Ragionando di human agency e Antropocene con Giuseppe Galasso

di Marco Armiero

Direttore dell’Environmental Humanties Laboratory di Stoccolma

 

 

Sono molto grato a Salvatore Adorno e alla rivista “Siculorum Gymnasium” per l’opportunità di riflettere su questo testo di Giuseppe Galasso e, più in generale, sulla storiografia italiana dell’ambiente.
Forse è opportuno iniziare con una ammissione di colpa:  non conoscevo questo saggio, sebbene mi occupi di storia dell’ambiente almeno dai primi anni Novanta. È possibile che si tratti solo della mia ignoranza, ma forse c’è qualcosa di più. Credo, infatti, che la questione attenga al rapporto tra innovazione e tradizione storiografica nella storia dell’ambiente e al complicato equilibrio tra riconoscerne le radici in consolidate piste di ricerca senza rinunciare a rivendicare l’originalità coltivata dalla nuova disciplina.[1] Come è noto, la storia ambientale italiana, e non solo italiana, è nata sulle radici di altre tradizioni storiografiche, anzitutto la storia dell’agricoltura e quella economica, che nella migliore tradizione intellettuale spaziavano al di là di una visione disciplinare asfittica. Il volume di Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario, pubblicato nel 1962, rappresenta uno dei migliori esempi di questa storiografia agraria aperta, in grado di guardare non solo alle tecniche o alle colture ma all’insieme di natura e cultura così come si è solidificato nelle forme del paesaggio.

E proprio il paesaggio è uno dei concetti chiave sui quali si sofferma Giuseppe Galasso in questo saggio. Riprendendo le riflessioni del geografo Eugenio Turri, Galasso utilizza la nozione di paesaggio all’interno del suo ragionamento più vasto sull’agenzia umana dentro la natura. È evidente che parlare di paesaggio implica riconoscere come ogni ambiente sia sempre un ibrido di natura e cultura, perché come scrive Galasso “ogni paesaggio è definito nella sua struttura percepibile dalle caratteristiche naturali e storiche dell’ambiente” (276). Galasso è profondamente interessato alla questione dell’agenzia umana sulla natura. A me pare che una larga parte di questo saggio sia dedicato a questo problema. Lo storico napoletano si interrogava sulla capacità degli umani di avere un effetto sulla natura, insistendo a più riprese sulla assoluta sproporzione di forze tra la modesta potenza trasformatrice umana e la incalcolabile forza della natura: “la potenza dell’uomo è assai esigua, addirittura trascurabile, rispetto a quella della natura” (270). Accanto ad un mero discorso di potenza – la forza umana comparata a quella geologica, ad esempio –, Galasso proponeva anche una riflessione sulla pluralità degli attori non umani che agiscono sulla natura, modificandola anche radicalmente, sebbene su tempi spesso molto diversi da quelli della nostra specie. Da questo punto di vista Galasso sembra anticipare un dibattito costitutivo della storia ambientale, ovvero la questione di fondo della agenzia della natura rispetto al tradizionale focus storiografico sull’agenzia degli umani.[2] Per la verità, sebbene riconosca la capacità di azione sull’ambiente da parte di attori non umani, Galasso non mi pare direttamente interessato al tema della agency, ovvero della intenzionalità dell’intervento non umano sull’ambiente. Probabilmente, anche solo avventurarsi su quel terreno sarebbe troppo lontano dalla sua sensibilità.
Se per alcuni aspetti la lezione di Galasso sembra vicina ad alcune riflessioni recenti sul post umano che richiamano la non unicità dell’azione umana sulla natura,[3] soprattutto nella seconda parte del saggio è chiara l’impostazione antropocentrica del suo approccio. Gli umani non sono gli unici a plasmare la natura, e forse non sono neppure così potenti come amano rappresentarsi, ma certo storia e etica ruotano intorno ad essi. Galasso liquida piuttosto – forse troppo – drasticamente qualunque ipotesi di etica ecocentrica che vada al di là dell’umano. Leggendo questo saggio mi chiedo quale sarebbe stata la reazione di Galasso all’animal turn che da qualche anno sta interessando non solo la storia dell’ambiente ma più in generale quella galassia di discipline indicata con il nome di environmental humanities.[4]

Nella dialettica tra influenza umana sull’ambiente e autonomia della natura, mi pare che Galasso scelga una mediazione: gli umani hanno acquisito la capacità di plasmare la natura ben al di là della loro forza biologica, tuttavia, questo non implica la nascita di una specie onnipotente in grado di controllare completamente l’ambiente. Ad esempio, persino nel caso di un olocausto nucleare, forse il più radicale dei possibili interventi della nostra specie sul pianeta, Galasso contempla la possibilità che con i suoi tempi la natura possa poi trovare forme e modi di una rinascita. Galasso anticipa, dunque, il dibattito sulla wilderness, la natura incontaminata, che da lì a qualche anno avrebbe profondamente scosso la storia ambientale statunitense.[5] Su questo fronte Galasso non è solo. Credo che la maggioranza degli storici e delle storiche ambientali europee siano sempre stati a disagio con l’idea di una natura “vergine”, optando, invece, per riconoscere il carattere ibrido degli ambienti dove natura e cultura si intrecciano nelle forme del paesaggio. È chiaro che un continente affollato di storia e insediamenti come quello europeo - e forse l’Italia ancora di più che altri paesi - male si prestava alla dicotomia nord-americana tra wilderness ed ecosistemi addomesticati. Come è noto, l’accesso dibattito d’oltreoceano non era solo teorico - cosa sia la natura e quanta cultura contenga - ma anche pratico e politico, dal momento che mettere in discussione l’esistenza della wilderness poteva implicare mettere in discussione l’infrastruttura teorica che sosteneva il conservazionismo americano e il suo sistema di parchi nazionali, dedicati precisamente alla protezione della “natura incontaminata”. Sappiamo, invece, che Galasso, come tanta parte del nostro ambientalismo, farà una scelta diversa, mettendo al centro il valore dei paesaggi storici e culturali, senza mai pensare che ciò che valga la pena conservare sia solo qualche lembo di natura incontaminata (e tralascio qui la discussione sulla possibilità che questa natura incontaminata esista).

L’altro aspetto sul quale questo saggio sembra precorrere dibattiti a venire è la portata degli effetti dell’azione umana su scala planetaria. Nel 1989, quando questo saggio fu pubblicato, nessuno parlava ancora di Antropocene, ovvero della possibilità che la specie umana fosse diventata una forza geologica in grado di avere effetti su scala planetaria. Oggi, invece, la storia ambientale e forse ancora di più le environmental humanities sono fortemente assorbite dal dibattito sull’Antropocene. La quantità di pubblicazioni ed eventi dedicati all’Antropocene è impressionante, anche se forse il tema è meno presente nel dibattito scientifico e pubblico italiano. D’altronde se l’Antropocene è l’era del cambiamento climatico, non è particolarmente strano che non sia una priorità nel dibattito pubblico italiano, estremamente riluttante ad affrontare la questione. Un punto importante sul quale il saggio di Galasso entra in relazione col dibattito contemporaneo sull’Antropocene attiene alla portata dell’azione umana sulla natura. Qui Galasso si muove sulla lama del rasoio, dal momento che la sua insistenza sulla necessità di relativizzare la effettiva potenza dell’intervento umano potrebbe facilmente, nel dibattito odierno, tradursi in uno scetticismo sulla natura antropica di cambiamenti ambientali planetari, primo fra tutti il cambiamento climatico. Non è difficile immaginare qualche “merchant of doubts”, per usare la bella espressione di Naomi Oreskes e Erik Conway,[6] utilizzare gli argomenti di Galasso per sostenere che in fondo la possibilità per la specie umana di influenzare la natura su scala così vasta sia minima e comunque da considerare in relazione alla enorme sproporzione delle forze in campo: esseri umani e forze planetarie e persino extra-planetarie (Galasso cita, ad esempio, l’estinzione dei dinosauri, probabilmente causata dall’impatto sulla Terra di un meteorite). Personalmente, preferisco pensare che il discorso di Galasso possa servire piuttosto a contrastare i toni trionfalistici di una certa narrativa dell’Antropocene che rivendica con orgoglio la capacità umana di controllare il pianeta. Faccio riferimento qui al cosiddetto Ecomodernist Manifesto[7] e alla retorica del “Good Anthopocene”,[8] secondo la quale gli umani dovrebbero accettare la sfida e assumere il ruolo di supremi ingegneri – qualcuno dice di “god species” [9] – del pianeta Terra. Galasso, invece, mi pare soprattutto ribadire un principio di umiltà che non nega la capacità degli umani di modificare gli ecosistemi ma ne relativizza le capacità di controllo. Insomma, più che god species in grado di far funzionare il pianeta a loro piacimento, questi umani sembrano un po’ artigiani, che cercano di costruire e riparare con i mezzi e le risorse che hanno e controllano, e un po’ giocatori d’azzardo, che scommettono e bluffano a un gioco di cui non sembrano conoscere fino in fondo le regole.

Leggendo questo saggio di Galasso da un altrove temporale e geografico - vivo e lavoro all’estero da oltre un decennio - c’è una cosa che colpisce e che so mi forzerà ad inoltrarmi su un campo controverso. Galasso usa il maschile “uomo” e “uomini” per indicare la specie umana. Credo sia una prassi grammaticale molto comune, forse universale, nella lingua italiana; ancora di più, probabilmente, a fine anni Ottanta, quando il saggio fu pubblicato. Non è mia intenzione criticare Galasso per una mancanza di  “politically correctness” e non solo per un rischio di anacronismo. Non credo che la grammatica salverà il mondo dal patriarcato - o per quello che vale dal razzismo. Tuttavia, credo che le forme del linguaggio possano rivelare questioni più profonde. Dal mio osservatorio devo dire che la completa sottovalutazione della parità di genere nell’accademia italiana è piuttosto impressionante; oggi, e non alla fine degli anni Ottanta, sembra non ci sia nulla di strano a tenere una conferenza, presentare un libro o produrre una pubblicazione con solo, o quasi, studiosi maschi. Dunque al di là della grammatica mi chiedo se questo uso del maschile significhi qualcosa al di là della forma. La domanda, dunque, è se e, eventualmente in che modo, il discorso di Galasso potrebbe essere stato diverso nel caso avesse incluso nel suo ragionamento la variabile di genere. La questione non è tutta grammaticale o di bon ton accademico anglosassone. Piuttosto sarei curioso di discutere se storicamente donne e uomini hanno esercitato sull’ambiente lo stesso tipo di agenzia. Ritornando al discorso sull’Antropocene, molte studiose femministe stanno lavorando sul nesso tra patriarcato, capitalismo e crisi ecologica. Mentre la narrativa dell’Antropocene sembra annullare ogni differenza di classe, genere o razza - il progetto universalistico della storia della specie di Chakrabarty,[10] – si è sviluppata una narrativa controegemonica, che al contrario mette al centro quelle diseguaglianze e/o differenze, preferendo parlare di Capitalocene,[11] Plantationocene,[12] Manthropocene,[13] o Wasteocene.[14] Ora, al di là dell’uso del maschile per la specie umana, mi chiedo se non sia questa una questione aperta nel contributo di Galasso; ma, forse, la vera questione non è quanto lo storico napoletano sia stato poco attento a considerare questa e altre diversità, ma quanto lo abbia fatto o lo faccia la storia ambientale. Ancora oggi.

 

 

 

 

 

 

[1]  M. Armiero, Environmental History between Institutionalization and Revolution: A Short Commentary with Two Sites and One Experiment, in S. Iovino and S.Opperman (eds.), Environmental Humanities. Voices from the Anthropocene,  Rowman & Littlefield International, 2016, pp. 45-59.

[2] Si tratta di un tema troppo vasto per il quale è praticamente impossibile fornire riferimenti esaustivi. Rimando dunque ad un solo testo che ho sempre pensato fosse basilare per questa riflessione: L. Nash, The Agency of Nature or the Nature of Agency?, «Environmental History», vol. 10, n. 1, 2005, pp. 67-69.

[3] Anche in questo caso posso solo fornire qualche riferimento senza pretese di esaustività: R. Braidotti, Post Human Humanities, «European Educational Research Journal», vol. 12, n. 1, 2013, pp. 1-19; A. Neimanis, C. Åsberg, J. Hedrén, Four Problems, Four Directions for Environmental Humanities: Toward Critical Posthumanities for the Anthropocene, «Ethics & the Environment», vol. 20, n. 1, 2015, pp. 67-97.

[4] Sull’animal turn, soprattutto nella storia ambientale si veda H. Ritvo, On the animal turn, «Daedalus», vol. 136, n. 4, 2007, pp.118-122.

[5] Qui faccio riferimento al noto saggio di W. Cronon, The Trouble with Wilderness; or, Getting Back to the Wrong Nature, in W. Cronon (ed.), Uncommon Ground: Rethinking the Human Place in Nature, New York, W. W. Norton & Co., 1995, pp. 69-90 ed al dibattito che ne è scaturito.

[6] N. Oreskes, E. M. Conway, Merchants of Doubt. How a Handful of Scientists Obscured the Truth on Issues from Tobacco Smoke to Global Warming, Londra, Bloomsbury, 2010.

[7] Una versione italiana di questo testo è disponibile all’indirizzo web <http://www.ecomodernism.org/italiano/>.

[8] Una rassegna sulle diverse interpretazioni dell’Antropocene è in S. Dalby, Framing the Anthropocene: The good, the bad and the ugly, «The Anthropocene Review», vol. 3, n. 1, 2016, pp. 33-51.

[9] È piuttosto famosa la frase di Stewart Brand: «We are as gods, so we may as well get good at it» in C. Hamilton, The Theodicy of the “Good Anthropocene”, «Environmental Humanities», vol. 7, n. 1, 2016, pp. 233-238.

[10] D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, «Critical Inquiry», vol. 35, n. 2, 2009, pp. 197-222.

[11] J. Moore (ed.), Anthropocene or Capitalocene?: Nature, History, and the Crisis of Capitalism, Oakland, PM, 2016.

[12] D. Haraway, Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin, «Environmental Humanities», vol. 6, 2015, pp. 159-165.

[13] K. Raworth, Must the Anthropocene be a Manthropocene?, «The Guardian», 20 October 2014.

[14] M. Armiero, M. De Angelis, Anthropocene: victims, narrators, and revolutionaries, «South Atlantic Quarterly», vol. 116, n. 2, 2017, pp. 345-361.


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HUMAN AGENCY , ANTROPOCENE , GALASSO , PAESAGGIO , STORIA AMBIENTALE


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Storia

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