Tra riflessione teorica e impegno parlamentare.
La “responsabilità operativa” dell’Uomo nella legge Galasso

di Melania Nucifora

 

 

C’è da credere a chi, reduce da confronti e da battaglie comuni, descrive un Galasso degli ultimi tempi “addolorato” per la sua legge sul paesaggio “tradita” dalla politica e dalle istituzioni regionali.[1] Infatti tra l’intellettuale che scriveva nel 1989 ancora fresco della fatica legislativa, e quello che, a quasi trent’anni dall’approvazione della storica legge n. 431/85 che porta il suo nome, ritornava sul tema della responsabilità ineludibile dell’uomo nel suo rapporto con l’ambiente,[2] c’è un tenace filo rosso che tiene unita la riflessione dello storico al suo impegno parlamentare e civile. Un filo che ci aiuta a percorrere la distanza fra la fine degli anni Ottanta e l’oggi, con le sue accresciute contraddizioni, e che Galasso porge al suo lettore quasi in incipit al testo di «Prospettive settanta», in un passaggio dal sapore programmatico e latamente “politico”:

 

Il limite oltre il quale l’ideale si tramuta in utopia e lo sforzo di superamento si converte in un’astratta e velleitaria separazione dalla realtà delle cose è una linea assai ardua a mantenersi nel pensiero e nei moti dell’animo che si rivolgono a questa materia; ma è una linea irrinunciabile ed indispensabile. Al di là di essa c’è un irrealismo, che può essere idealistico e generoso, ma non ha prospettive né dal punto di vista teorico, né dal punto di vista operativo. Al di qua c’è una spinta teoretica e operativa che può, invece, essere – e di fatto nella storia dell’uomo ricorrentemente è stata – concretamente creativa, promuovendo istituzioni, mentalità, comportamenti, realizzazioni di grande rilievo (p. 264).

 

La spinta operativa cui Galasso fa riferimento a più riprese in questo intervento e in molti altri, è l’opportuno antidoto alla resa nei confronti delle due opposte mitologie di Eden e di Atlantide, a cui in definitiva sono riconducibili le rappresentazioni ideologiche della Natura “madre” o viceversa “matrigna”. Idealizzazione estrema della natura, da un lato, e antitetica esaltazione del dominio dell’uomo su di essa, dall’altro, finiscono per costituire nel suo pensiero due facce della stessa medaglia.

Un’ulteriore importante affermazione di principio chiarisce il nocciolo del rapporto uomo-natura: non esiste una natura “vergine” o “autentica”, come polo opposto della civiltà. Il mutamento è il tratto distintivo della natura stessa e l’intera storia dell’ambiente “può essere ricostruita come una successione ininterrotta di ecologie diverse” rispetto alla quale l’uomo è agente di trasformazione con un ruolo ambivalente. «L’intervento umano nell’ambiente» infatti, tiene a sottolineare Galasso, «appare spesso, nel suo aspetto costruttivo, come un intervento di potenziamento e di salvaguardia di molte forme di vita» (p. 269).

In questa interpretazione del ruolo della specie umana vi è un’assonanza con l’orientamento del coevo Rapporto Bruntland (WCED, Our common future, 1987). Frutto del lavoro della commissione ONU su ambiente e sviluppo istituita nel 1983, e premessa della Dichiarazione di Rio del 2001, il rapporto, con l’idea di sviluppo sostenibile, propose un approccio operativo alla questione ambientale che riconoscesse la responsabilità attiva dell’uomo contemporaneo non solo – come è sempre sottolineato – nei confronti delle generazioni future, ma anche – aspetto meno citato – verso le altre specie viventi. La nozione stabiliva una distanza dalle più radicali critiche all’idea stessa di sviluppo che avevano caratterizzato, negli anni Settanta, il risveglio di una coscienza ecologica.[3]

Tuttavia il quadro dei riferimenti a cui Galasso si appella definisce una peculiare matrice del suo pensiero: da Cattaneo e Turri, citati nell’articolo dell’’89, a Febvre, Sereni, Caracciolo, menzionati in quello del 2013, Galasso sembra far riferimento a una tradizione storiografica nazionale ed europea che valorizza il concetto di paesaggio come manifestazione della sintesi inscindibile fra storia e natura, a partire dalla constatazione che «la struttura storica dell’incivilimento è una struttura altrettanto obbligante, per l’uomo, di quella naturale» (p. 270). Materializzandosi nei paesaggi storici tale struttura diviene essa stessa valore culturale, in un legame profondo tra ambiente e patrimonio culturale, al cui centro è il nodo del paesaggio come storia e natura insieme.

Se la Storia come disciplina ha troppo a lungo rappresentato l’evoluzione umana come “progresso”, e il progresso come dominio dell’uomo sulla natura attraverso la tecnica, “un Novecento terribile”, minando antropocentrismo ed eurocentrismo, ha scardinato ogni certezza e costretto l’uomo contemporaneo ad abbandonare ogni ottimismo positivista, senza peraltro sollevarlo in alcun modo – questo sembra ribadire a ogni passo lo storico – dalla responsabilità dell’azione. Ed è ancora una volta quest’idea di “responsabilità operativa” a chiarire il senso del riferimento al paesaggio, alla sua complessità che travalica la dimensione della mera rappresentazione, riferimento chiarito da Galasso in alcuni felici passaggi a partire dalla lezione di Eugenio Turri:

 

Il paesaggio, inteso come risultato comprensivo di tutta l’attività sensoriale dell’uomo, acquista un valore operativo fondamentale sul piano dei rapporti uomo-natura ed ha quindi un significato ben diverso da quanto lascia sottintendere la semplice visualizzazione (p. 274).

 

In nome di questa “valenza operativa” la nozione di paesaggio è sottratta alla speculazione filosofica che pure tanto contribuisce ad arricchirla, per diventare il perno di un approccio concreto, mirato a regolare il rapporto dinamico fra comunità e ambiente.

È intorno a questo nucleo che il testo teorico si fa implicitamente commento al testo legislativo, la “scommessa operativa” del parlamentare repubblicano Giuseppe Galasso. Alla metà del decennio il provvedimento che porta il suo nome aveva infatti tradotto in norma un passaggio concettuale innovativo e fondamentale: l’urgenza di mettere al centro della tutela non più – o meglio, non solo – lo strumento del vincolo ma lo strumento del piano su area vasta, uno strumento in grado di misurarsi con la dimensione della trasformazione e del processo e di incorporare nella lettura dell’ambiente la componente storico-sociale connaturata all’agire umano, imprescindibile. Così facendo, Galasso si discostava consapevolmente dalla tradizione nazionale della tutela, imperniata sulla “benemerita legge Bottai del 1939”. Pur considerando la legge 1497/39 «uno dei testi di legge migliori e più duraturi e memorabili nella storia dell’Italia unita»,[4] Galasso ne proponeva insieme un completamento e un’estensione. La legge Galasso, infatti, superava definitivamente l’impostazione estetizzante della legge Bottai, accordando al paesaggio non più soltanto una “fisionomia” ma anche – passaggio fondamentale – una «struttura materiale, orografica, idrografica, marina, rivierasca, urbanizzata, non urbanizzata, del plat pays, degli insediamenti accentrati o sparsi e delle loro disposizioni topografiche, le reti visibili delle comunicazioni stradali e di altro tipo, insomma il tessuto concreto e complesso della più corposa materialità del territorio».[5] Il piano paesaggistico introdotto come obbligo dalla legge Galasso, pur conservando in apparenza il nome di uno strumento già presente nella legge Bottai, veniva così ad assumere un significato del tutto nuovo che non a caso lo rendeva affine ai piani territoriali urbanistici. La sua potenziale estensione veniva a coincidere con l’intero territorio nazionale, seguendo il mosaico delle Regioni alle quali ne era affidata la redazione.

L’obiettivo prioritario della legge, a detta del suo stesso promotore, fu quello di contrastare efficacemente la duplice “insularità del paesaggio”:[6] un’insularità concettuale, l’alterità “ontologica” rispetto al suo intorno che poteva contemplare la trasformazione, e un’insularità fisica di enclave, di spazio concluso attorniato da elementi “altri”.

Nel prevalere dell’accezione relazionale e olistica del concetto di paesaggio, la legge del 1985 realizzava un concreto avvicinamento ai (e dei) concetti di ambiente e territorio: il paesaggio diveniva il connettore tra i due come spazio di mediazione e interazione tra uomo e natura, tra valori storico culturali ed ecologici. Galasso traduceva così in norma la convinzione che

non si può neppure troppo distinguere tra paesaggio nella cultura e paesaggio nella natura [corsivo nostro] o tra paesaggio e ambiente. La loro complementarietà è assoluta (p. 276).

E ancora:

«Espressione di una cultura, strumento e langue in cui tale cultura si esprime» il paesaggio esiste «per tutti gli esseri viventi, in quanto ambiente rivelato» (p. 275) e nel caso della specie umana esso è anche «testimone dell’uomo, del suo vivere e operare» (p. 276).

Sottolineature, queste, tutt’altro che scontate all’epoca della stesura del saggio, che anzi portavano con sé implicazioni importanti in controtendenza con gli approcci dominanti e il loro portato istituzionale. Alla fine degli anni Ottanta, infatti, la nozione chiave di paesaggio stentava ancora ad affermarsi pienamente nella disciplina ecologica proprio per la sua intensa connotazione antropica, o più propriamente “umanistica” nella valenza di «mediazione vitale tra uomo e ambiente» (p. 275). Inoltre l’estraneità operativa fra paesaggio e ambiente era stata sancita in Italia dall’istituzione del Ministero dell’Ambiente, avvenuta nel 1987 appena un anno dopo l’emanazione della legge Galasso che attribuiva invece la responsabilità sul paesaggio al Ministero dei Beni Culturali, come organismo di coordinamento, controllo e intervento sussidiario rispetto alla Regioni.

L’istituzione di un nuovo ministero agiva in controtendenza con l’impostazione concettuale della legge 431/85. La legge Galasso, infatti, gettando un ponte tra un’idea tradizionale di paesaggio come cultura e un’idea di paesaggio come natura, come “struttura” e dunque come “ambiente”, aveva programmaticamente aperto nuove prospettive di interpretazione della pianificazione paesaggistica come pianificazione ambientale ed ecologica. Viceversa, la contemporanea settorializzazione istituzionale della materia ambientale, appesantiva il già complesso meccanismo di cooperazione fra Stato e Regioni, segnando l’inizio di un percorso nazionale della tutela ambientale in larghissima misura autoreferenziale e autonomo da quello della tutela paesaggistica.[7]

Di tale rischio Galasso non poteva non essere avvertito all’epoca della stesura del saggio. La vasta citazione dall’introduzione del volume di Marsh, riproposta anche nell’articolo del 2013, vale a sottolineare come la consapevolezza del ruolo attivo dell’uomo nella trasformazione imponente dell’ambiente faccia della “questione ambientale” un unicum con la vita stessa dell’uomo, e non un tema separato, affrontabile settorialmente.

In questo senso dobbiamo inoltre interpretare l’accenno, non privo di un certo fastidio, alla nascita in Italia di un ambientalismo “politico” (la fondazione ufficiale della Federazione dei Verdi, rappresentata dal “sole che ride” era avvenuta nel 1986), di cui, al di là dell’accezione ideologica del concetto di natura, a più riprese contestata, lo storico sembra sottolineare la debolezza delle radici culturali (p. 278).

La legge 431/85, concepita in uno snodo cronologico di straordinaria importanza sotto il profilo delle risposte politica, legislativa e istituzionale alla questione ambientale fu in Italia l’ultimo tentativo di tradurre in norma una concezione olistica del tema ambientale, di affrontare cioè in toto il nodo del rapporto fra attività umane e fragilità ambientali. Gli anni Novanta segnarono infatti per il paese l’avvio di un’inversione di tendenza verso il proliferare di una normativa settoriale e il moltiplicarsi delle figure di piano.

Tuttavia il “fallimento” della legge Galasso non fu principalmente dovuto alla settorializzazione delle politiche ambientali. Il passaggio storico dalla prospettiva di una tutela “passiva” dei valori paesaggistici e ambientali a una tutela attiva basata sulla pianificazione, si scontrò piuttosto con quello che da almeno un decennio si palesava come il vero scoglio della tutela in età repubblicana: il contenzioso inesauribile fra Stato e Regioni e la sovrapposizione funzionale, frutto di una concezione competitiva delle competenze che affondava le radici nelle rivendicazioni regionaliste degli anni Sessanta e Settanta.

Nel testo di legge la relazione tra strutture centrali (il Ministero, attraverso le Soprintendenze) e gli assessorati regionali, è quanto mai equilibrata e improntata a un principio di sussidiarietà nel pieno riconoscimento della competenza praticamente esclusiva degli istituti regionali in materia di pianificazione territoriale, esclusività questa che aveva costituito la principale vittoria regionalista nel precedente decennio dei decreti delegati. Alle Regioni, dunque, correva l’obbligo di redazione del piano paesaggistico regionale, al Ministero spettava la vigilanza sul processo e un ruolo suppletivo solo nel caso di prolungata inadempienza. La fondamentale “responsabilità operativa” del governo delle relazioni dinamiche fra attività antropiche e valori paesaggistici e ambientali veniva in tal modo concretamente attribuita ai soggetti politici e istituzionali che l’avevano a gran voce rivendicata, spesso attraverso un’aggressiva denuncia delle inadempienze dello Stato.

E però, malgrado il riconoscimento degli esiti politico-istituzionali delle riforme, la legge Galasso fu tutt’altro che un tradimento dell’impostazione costituzionale stabilita dall’articolo 9 e della lunga tradizione nazionale. Lo Stato non solo era chiamato a indirizzare, sorvegliare ed eventualmente subentrare alle Regioni nella redazione dei piani, ma – aspetto che si sarebbe rivelato determinante – proteggeva finalmente, dopo decenni di scelte locali eterogenee e spesso arbitrarie, con un vincolo ex lege esteso all’intero territorio nazionale e quanto mai opportuno, i contesti paesaggistici e naturali che nel loro insieme costituivano i lineamenti del “volto amato della Patria”, conferendo all’Italia i connotati che ne garantivano la riconoscibilità: coste, cime dei monti, alvei dei fiumi vennero finalmente tutelati con una disposizione di inedificabilità assoluta. Si trattò di un passaggio storico rivoluzionario che, guardando per la prima volta alla penisola come a un sistema ambientale unico, usciva dalla logica selettiva della legge del ’39, che aveva costretto per decenni le Soprintendenze a strenue battaglie sito per sito, golfo per golfo, fiume per fiume. Non a caso l’entrata in vigore della legge Galasso chiuse in tutta Italia innumerevoli contenziosi amministrativi e giuridici fra istituzioni della tutela e privati.

Questa volta è il testo legislativo a costituire un implicito commento al pensiero dello storico. Il riconoscimento della “necessità storica” della trasformazione, il rifiuto di una condanna ideologica dell’intervento umano, il carattere mitologico dell’idea di natura vergine – Galasso ne è ben consapevole – non possono in nessun modo fornire un alibi all’abuso. Al contrario la scelta mirata fra le opzioni entrambe pienamente legittime della conservazione e della trasformazione è il cuore della responsabilità operativa della specie umana.

Un recente volume curato da Alberto Magnaghi fa il punto sullo stato della pianificazione paesistica in Italia a trent’anni dall’approvazione della legge Galasso e a sedici dalla sua “incorporazione” nel Codice dei Beni culturali e del paesaggio. Insieme a Massimo Quaini, recentemente scomparso, e a più giovani studiosi di scuola genovese e fiorentina, Magnaghi ha contribuito per decenni con impegno a connotare e sviluppare il nesso operativo tra paesaggio, ambiente e territorio, nel solco del rapporto natura-storia tracciato da Giuseppe Galasso. Di certo il passaggio da un principio d’interdizione, a una prospettiva di tutela attiva integrata, aperta allo studio di percorsi coevolutivi possibili, ha costituito per le scienze del territorio, la geografia così come la pianificazione, l’apertura prospettive epistemologiche e operative nuove e fruttuose. Tuttavia il «Quadro sinottico sullo stato della pianificazione paesaggistica in Italia, aggiornato a ottobre 2015»,[8] parte integrante del volume curato da Magnaghi, offre un bilancio impietoso dello stato dell’arte trent’anni dopo la legge 431/85. Solo due regioni (Toscana e Puglia) rispondono all’appello con un piano paesaggistico approvato che copra l’intero territorio regionale; tre regioni lo hanno adottato (Calabria, Piemonte e Veneto); otto ne hanno avviato l’elaborazione. Delle restanti ben sei sono ancora persino prive di una preliminare intesa con il MiBact. Tanto per misurare la portata del “tradimento” denunciato da Galasso e Settis…

Non esiste alibi accettabile per il fallimento delle Regioni: da nord a sud, senza significative differenze territoriali, la strenua rivendicazione regionalista della piena competenza sui piani paesaggistici si è risolta, nel migliore dei casi, in una modesta gestione dell’ordinario, peraltro – occorre dirlo – al cospetto di un  Ministero dei Beni Culturali che non ha mai rivendicato attivamente il ruolo sostitutivo previsto dalla legge.

Come temeva lo storico napoletano con l’intuito e la lungimiranza che caratterizzarono tanti intellettuali della sua generazione, il debole sostrato culturale non ha permesso all’effimero ambientalismo degli anni Ottanta e Novanta di porre radici profonde nella politica italiana e, a dispetto di una crescente sensibilità diffusa tra la popolazione e tante realtà imprenditoriali innovative, la questione vitale del rapporto società-ambiente è da tempo assente dall’agenda nazionale, al netto delle periodiche emergenze.

 

[1] Così Salvatore Settis in un’intervista a «La Repubblica» del 13 febbraio 2018.

[2] Lectio magistralis tenuta da Galasso in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Conservazione e restauro dei Beni culturali da parte dell’Università Suor Orsola Benincasa in 5 aprile 2012, poi pubblicata in G. Galasso, La responsabilità del paesaggio, «L’Acropoli», XIII, n.3, 2013, pp. 255 e sgg.

[3] Valga per tutti il cosiddetto “Rapporto Meadows” (The Limits to Growth, 1972), commissionato dal Club di Roma a un gruppo di scienziati del MIT di Boston guidato da Donella H. Meadows.

[4] G. Galasso, La responsabilità del paesaggio, cit., p. 259.

[5] Ivi, p. 258.

[6] Ibidem.

[7] Si tratta del “dissennato divorzio” fra materia paesaggistica e materia ambientale stigmatizzato da Salvatore Settis in alcuni fondamentali passaggi del suo celebre Paesaggio, Costituzione, cemento; cfr. S. Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, Torino, Einaudi, 2010.

[8] A. Magnaghi (a cura di), La pianificazione paesaggistica in Italia. Stato dell’arte e innovazioni, Firenze, Firenze University Press, 2016, pp. 37 e sgg.


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LEGGE GALASSO , AMBIENTE , PAESAGGIO , VINCOLI.


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