Razionalità emotiva: perché le emozioni non possono fare a meno del ragionamento e il ragionamento non può fare a meno delle emozioni

 

di Emanuela Campisi

 
 
1. Razionalità senza emozioni, emozioni senza razionalità
 
Il rapporto tra emotività e razionalità domina il dibattito filosofico occidentale fin dalle sue origini. L’immagine della biga alata presentata da Platone nel Fedro, almeno nella sua vulgata, è l’emblema di una rappresentazione delle emozioni come la componente ribelle dell’anima umana, tendente a sfuggire al controllo, e per questo bisognosa di essere domata dalla ragione, che per sua natura è invece controllata e in grado di elevare l’uomo verso i livelli più alti della sua essenza. Per secoli, gran parte della storia della filosofia ha fatto propria questa dicotomia e si è caratterizzata principalmente (con le dovute eccezioni) per l’analisi e la coltivazione delle capacità considerate superiori, come la razionalità, la moralità e l’esperienza estetica. Contro questa tendenza e sotto il fascino crescente che la psicoanalisi esercitava sugli intellettuali, a partire dal secondo Dopoguerra e con l’affermarsi delle democrazie contemporanee capitalistiche (caratterizzate da un benessere mai raggiunto in precedenza) si è sviluppato un movimento di liberazione della sfera emotiva, considerata ora come l’unico canale attraverso cui l’uomo può raggiungere la propria essenza liberandosi dei vincoli che la società esercita su di esse per reprimerle (Marcuse 1955).
Secondo Orsina (Orsina 2018), una delle conseguenze di questa tendenza è stato un aumento esponenziale dell’individualismo, supportato da una visione della felicità che si identifica sostanzialmente con il benessere (well-being) e che diventa sempre più una pretesa dell’individuo nei confronti della società. Il tipo sociologico che incarna questa tendenza è, secondo Orsina, il ‘narcisista’, che crede che la libera espressione del desiderio sia l’unico presupposto per il raggiungimento del suo obiettivo ultimo, vale a dire un mondo senza conflitti in cui ciascuno è libero di esprimere la propria identità senza dover difendersi da opinioni contrarie. Chiaramente, l’individualismo che caratterizza il narcisista ha il suo rovescio della medaglia, che si manifesta prima di tutto nella propensione a non accettare situazioni che sembrano impedire il raggiungimento di questo obiettivo e a considerare come una minaccia ogni forma di opinione diversa dalla propria (Lukianoff & Haidt 2015; Haidt & Lukianoff 2018): questa propensione, molto spesso, si manifesta in comportamenti linguistici aggressivi e, in generale, nell’incapacità di saper sostenere un dialogo con un atteggiamento di apertura nei confronti dell’opinione dell’altro.
L’antidoto proposto da Orsina (Orsina 2018) alla situazione descritta è un sistema democratico che incoraggi una visione della felicità non come di una pretesa del singolo verso la collettività, ma di un obiettivo comune da realizzare attraverso un costante lavoro dialogico di bilanciamento degli interessi dei singoli e di correzione dei propri desideri, quando questi non corrispondono al bene della collettività. Alla figura del ‘narcisista’, bisognerebbe sostituire quella del cittadino consapevole che usa il logos come spazio per mediare tali conflitti senza eliminarli. Questo cittadino possiede delle competenze in quel dominio che è comunemente definito ‘logica informale’, competenze che raramente sono innate o si manifestano senza un addestramento mirato e permanente. In questa direzione, molto è stato scritto sulla necessità di formare individui in grado di applicare il pensiero critico ai ragionamenti quotidiani, e molte strategie sono state messe in atto in particolare tra le giovani generazioni: tra queste, l’introduzione della logica formale tra le discipline di studio (Paoli et al. 2012); l’adattamento degli esercizi della retorica classica al mondo contemporaneo (Dainville & Sanse 2016); l’esercizio del debate, inteso come pratica specifica con sue regole e obiettivi (Oros 2007). Seppur con le dovute differenze, queste pratiche hanno come obiettivo comune la formazione dell’individuo razionale, capace di prendere decisioni su questioni per lui importanti esercitando la razionalità e tenendo conto delle opinioni contrarie, il tutto impedendo alle emozioni di interferire.
Eppure, nonostante l’efficacia di queste pratiche in generale, anche gli individui esposti a questo tipo di formazione sembrano faticare ad applicarle a situazioni concrete, dove invece sembra continuare a prevalere una gestione prevalentemente emotiva della conflittualità. Non solo spesso l’interlocutore non si lascia convincere da argomenti razionali e ci attacca con insulti o posizionamenti ideologici (Domaneschi 2020), ma persino noi stessi ci ritroviamo spesso ad avere opinioni contrastanti, oppure a voler difendere con convinzione un’idea senza però riuscire a fornire valide ragioni. Insomma, esercitare la razionalità ‘pura’ non è affatto facile, almeno per due ordini di ragioni: a livello intra-personale, bisogna scontrarsi con il sistema complesso delle emozioni umane tradizionalmente considerato irrazionale; a livello inter-personale, è necessario che entrambe le parti coinvolte riconoscano la necessità di uno spazio di mediazione, e abbiano le capacità necessarie per comprendere non solo le ragioni, ma anche le emozioni altrui.
Scopo di questo articolo, quindi, è cercare una posizione alternativa sia rispetto a chi pensa che le emozioni vadano escluse dal ragionamento sia rispetto a chi, in modo diametralmente opposto, pensa che liberarle dal dominio della ragione sia il solo modo per affermare in pieno la propria identità. In particolare, intendo mostrare come una formazione al ragionamento informale e alla democrazia deliberativa non può essere completa senza lo sviluppo di un’appropriata ‘intelligenza emotiva’ (Goleman 2006), che abbia un occhio di riguardo per quelle che Haidt (Haidt 2003) definisce ‘emozioni morali’. Per farlo, illustrerò prima in che senso i modelli di razionalità non possono non tenere conto delle emozioni, per poi discutere dei modi possibili in cui queste ultime intervengono nel ragionamento informale, specialmente in quello morale. In conclusione, indicherò alcune direzioni possibili verso quella che definisco una ‘pedagogia emotiva’, insieme ai suoi benefici per il cittadino consapevole.
 
 
2. Modelli duali ed emozioni
 
Sono molte, oggi, le proposte teoriche che possono essere ricondotte a un modello duale della cognizione. Seppur con le dovute differenze, i modelli duali hanno in comune l’idea per cui la maggior parte dei processi cognitivi nell’uomo si realizzano ‘al minimo sforzo’, grazie a quello che viene di solito definito ‘Sistema 1’: spesso non coscienti, tali processi sono frutto di decisioni rapide e approssimative, che si basano su abitudini rese automatiche dall’esperienza e su informazioni di tipo contestuale. Al contrario, i processi controllati, lenti, e quindi dispendiosi – prerogativa del ‘Sistema 2’ – intervengono solo quando l’individuo ha consapevolezza che il Sistema 1 non riesce a raggiungere lo scopo (Stanovich 2011; Kahneman 2011).
I modelli duali, per certi versi, corrispondono alla visione che della cognizione ha il senso comune, specialmente quando applicati a particolari contesti e azioni che ci sono familiari: un guidatore esperto esegue le manovre in modo automatico e, specialmente durante un percorso abituale, presta un’attenzione molto bassa alla strada, ma riesce ad acquisire rapidamente il pieno controllo delle sue azioni quando si presenta un pericolo oppure una deviazione rispetto alla norma. Anche a proposito dell’emotività il senso comune sembra rispecchiare una visione duale: normalmente, un evento scatenante provoca un’emozione che si manifesta automaticamente tramite espressioni facciali e reazioni corporee, e che poi causa decisioni su possibili azioni. È vero che il controllo volontario può intervenire, ma solo in seguito, mitigando il modo in cui manifestiamo pubblicamente l’emozione, o facendoci cambiare idea sulle azioni che di impulso avremmo voluto intraprendere. Questo modo di concepire le emozioni non è proprio solo del senso comune, ma anche di una larga fetta di proposte in filosofia e in psicologia: lo stesso William James la difendeva, e in un senso specifico che vedremo tra poco (Barrett et al. 2007).
La differenza fondamentale tra diversi modelli duali non riguarda quindi tanto l’assunto che questi due sistemi esistano, ma il modo in cui interagiscono e, di conseguenza, il modo in cui possiamo intervenire per migliorare la nostra razionalità. Due atteggiamenti, in particolare, sono possibili: quello di chi pone l’enfasi sul fatto che il Sistema 1, nella maggior parte dei casi, raggiunge il suo scopo (e quindi che dobbiamo rassegnarci al fatto che spesso la nostra razionalità prescinde dal nostro controllo cosciente) e quello di chi, invece, sottolinea che il Sistema 1 è soggetto ad errori ricorrenti, detti bias cognitivi (Stanovich 2011). Una simile differenza è riscontrabile anche nelle diverse visioni duali delle emozioni. Molto spesso, infatti, la tesi per cui le emozioni si innescano senza il nostro controllo coincide con quella per cui, di fatto, non potremmo intervenire neanche se volessimo: il circuito delle emozioni, in questo senso, sarebbe impenetrabile (almeno nel suo primo stadio). È questo il senso in cui James concepiva l’automaticità delle emozioni; inoltre, è il punto di partenza più comune di chi vuole argomentare a favore di una continuità tra il sistema emotivo umano e quello delle altre specie, specialmente degli altri mammiferi.
A favore di quest’idea si possono produrre numerosi argomenti di natura diversa e che riguardano le tre componenti in cui tipicamente viene analizzata un’emozione: l’evento che la scatena, il suo manifestarsi e le sue conseguenze (Barrett et al. 2007). Qui mi limito a riportarne uno per tipo. Innanzitutto, sembra che ce lo suggerisca l’introspezione: spesso, le emozioni si manifestano prima che abbiamo il tempo di rendercene conto, e davvero abbiamo la sensazione di non aver avuto nessun potere decisionale su di esse (Koole & Rothermund 2011). Ancora, ci sono numerose evidenze neurologiche che collocano i processi emotivi definiti primari nelle regioni subcorticali più antiche e condivise con gli altri mammiferi, come l’amigdala e l’ippocampo (Panskepp & Biven 2012). Infine, spesso davanti a un’azione riprovevole, l’emozione scatenante viene invocata come attenuante e, in molti casi, questo serve a diminuire la colpa che viene attribuita al soggetto (come quando, nei processi, si invoca l’essere in preda alla passione per giustificare il delitto).
Tuttavia, nessuno di questi argomenti prova in maniera definitiva che ci sia una netta contrapposizione tra le emozioni automatiche da un lato e la razionalità controllata dall’altro. Per cominciare, è ormai noto in letteratura che consapevolezza e controllo sono due aspetti diversi di quello che possiamo definire un continuum a più dimensioni tra processi automatici e processi controllati: in altre parole, il fatto che un’operazione sia controllata non significa necessariamente che il soggetto ne sia del tutto consapevole (Bargh 1994; Mazzone & Campisi 2013). Ancora, ciò che le evidenze neurologiche sembrano davvero indicare è che le emozioni umane coinvolgono non solo le aree subcorticali di cui sopra, ma anche aree solitamente associate a processi controllati, prima fra tutte la corteccia prefrontale. Un certo livello di controllo, quindi, potrebbe contribuire alla formazione di un’emozione rievocando dalla memoria ricordi che aiutino a capire che tipo di emozione provare, a ragionare sui piani di azione più appropriati a una determinata risposta emotiva e a interpretare gli scopi altrui per determinare che tipo di reazione emotiva si addice maggiormente a quella situazione (Fuster 2003; Barrett et al. 2007).
Contro il rischio di considerare emotività e razionalità due processi separati, è stato proposto che per descrivere i processi coinvolti in una risposta emotiva i modelli più efficaci sono quelli constraint-based,[1] in cui automaticità e controllo interagiscono fin dall’inizio, attraverso una rete di processi bottom-up e top-down:
 
È possibile che una occorrenza di unemozione emerga in modo simile, da processi cerebrali che tentano di soddisfare e minimizzare le differenze tra diversi vincoli rappresentazionali che sono attivi contemporaneamente in un determinato caso di processamento. Cioè, la generazione di un episodio emotivo è il risultato di una rete eterogenea di processi bottom-up (innescati dallo stimolo) e top-down (innescati da scopi o organismi) che sono organizzati in una interpretazione e in un piano di azione coerenti. Tutto questo accade in parallelo, e nel tempo reale probabilmente in un battito di ciglia. Il risultato è un episodio emozionale di cui facciamo esperienza più o meno come una gestalt (Barrett et al. 2007, p. 194, trad. mia).
 
Una visione simile, seppur con terminologia differente, viene proposta anche da Mischel, considerato il padre degli studi sperimentali sull’autocontrollo e noto al grande pubblico per aver inventato il cosiddetto ‘test del marhsmallow’: infatti, seppure anche il suo modello presupponga un sistema ‘caldo’ – impulsivo e legato alla soddisfazione del piacere momentaneo – e uno ‘freddo’, capace di differire la gratificazione in vista di un bene futuro, i due sistemi non sono mai considerati come autonomi, ma come processi facenti capo a una rete di circuiti cerebrali che si influenzano reciprocamente (Mischel 2019).
Il punto che ci interessa in questa sede è che una visione di questo tipo, a differenza di quella secondo cui il sistema emotivo sarebbe impenetrabile, permetterebbe di ipotizzare una doppia direzionalità nell’influenza reciproca tra emozioni e razionalità. Innanzitutto, la razionalità interverrebbe fin da principio nel determinare il tipo di risposta emotiva scaturita in risposta a un evento. Ad esempio, la rappresentazione degli scopi potrebbe essere coinvolta più di quanto si pensi non solo nel controllo, ma anche nella generazione di un’emozione: nel pieno di un’azione condivisa potrebbe essere meno probabile che il comportamento dell’altro provochi rabbia, e non solo nel senso che se un’emozione negativa si sviluppa i soggetti sono in grado di reprimerla, ma proprio nel senso che a qualche livello se ne riesce a inibire la generazione. Allo stesso modo, membri di uno stesso gruppo potrebbero essere più inclini a interpretare le intenzioni dell’altro come onorevoli, e quindi avere reazioni emotive meno estreme rispetto a quelle che avrebbe provocato la stessa azione compiuta da qualcuno fuori dal gruppo. Inoltre, una determinata risposta emotiva potrebbe influire notevolmente sui processi razionali controllati, come dimostrano, tra le altre, le famose scoperte di Antonio Damasio (Damasio 1994; Damasio et al. 2000). Vedremo meglio nel prossimo paragrafo come quest’idea può essere portata alle estreme conseguenze, fino al punto di sostenere che tutte le nostre opinioni sono, in realtà, il risultato della nostra emotività. Per adesso, ci limitiamo a constatare che effetti significativi sulla capacità di riconoscere inferenze valide si notano già quando si manipola l’umore dei partecipanti comunicando loro che in un test precedente hanno ottenuto risultati sotto la media (Jung et al. 2014), e numerosi studi dimostrano come le emozioni negative influenzino la memoria a breve termine, la focalizzazione dell’attenzione e la motivazione a risolvere compiti complessi (Barrett et al. 2007).
Insomma, sembra che il sistema emotivo sia più efficacemente descritto come il risultato di una complicata interazione tra automaticità e controllo, altamente dipendente dal contesto e dai piani di azione del soggetto. Sebbene le emozioni si manifestino spesso in modo rapido e inconscio, la regia di questo complicato sistema sembra essere una costante valutazione della situazione in base all’effetto dello stimolo sul soggetto, ai ricordi di esperienze simili e agli scopi che attribuiamo a noi stessi e agli altri.
Inoltre, negli esseri umani, tale sistema si complica ulteriormente quando si introduce un’altra caratteristica, tipica dell’emotività umana: molto spesso, infatti, a scatenare le emozioni che proviamo non sono eventi che riguardano noi stessi, ma qualcun altro. Questa capacità sembra essere alla base della moralità: un modello completo dell’emotività umana, quindi, non può non tenerne conto.  
 
 
3. Emozioni e ragionamento morale
 
Tra tutte le forme di ragionamento informale, senza dubbio è a proposito del ragionamento morale che un chiarimento della natura del legame tra emozioni e processi razionali sembra ancora più necessario: nel ragionamento morale, infatti, l’emotività deve fare i conti con l’altro, sia nel senso che le emozioni che proviamo sono causate da altri individui sia nel senso che proviamo emozioni che non riguardano direttamente noi, ma altre persone. Inoltre, è nel ragionamento morale che facciamo spesso esperienza del conflitto emotivo interiore, a causa delle emozioni contrastanti che lo stesso evento può suscitare. In questa sede, considererò il ragionamento morale in un senso abbastanza vago, e cioè come il processo con cui un soggetto cerca di determinare se un’azione (propria o altrui) sia giusta o sbagliata da un punto di vista morale. Anche il senso in cui uso ‘morale’ è qui abbastanza vago: la morale si occupa di fenomeni che non riguardano il sé, ma la società, o quantomeno un altro individuo.
Anche il ragionamento morale è stato interpretato, per diversi secoli, come le altre forme di ragionamento, vale a dire come un processo controllato frutto delle capacità cognitive superiori, in particolare dell’intelletto e della ragione (Bargh 2018). E, proprio come nelle altre forme di ragionamento, anche nel ragionamento morale assistiamo, negli ultimi decenni, a una rivalutazione della sfera emotiva. Un importante contributo all’idea per cui le emozioni non possono essere escluse del tutto dai processi razionali viene, ad esempio, dalla ricerca dello psicologo statunitense Jonathan Haidt. L’idea alla base del modello teorico proposto da Haidt è che nei giudizi morali il ragionamento interviene solo post-hoc, per giustificare intuizioni che nascono nella nostra emotività e di cui, spesso, non siamo consapevoli (Haidt 2001).
In particolare, alla base del ragionamento morale ci sarebbero quelle che Haidt (Haidt 2003) definisce ‘emozioni morali’: emozioni, cioè, che hanno a che fare con l’interesse e il benessere non dell’individuo che le prova, ma della società o del gruppo, o almeno di un’altra persona. Haidt è consapevole del fatto che non sia possibile istituire una vera e propria dicotomia tra emozioni individuali ed emozioni morali, e per questo propone di considerarle piuttosto come due casi estremi: in altre parole, quanto più un’emozione non è suscitata da un evento che riguarda il soggetto in prima persona, ma qualcun altro, tanto più può essere considerata un’emozione morale. Così, la felicità e la tristezza sarebbero (di solito) casi prototipici di emozioni individuali, mentre la compassione e il disprezzo sarebbero invece esempi di emozioni morali. Nel dettaglio, Haidt individua una famiglia di emozioni morali negative (rabbia, disgusto e disprezzo), e una famiglia di emozioni positive (soggezione, orgoglio, gratitudine).
Mi sembra che la posizione di Haidt, sebbene includa l’emotività nel ragionamento morale, non riesca tuttavia a superare la contrapposizione tra un sistema emotivo automatico, essenzialmente corporeo e inconscio, e una razionalità controllata, mentale e cosciente. In questa prospettiva, diventa difficile capire se l’emotività possa essere in qualche modo modificata oppure, al contrario, se dobbiamo rassegnarci al fatto che essa sfuggirà sempre al nostro controllo cosciente. Forse, quello che serve è un ulteriore passo avanti, che abbia le intuizioni di Haidt come punto di partenza ma che riesca a portare definitivamente le emozioni dentro la razionalità. Un suggerimento promettente, in questa direzione, viene dai lavori di Martha Nussbaum, e in particolare dalla sua definizione di emozione come ‘giudizio di valore’.
Anche Nussbaum (Nussbaum 2008), come Haidt, esorta a non considerare la moralità come un sistema di principi che riguarda solo la ragione: le emozioni ne fanno parte a pieno titolo, e senza queste non è possibile ricostruire i meccanismi alla base del ragionamento morale. Tuttavia, Nussbaum spinge questa tesi alle estreme conseguenze, respingendo l’idea per cui le emozioni sarebbero questi gut feelings (istinti, sentimenti viscerali) esterni all’intelletto e considerandole a tutti gli effetti parte del processo razionale. Vediamo meglio.
Secondo Nussbaum, il fatto che le emozioni si manifestano in modo automatico e incontrollato non impedisce di considerarle come una forma di giudizio attraverso cui assegniamo a cose, persone o eventi un particolare valore (sia in senso positivo sia in senso negativo). Questo, innanzitutto, perché le emozioni hanno un oggetto, e per l’esattezza un oggetto intenzionale: in altre parole, la causa scatenante di un’emozione non è mai l’evento in sé, ma la nostra interpretazione dell’evento. In questo senso, paura e speranza (o odio e amore) non differiscono tanto per l’oggetto a cui si riferiscono, ma per il punto di vista da cui l’oggetto è considerato. L’emotività di un soggetto, in sostanza, è guidata dal suo sistema di credenze, e in particolare dalle credenze sul valore di qualcosa.
Naturalmente, sarebbe errato concepire la relazione tra emozione, credenza e azione conseguente in modo troppo semplicistico, come di una relazione uno a uno, almeno in due sensi: innanzitutto, non sempre un’emozione ha un oggetto chiaramente identificabile o cosciente; inoltre, forse unici tra le specie animali, gli esseri umani non esperiscono solo emozioni legate al momento presente, ma possono evocare memorie affettive legate a emozioni passate e possono immaginare emozioni future. Questo significa che la relazione tra emozioni, credenze e piani di azione si spiega meglio in una visione a sistemi, mediante quella nozione di gestalt a cui abbiamo già fatto riferimento nel paragrafo precedente a proposito del modello cognitivo constraint-based.
Definire le emozioni in questo modo permette a Nussbaum un passaggio non indifferente per lo scopo di questo lavoro, che mi sembra essere il punto in cui la sua prospettiva si differenzia del tutto da quella di Haidt: è proprio perché le emozioni sono definite come giudizi generati da credenze che possiamo sostenere senza contraddizione che, nonostante nascano in modo rapido e incontrollato, possono essere modificate, a patto che si riesca a modificare il sistema di credenze e di valori del soggetto.
 
 
4. Dal narcisista al cittadino consapevole: il ruolo dell’intelligenza emotiva
 
Alla luce di quanto sostenuto finora, sembra evidente che per costruire il cittadino consapevole presentato nel primo paragrafo è necessario che alle competenze solitamente raggruppate sotto l’etichetta di ‘pensiero critico’ si accompagni una conoscenza analitica della propria emotività, in modo da potere poi agire efficacemente sulle proprie emozioni. Acquisire e raffinare questa capacità, che è stata definita ‘intelligenza emotiva’ (Goleman 2006), è prima di tutto un lavoro individuale di introspezione, ma anche un compito educativo delle società democratiche, come dimostrano i numerosi studi in pedagogia volti a determinare i benefici dell’educazione alle emozioni fin dai primi anni dell’istruzione scolastica. Non è questa la sede adatta per discutere in generale dei modelli pedagogici più efficaci in tal senso. Nel resto dell’articolo, invece, mi occuperò di sollevare due questioni che emergono dal quadro teorico delineato, questioni che potrebbero essere considerate il punto di partenza necessario per ogni attività (sia individuale sia di gruppo) che abbia come scopo lo sviluppo della competenza emotiva.
Innanzitutto, una proposta di educazione al dialogo razionale che sia realmente efficace non può non tenere conto del fatto che ogni tentativo di debiasing (ossia correzione dei bias, degli automatismi), incluso quello che riguarda le emozioni, si scontra con gli obiettivi e la sensibilità del nostro interlocutore, che potrebbe rifiutarsi di intraprendere a sua volta tale processo. Un’efficace descrizione di questo rischio si trova nel libro X dell’Etica Nicomachea:   
 
Il logos, poi, e l’insegnamento non hanno, temo, sempre efficacia su tutti. […] Infatti, chi vive secondo passione non ascolterà un ragionamento che lo distolga da essa, ed in ogni caso non comprenderà. Com’è possibile che chi si trova in questa disposizione si lasci persuadere a cambiare? In generale, la passione non sembra che ceda al logos, bensì alla forza (Etica Nicomachea X, 9).[2]
 
In questo passo, Aristotele ci mette davanti al più grande problema che qualsiasi individuo che abbia tentato di ‘far ragionare’ qualcun altro ha sicuramente dovuto affrontare, durante una conversazione faccia a faccia oppure, in tempi recenti, sui social media: l’altro non ci sta. E questo non significa solo che bisogna educare ad accettare che in un gruppo lo stesso evento susciti emozioni contrastanti (questo non sarebbe un problema per la società democratica, purché sia una società in grado di gestire il pluralismo); molto spesso, piuttosto, l’altro non sembra affatto interessato ad analizzare le proprie emozioni e quelle altrui, ma vuole proprio giocare a un gioco diverso, il gioco della forza: un gioco fatto di insulti, di prese di posizioni ideologiche e di delegittimazione dell’avversario. È evidente che davanti a una situazione di questo tipo l’esortazione a dialogare non basta, se questo non si accompagna alla costruzione di un clima di fiducia reciproca che presenti il confronto come un’occasione di crescita, e non di minaccia delle proprie posizioni.
 
La seconda questione riguarda la difficoltà di stabilire a priori quali siano le emozioni (sia individuali sia morali) da ‘raffreddare’ e quelle invece da ‘riscaldare’ (Mischel 2019). È vero che, in un certo senso, ci sembra possibile distinguere tra emozioni utili ed emozioni dannose; tuttavia, un’analisi più accurata rivela quanto sia difficile decidere a priori quali considerare utili o dannose. Infatti, non è detto che le emozioni che consideriamo positive siano sempre utili e, per converso, che tutte le emozioni negative siano sempre dannose. Ad esempio, anche se l’empatia ci sembra un’emozione morale positiva, e quindi da incentivare, ci sono casi in cui lasciarsi guidare da essa può rivelarsi estremamente dannoso (Bloom 2016). In sostanza, come già Aristotele aveva intuito, il tipo di emozione e il giusto livello a cui lasciarla esprimere dipende essenzialmente dal contesto: se è vero che l’ira è in linea di principio un’emozione negativa, adirarsi davanti a un’ingiustizia può avere degli effetti altamente benefici sulle decisioni e sulle azioni che seguono, e chi non lo fa viene giudicato negativamente dalla collettività.
Certo, si tratta di un lavoro impegnativo, lungo e con scarse probabilità di successo. Tuttavia, il quadro teorico che ho prospettato nei paragrafi precedenti offre buoni margini di ottimismo. La plasticità del cervello da un lato e la possibilità di modificare gli automatismi (o di crearne di nuovi) del Sistema 1 dall’altro, sembrano indicare che è in effetti possibile acquisire un livello di autocontrollo tale da non dover necessariamente arrenderci al fatto che le emozioni semplicemente ci capitano. Naturalmente, questo significa prima di tutto accettare che le pratiche educative devono tenere conto dell’emotività in un senso pieno, ad esempio sviluppando strategie che potenzino non soltanto l’apprendimento cognitivo, ma anche quello emotivo, avendo bene in mente le differenze tra i due (Chabot & Chabot 2004).
Tali risultati possono essere tanto più soddisfacenti quanto più tengono conto di due componenti. In prima battuta, l’esercizio di esplicitazione e di descrizione dell’emozione e dell’influenza dei piani di azione da essa scatenati sugli obiettivi a breve e a lungo termine che l’individuo si prefigge. In seguito, la messa in atto di pratiche pianificate in anticipo da attuare nel momento in cui l’impulso si manifesta. Ad esempio, potrebbe essere utile educare ad esercitare il role-taking esplicito, durante il quale proviamo a immaginare nel dettaglio cosa l’altro prova e cosa sta pensando di fare; dopotutto, è più facile esercitare l’autocontrollo quando si tratta di decisioni che riguardano gli altri e non noi stessi. Ancora, si potrebbe lavorare all’ideazione di piani di azione da esprimere nella forma inferenziale ‘se…allora’, che permettono di decidere in anticipo come reagire a un impulso. Naturalmente, tutte queste pratiche sono tanto più efficaci quanto 1) sono introdotte già fin dai primi anni di vita[3] e 2) sono esperite dal gruppo piuttosto che dal singolo.  
 
 
5. La fatica di essere felici
 
L’attività di controllo delle proprie emozioni e di mediazione tra la propria individualità e quella degli altri può risultare un’attività faticosa, noiosa e poco gratificante (Mazzone 2018). Allo stesso modo, il percepire di non essere padroni delle proprie decisioni e delle proprie azioni può causare frustrazione e, alla lunga, malessere psicologico. Sembra evidente, quindi, che lo sviluppo di una competenza emotiva adeguata sia in cima alla lista delle priorità delle società democratiche contemporanee, sempre più alle prese con tendenze individualistiche che si manifestano – specialmente nei più giovani – con comportamenti aggressivi e, nei casi più gravi, depressione e tendenze suicide. Il rischio più estremo, infatti, è quello di ritrovarsi a pensare che, poiché siamo nati per essere felici e le istituzioni e la società tutta non fanno nulla per garantirci tale diritto, allora non vale la pena di vivere, perché la quantità di dolore che proveremo sarà sempre superiore alla quantità di piacere (Benatar 2018).
Modificare questa tendenza è possibile, ma occorre un’azione pianificata, capace di tenere conto dei diversi livelli coinvolti e, soprattutto, supportata da una teoria capace da un lato di spiegare la complessa interazione tra cognizione, azione ed emotività, e dall’altro di promuovere un’ideale di felicità che non si identifichi soltanto con il benessere dell’individuo:
È meglio essere un uomo malcontento che un maiale soddisfatto, essere Socrate infelice piuttosto che un imbecille contento (Stuart-Mill, in Nussbaum 2012, trad. mia).
 
 
 
 
Riferimenti bibliografici
 
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[1] Per una panoramica su tali modelli si veda Mazzone & Campisi 2019.
 
[2] Cfr. Aristotele 2000, p. 401 (trad. it. a cura di Claudio Mazzarelli).
 
[3] Ancora una volta, è Aristotele che nel II libro dell’Etica Nicomachea ci avverte su questo punto: ‘non è piccola, dunque, la differenza tra l’essere abituati subito, fin da piccoli, in un modo piuttosto che un altro; al contrario, c’è una differenza grandissima, anzi è tutto.’ (Aristotele 2000, p. 89).
 


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Filosofia

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