Dante conclude con un chiaro riferimento all’estrema variabilità delle lingue locali, definite altrove come municipalia vulgaria;[65] la lingua degli uomini si trasforma continuamente così come variano costumi e abitudini nelle diverse città:

 

Non etenim ammiramur si extimationes hominum qui parum distant a brutis putant eandem civitatem sub invariabili semper civicasse sermone, cum sermonis variatio civitatis eiusdem non sine longissima temporum successione paulatim contingat, et hominum vita sit etiam, ipsa sua natura, brevissima.

Si ergo per eandem gentem sermo variatur, ut dictum est, successive per tempora, nec stare ullo modo potest, necesse est ut disiunctim abmotimque morantibus varie varietur, ceu varie variantur mores et habitus, qui nec natura nec consortio confirmantur, sed humanis beneplacitis localique congruitate nascuntur.[66]

 

Il riferimento alle singolarità delle diverse città ci permette di concludere con un accostamento tra ius civile e municipalia vulgaria. Tali attinenze confermano un’idea che Dante avrebbe in mente nel comporre il De vulgari eloquentia: sottolineare il nesso tra naturalità e razionalità che funzionerebbe soprattutto nell’esaltazione del volgare illustre quando intende valorizzarne la naturale propensione ad una certa variabilità; altrimenti egli rimanda all’artificialità del latino, una lingua regolata dal consenso delle genti ma invariabile nel tempo e nello spazio:

Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis: que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversibus temporibus atque locis.[67]

 

Si è detto che le dottrine giuridiche medievali coniugavano istanze naturalistiche con chiari riferimenti consensualistici, presentando la legge come ordinatio rationis;[68] lo stesso fondamento razionale può essere individuato nella teoria del linguaggio che Dante espone nel De vulgari eloquentia. Qui l’intento politico, che sembra evidente in alcuni passaggi orientati a sottolineare che la felicità terrena può realizzarsi ordinando bene – secondo ragione – tutte le operazioni umane, trova nella grazia divina la sua causa prima.[69] Grazie alle capacità razionali il genere umano ha saputo ricostruire, ad placitum, una lingua perfetta, naturale e dunque una rispetto ai molteplici dialetti locali.

Dante scopre che la bellezza dell’eloquentia come arte del dire è nella bellezza della nuova lingua italiana.[70] Il volgare illustre – nella sua nobile naturalità – assumerebbe perciò un valore regolativo, costituirebbe la giusta misura cui comparare la variabilità dei diversi linguaggi che si affermano in loco, come la seconda legge naturale in un ordo iuris.

 

[1] «The Ciceronian position is a conventionalist one in the sense that it does not maintain the natural necessity of human society, but it is simultaneously naturalistic insofar as it holds that endemic to mankind is an inclination (if not quite a compulsion) to gather together». C.J. Nederman, Nature, Sin and the Origins of Society: The Ciceronian tradition in Medieval Political Thought, «Journal of the History of Ideas», XLIX, 1988, p. 6.

[2] «La vera legge è la retta ragione, in accordo con la natura, diffusa fra tutti gli uomini, immutabile, eterna, quella che chiama al dovere con il suo comando, con il suo divieto distoglie dalla frode; ma che non ordina o vieta invano agli onesti, né comandando o vietando muove i disonesti. Non è permesso proporre modifiche a questa legge, né è lecito derogare a una qualche sua disposizione, né è possibile abrogarla interamente, né da questa possiamo essere esentati dal senato o dal popolo, e non si deve cercare come commentatore o interprete Sesto Elio, né questa legge sarà una a Roma, un’altra a Atene, una ora, un’altra in futuro, ma una sola legge terrà unite tutte le genti e in ogni tempo, e sarà uno solo guida e signore di tutti, il dio: lui di questa legge autore, arbitro, giudice; chi ad essa non ubbidirà, fuggirà se stesso e, poiché ha rifiutato la sua natura di uomo, proprio per questo sconterà le pene più gravi anche se sarà riuscito a sfuggire a tutti quelli che comunemente sono ritenuti supplizi». Cicerone, La Repubblica, III, 22, 33, trad. it. di F. Nenci, Milano, BUR, 2008, p. 473.

[3] Cfr. M. Regali, Introduzione in Macrobio, Commento al Somnium Scipionis, libro I, Pisa, Giardini Editori e Stampatori, 1983, pp. 18-29.

[4] «Et ideo hoc quidem est naturale homini secundum rationem naturalem, quae hoc dictat. Et ideo dicit Gaius iuriconsultus, quod naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes gentes custoditur, vocaturque ius gentium». «Perciò questo per l’uomo è pur sempre naturale in forza della ragione naturale che lo suggerisce. Ecco perché il Giureconsulto Gaio scriveva: “Quanto la ragione naturale ha stabilito tra tutti gli uomini, viene osservato presso tutte le genti, ed è chiamato diritto delle genti”». Thomas de Aquino, Summa Th., IIa, IIae, q. 57, a. 3, cura et studio P. Caramello, Torino, Marietti, 1962, p. 279; trad. it. La Somma Teologica, a cura di P. Tito S. Centi, Salani, Firenze 1969, p. 38. Si legga a tal proposito: D. Quaglioni, La giustizia nel Medioevo e nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 72-73.

[5] Cfr. Isidorus Hispalensis, Etymologiarum sive Originum, lib. V, iv, 1, recognovit W.M. Lindsay, tomus I libros I-X continens, Oxonii e Typographeo Clarendoniano 1966; trad. it. Etimologie o Origini, a cura di A. Valastro Canale, Utet, Torino 2004, p. 391.

[6] Cfr. A. Neschke-Hentschke, Il “Platonismo politico” e la teoria del diritto naturale. Saggio sull’archeologia dei diritti umani, in Polis e Cosmo in Platone, a cura di E. Rudolph, ed. it. a cura di E. Cattanei, Milano, Vita e Pensiero, 1997, pp. 87-111.

[7] Per le citazioni dal trattato sul volgare si rimanda a: Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, in Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante, vol. III, a cura di E. Fenzi, con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori, Salerno Editrice, Roma 2012.

[8] Per le citazioni dal trattato filosofico si rimanda a: Dante Alighieri, Convivio, in Opere, vol. II, a cura di G. Fioravanti, C. Giunta, D. Quaglioni, C. Villa, G. Albanese, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2014.

[9] Si rimanda, tra l’altro, agli studi di Mirko Tavoni, i cui recenti lavori hanno contribuito a chiarire tali aspetti, mettendo a confronto i due trattati e fornendoci gli ulteriori spunti di riflessione che animano il presente lavoro. Cfr. Id., Che cosa erano il volgare e il latino per Dante, «Letture Classensi», Dante e la lingua italiana, vol. 41, Ravenna, Longo Editore, 2013, pp. 9-27; Id., Convivio e De Vulgari Eloquentia: Dante esule, filosofo laico e teorico del volgare, «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», XVII, 2014, 1, pp. 11-54. Dello stesso autore si raccomanda inoltre la lettura dell’Introduzione in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, in Opere, vol. I, a cura di C. Giunta, G. Gorni, M. Tavoni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2011.

[10] Cfr. M. Tavoni, Che cosa erano il volgare e il latino per Dante, cit., pp. 19-21.

[11]       «L’ineffabile provvidenza ha perciò posto davanti all’uomo due fini da perseguire: la felicità di questa vita, che consiste nel realizzare la capacità della natura umana e ha la sua rappresentazione figurale nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, che consiste nel godere la vista di Dio, alla quale la capacità dell’uomo non può ascendere da sola, ma può farlo con l’aiuto della luce divina, e che si può intendere attraverso il paradiso celeste». Dante Alighieri, Monarchia, III, xvi, 7, in Le Opere (NECOD), vol. IV, a cura di P. Chiesa e A. Tabarroni, con la collaborazione di D. Ellero, Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 231-233.

[12] Cfr. Convivio IV, 9, 8. Sull’argomento, cfr. D. Quaglioni, «Arte di Bene e d’Equidate». Ancora sul senso del diritto in Dante, «Studi Danteschi», LXXVI, 2011, pp. 27-46.

[13] Cfr. N. Mineo, Per una rilettura della Divina Commedia: un messaggio «per sempre», «Le forme e la storia», Lecturae Dantis. Dante oggi e letture dell’Inferno, n.s. IX, 2016, 2, pp. 7-36.

[14] Ivi, p. 33.

[15] «Or perché a questa ogn’altra si raccoglia,/ innata v’è la virtù che consiglia,/ e de l’assenso de’ tener la soglia./ Quest’è ’l principio là onde si piglia/ ragion di meritare in voi, secondo/ che buoni e rei amori accoglie e viglia». Purgatorio XVIII, 61-66. Per il testo del poema, si segue qui quello stabilito nell’Edizione Nazionale, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1966-67; ristampa corretta, Le Lettere, Firenze 1994. Si tengono inoltre in debito conto i tre volumi della Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1991-1997.

[16] Per un approfondimento sulle fonti e sulla portata filosofica della Divina Commedia, si rinvia a A. Ghisalberti (a cura di), Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, Milano, Vita & Pensiero, 2001.

[17] Secondo Enrico Fenzi, il libero arbitrio in Dante non si fonderebbe sulla libertà della volontà, ma sulla «libertà del giudizio, … il dono divino della Ragione che si fa consilium, cioè consapevolezza e capacità deliberante». E. Fenzi, Dante e il Roman de la Rose: alcune note sulla «candida rosa» dei beati e sulla questione del libero arbitrio, «Critica del testo», XIX, 2016, 1, p. 226. Anna Maria Chiavacci Leonardi preferiva insistere sul libero arbitrio come facoltà deliberante, la virtù che consiglia «presuppone la ragione, ma non s’identifica con essa, in quanto comporta una scelta operativa che è propria della volontà …». A.M. Chiavacci Leonardi, note integrative a Purgatorio XVIII, in Commedia, vol. II, Purgatorio, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994, p. 544.

[18] P. Porro, Canto XVIII. Amore e libero arbitrio in Dante, in Lectura Dantis Romana. Cento canti per cento anni, II/2, Purgatorio. Canti XVIII-XXXIII, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Roma, Salerno Editrice, 2014, pp. 523-560.

[19] Cfr. Ivi, p. 525-526.

[20] N. Mineo, Per una rilettura della Divina Commedia: un messaggio «per sempre», cit., p. 8.

[21] M. Tavoni, Convivio e De Vulgari Eloquentia, cit., p. 13.

[22] Cfr. G. Gambale, La lingua di fuoco. Dante e la filosofia del linguaggio, Roma, Città Nuova, 2012, pp. 163-165.

[23] «E con ciò sia cosa che in tutte queste volontarie operazioni sia equitade  alcuna da conservare e iniquitade da fuggire (la quale equitade per due cagioni si può perdere, o per non sapere quale essa si sia o per non volere quella seguitare), trovata fu la ragione scritta e per mostrarla e per comandarla. Onde, dice Augustino: Se questa – cioè equitade – li uomini la conoscessero, e conosciuta servassero, la ragione scritta non sarebbe mestiere; e però è scritto nel principio del Vecchio Digesto: “la ragione scritta è arte di bene e d’equitade”. A questa scrivere, mostrare e comandare, è questo ufficiale posto di cui si parla, cioè lo Imperadore, al quale tanto quanto le nostre operazioni propie che dette sono, si stendono, siamo subietti; e più oltre no». Convivio, IV, ix, 8-9.

[24] Z.G. Baranski, Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri, Napoli, Liguori Editore, 2000, p. 12.

[25] Baranski rimanda a sua volta ai lavori di studiosi come Bruno Nardi, Cesare Vasoli, Maria Corti che hanno saputo individuare i “punti cardinali” della formazione intellettuale di Dante, insistendo sugli aspetti sincretici e armonizzanti,  senza limitarsi al suo “aristotelismo”. Cfr. Z.G. Baranski, Dante e i segni, cit., pp. 21-27. L’attenzione dei dantisti è stata spesso rivolta a indagare sui diversi filoni dottrinali presenti nell’opera dantesca. Cfr. S. Cristaldi, Dante di fronte al gioachimismo, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2002, pp. 13-48.

[26] Cfr. C. Martello, Aristotele in Dante, in «Le forme e la storia», Lecturae Dantis. Dante oggi e letture dell’Inferno, cit., pp. 76-78.

[27] «Già a partire dal Convivio, invece, Dante ha riportato interamente le istituzioni politiche alla situazione determinatasi all’indomani della colpa d’origine, avvertendo un loro dislivello rispetto alla socialità primigenia. Anche dove l’aristotelismo è da lui effettivamente ascoltato e seguito, lo è dunque solo fino a un certo segno; […]». S. Cristaldi, Dante di fronte al Gioachimismo, cit., p. 127.

[28] Convivio, I, v, 2.

[29] «Ecco dunque che l’Italia da sola conosce almeno quattordici varietà della sua parlata, le quali a loro volta si differenziano al loro interno, come per esempio, in Toscana, i Senesi e gli Aretini, e in Lombardia i Ferraresi e i Piacentini, e addirittura cogliamo qualche variazione all’interno di una stessa città, come ho anticipato nel capitolo immediatamente precedente». De vulgari eloquentia, I, x, 7, p. 75.

[30]       «Noi abbiamo poi un’altra lingua, che si apprende in un secondo tempo, che i Romani chiamarono ‘grammatica’». De vulgari eloquentia, I, i, 3, p. 11.

[31]       «Dunque illuminare il discorso umano è di capitale importanza per illuminare i principi della convivenza civile, […]». M. Tavoni, Introduzione in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, cit., p. 1068.

[32] Un esempio classico ci è offerto nel Tractatus de potestate regia et papali del domenicano Giovanni Quidort di Parigi, opera scritta nei primi anni del Trecento. Cfr. C.J. Nederman, Nature, sin and the origins of society: the ciceronian tradition in medieval political thought, cit., pp. 15-17. La traduzione italiana del Tractatus si trova in: Giovanni Quidort di Parigi, Egidio Romano, Il potere del re e il potere del papa. Due trattati medievali, a cura di G. Briguglia, Genova-Milano, Marietti, 2009.

[33]       Cfr. G. Inglese, Introduzione in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, Milano, BUR, 1998, pp. 5-9.

[34] Cfr. U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Editori Laterza, Bari 1993, pp. 13-59.

[35] Cfr. De vulgari eloquentia, I, vii, 1-7.

[36] G. Inglese, Introduzione, cit., p. 9.

[37] Cfr. De vulgari eloquentia, I, ii, 5, p. 18.

[38] Cfr. G. Gambale, La lingua di fuoco, cit., pp. 166-172.

[39] Cfr. M. Tavoni, Convivio e De vulgari eloquentia, cit., p. 16.

[40] Cfr. Ivi, p. 26.

[41] «Riprendendo dunque la nostra caccia, dico che in ogni genere di cose deve essercene una a partire dalla quale si riescono a confrontare e valutare tutte le altre che appartengono a quel genere, e dalla quale si ricavi una comune unità di misura: […]. Così, in quanto operiamo essenzialmente come uomini, abbiamo la virtù (intendendola in senso generale), secondo la quale giudichiamo un uomo buono o cattivo; in quanto operiamo come cittadini abbiamo la legge, secondo la quale un cittadino viene definito buono o cattivo; […]. Abbiamo ottenuto quello che cercavamo: possiamo definire illustre, cardinale, aulico, e curiale quel volgare italiano che appartiene ad ogni città d’Italia senza che in nessuna di esse lo si ritrovi, e sulla base del quale tutti i volgari municipali degli Italiani sono misurabili, valutabili e confrontabili.» De vulgari eloquentia, I, xvi, 2-6, pp. 115-121.

[42] Cfr. S. Ferrara, Dante, Cino, il Sole e la Luna, «L’Alighieri», xxv, 2005, pp. 27-47.

[43] Cfr. N. Mineo, Mondo classico e città terrena in Dante, in Dante: un sogno di armonia terrena, vol. I, Torino, Tirrenia Stampatori, 2005, p. 58.

[44] Cfr. C. Di Fonzo, Dante e la tradizione giuridica, Roma, Carocci, 2016, pp. 16-17.

[45] «[…] il volgare italiano è talmente frammentato nelle sue tanto numerose varietà, […]». De vulgari eloquentia, I, xi, 1, pp. 76-77.

[46] Cfr. L. Canfora, Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, Roma, Salerno Editrice, 2015.

[47] «In De inventione, one of the earliest of his treatises to survive, Cicero postulates men in a primordial condition where they lead a scattered, brutish existence devoid of rationality, religion, family and law. But these primitive men also harbor the powers of reason and speech which give them a natural impulse towards sociability». C.J. Nederman, Nature, sin and the origins of society: the ciceronian tradition in medieval political thought, cit., p. 7.

[48] «… negli ultimi decenni, la crisi della repubblica e il ruolo sempre più determinante dei potentati militari avevano progressivamente relegato in secondo piano la parola come strumento di persuasione e di mediazione politica». E. Narducci, Cicerone. La parola e la politica, Bari, Editori Laterza, 2009, p. 367.

[49] «Ma bisogna rifarsi più da lontano per esaminare quali sono i principii naturali della comunità umana. Il primo è quello che appare nella stessa universale famiglia degli uomini collegati dalla ragione e dal linguaggio, che con l’insegnare avvicinano fra loro gli uomini tutti riunendoli in un’associazione naturale». Cicerone, I Doveri, I, 50, introduzione e note di E. Narducci, trad. it. di A. Resta Barrile, Milano, BUR, 2007, p. 121.

[50] «Di queste due lingue la volgare è la più nobile: […] perché è la nostra lingua naturale, mentre l’altra ha un’origine artificiale». De vulgari eloquentia, I, i, 4, pp. 12-15.

[51] «Siccome tutto il De vulgari eloquentia insiste sulla varietà delle lingue, come conciliare l’idea che le lingue sono molte col fatto che il volgare (lingua naturale) è comune a tutto il genere umano?» U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, cit., p. 43.

[52] Cfr. Ivi, pp. 44-45.

[53]       «Ora, questo segno è precisamente il nobile oggetto del nostro discorso: fenomeno sensibile in quanto suono; fenomeno razionale in quanto arbitrariamente inteso a significare qualcosa.» De vulgari eloquentia, I, iii, 3, pp. 25.

[54] Cfr. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Bari, Editori Laterza, 1995.

[55] Cfr. U. Carpi, L’Inferno dei guelfi e i principi del Purgatorio, Milano, Franco Angeli, 2013, p. 18.

[56] Cfr. G. Falcone, Il rapporto tra ius gentiumius civile e la societas vitae in Cic., off. 3.69-70, «Annali del seminario giuridico dell’Università di Palermo», LVI, 2013, p. 263.

[57] Ivi, p. 264.

[58] Cfr. nota n. 43.

[59] «[…]: fra tutte le creature solo all’uomo, infatti, è stato concesso di parlare, perché solo a lui era necessario.» De vulgari eloquentia, I, ii, 1, pp. 14-15.

[60] «Tornando dunque all’argomento, dico che insieme alla prima anima Dio creò una ben definita forma di linguaggio. […]. Adamo parlò secondo questa forma di linguaggio, e in essa parlarono tutti i suoi posteri sino alla costruzione della torre di Babele (interpretata come ‘torre della confusione’).» De vulgari eloquentia, I, vi, 4-5, pp. 41-43.

[61] Sull’argomento si rimanda al recente volume di G. Briguglia, Stato d’innocenza. Adamo, Eva e la filosofia politica medievale, Carocci, Roma 2017.

[62] Cfr. De vulgari eloquentia, I, iv, 4, p. 28.

[63] «Dal momento che ogni nostro linguaggio (eccetto quello concreato da Dio insieme al primo uomo) è stato ricostruito secondo il nostro arbitrio dopo quella confusione che altro non è stata che dimenticanza della lingua precedente, e poiché l’uomo è una creatura estremamente instabile e variabile, quel linguaggio, dico, non può essere né duraturo né continuo, ma come tutte le altre cose nostre, per esempio le abitudini e i modi di vestire, necessariamente muta con la distanza nel tempo e nello spazio». De vulgari eloquentia, I, ix, 6, p. 63.

[64] Cfr. G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. I, Roma-Bari, Editori Laterza, 2007, p. 105.

[65] Cfr. De vulgari eloquentia, I, xvi, 2-6, pp. 115-121 (vedi nota n. 41).

[66] «Non stupiamoci dunque se il giudizio di uomini che poco differiscono dalle bestie li porta a credere che una medesima città abbia sempre condotto la sua vita civile attraverso una lingua invariabile, dal momento che la trasformazione della lingua vi avviene poco a poco, in un decorso temporale lunghissimo, mentre la vita degli uomini è invece, per sua natura, brevissima. Se dunque la lingua parlata dalla stessa gente varia attraverso il tempo, come s’è detto, e in nessun modo può rimanere uguale a se stessa, necessariamente ne deriva che quella di chi vive separato e lontano si trasformi nei modi più vari, così come varie sono le trasformazioni di costumi e abitudini che non sono fissati né per natura né per mutua obbligazione, ma si sviluppano secondo le libere scelte degli uomini e le singolarità dei luoghi...». De vulgari eloquentia, I, ix, 9-10, pp. 64-65.

[67] «Gli inventori della grammatica sono partiti proprio da qui: la grammatica, infatti, non è altro che un’inalterabile identità di linguaggio attraverso luoghi e tempi diversi». De vulgari eloquentia, I, ix, 11, pp. 65-67.

[68] Cfr. G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, cit., pp. 214-217.

[69] «Dobbiamo infatti sapere che è d’origine divina la gioia che ci procura la realizzazione delle nostre facoltà, quando sia ordinata al giusto fine». De vulgari eloquentia, I, v, 2, p. 35.

[70] Cfr. G. Patota, La grande bellezza dell’italiano. Dante, Petrarca, Boccaccio, Bari, Editori Laterza, 2015, pp. 7-35.


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