Comporre le emozioni in un gioco performativo: su Illegonda (1967-68) di Mario Bertoncini

di Alessandro Mastropietro

 
 
1. Bertoncini e il teatro della realtà
 
Mario Bertoncini (Roma, 1932 – Siena, 2019),[1] pianista e performer, compositore e didatta, inventore di oggetti risonanti, scrittore di testi di estetica musicale in forma di dialogo filosofico e di sonetti in romanesco, da metà anni Sessanta si dedicò – come molti altri esponenti della neoavanguardia compositiva – a una produzione di nuovo teatro musicale, che ripensasse sin dalle basi gli assetti drammaturgico-mediali standardizzatisi soprattutto in Italia attorno al modello operistico.[2] Illegonda (1967-68), fra i suoi primi lavori entro tale filone creativo, recupera apparentemente elementi di quel modello, in particolare l’elemento vocale e un sistema di stati emotivi/espressivi proiettato parallelamente nell’elaborazione compositiva e nella realtà scenica della performance. In realtà, anche questi due elementi – come si vedrà – sono da leggersi in una chiave anti-melodrammatica, per la comprensione della quale è opportuno riepilogare il percorso di maturazione del Bertoncini compositore.
Dopo gli studi curriculari di pianoforte e composizione, esperienze decisive in quest’ultimo campo Bertoncini le compie – più ancora che con la sua unica partecipazione (1960) ai celebri Internationalen Ferienkurse di Darmstadt – attraverso l’anno di apprendistato (1962-63) nel campo della musica elettronica, condotto sotto la guida di Gottfried Michael Koenig all’Università di Utrecht, e attraverso la crescente attività d’interprete pianistico – solista o camerista – della Nuova Musica più avanzata. Superato il giovanile modernismo legato soprattutto al modello di Bartók, consumati velocemente – ma significativamente – alcuni esperimenti di composizione serialista, Bertoncini sviluppò a inizio anni Sessanta, sul solco di altre coetanee figure internazionali, un pensiero sonoro che successivamente l’autorevole lettura critica di Adorno avrebbe definito informel in musica, definizione alla quale lo stesso Bertoncini ancor più avanti consentirà di essere ricondotto.[3] L’informel, in musica, eredita dal serialismo integrale alcuni qualificanti tratti morfologici, e con essi alcune tipiche procedure compositive di permutazione combinatoria: non-periodicità e asimmetria dei costrutti sonori; non-direzionalità (e comunque non-narratività) della forma; tendenza generale a rifuggire configurazioni ‘discorsive’ e facilmente gerarchiche.[4] Rispetto alle structures del serialismo, l’informel musicale prediligeva però le textures; ovvero, conformazioni sonore per le quali il layout complessivo è assai più determinante – nella genesi del testo e nella sua appercezione acustica – dei dettagli e delle singole unità atomiche di quelle conformazioni.
Interessandosi di textures sonore globali, l’informel musicale immise perciò, nei processi sia compositivi sia esecutivi, elementi di indeterminazione con varie modalità e a differenti possibili livelli (la famigerata opera aperta).[5] Inoltre, sviluppò una concezione della composizione come auscultazione strutturata della materia acustica, prediligendo un lessico di organismi sonori complessi e ricchi di sfumature:[6] fasce di suoni continue e cangianti, a densità variabile nel tempo; aggregati fortemente dissonanti, fino al cluster; materiali ottenuti da corpi risonanti – ad es. strumenti a percussione – di spettro acustico non classificabile nel sistema temperato delle 12 note.
Tali pratiche portarono all’idea, parallelamente propugnata dalla sperimentazione musicale elettronica, che il suono in sé – ovvero il materiale acustico di partenza – andava ripensato e ricomposto dalle basi, riformulando un sistema compositivo coerente alle sue caratteristiche e, se necessario, riprogettando e costruendo ex novo anche i generatori sonori – gli strumenti/oggetti da far risuonare – a seconda delle qualità acustiche ricercate.[7]
Nel corso del nevralgico primo decennio informel, Bertoncini ideò i suoi lavori da concerto in modo che concretassero, appunto, un’interrelazione organica tra nuove conformazioni foniche, nuovi o reinventati oggetti risonanti ad esse appropriati, adeguate tecniche – perlopiù sperimentali – di eccitazione collegate a specifici gesti esecutivi,[8] concezione della forma quale campo di possibilità liberamente percorribile ma conseguente alle proprietà dei materiali, e infine – aspetto assai importante – una notazione del brano che sintetizzasse coerentemente tutti questi elementi. La grande pagina unica di Cifre (1964-67), nella quale sono indicate graficamente le azioni eseguibili in ordine aperto dai performer (da uno a tre) sul sistema sonoro combinato cordiera-tastiera di due pianoforti, esemplifica tale sintesi. In casi estremi, qualora il sistema sonoro e i gesti esecutivi delimitassero già le potenzialità di una composizione, Bertoncini rinunciò alla notazione musicale propriamente detta, poiché ormai inessenziale e sostituibile da un dossier di realizzazione. È il caso di Scrath-a-matic, lavoro messo a punto nel 1971: per trarre suoni continui dalle corde del pianoforte, Bertoncini inventò un meccanismo di eccitazione fatto di una ruota di gomma azionato da un motorino a velocità variabile (si veda Fig. 1); applicando e spostando manualmente le ruote alle corde, in posizioni diverse (sì da ottenere da questa uno spettro di armonici di volta in volta diverso) e con tempi e durate ad libitum, il performer poteva dar vita a realizzazioni sempre differenti dello stesso materiale, ma senza che questo uscisse dai confini specifici di quanto ricavabile attraverso quegli specifici eccitatori su quelle specifiche corde. Il sistema sonoro e le sue modalità di eccitazione diventavano, così, il testo stesso di un lavoro.
La propensione dell’informel musicale a lavorare con materiali sonori eterodossi generò al suo interno una tendenza ad appropriarsi, per la composizione musicale, di elementi ritenuti – in ottica tradizionalista – fortemente eterogenei: fonemi ed elementi verbali non-cantati, elementi visuali, elementi gestuali.[9] La loro inclusione nel musicalmente intenzionabile ed elaborabile può anche leggersi come un’estensione della razionalizzazione tipica della serialismo integrale; il risultato però, già attorno al 1960, fu un’ulteriore esplosione centrifuga negli orizzonti della composizione: nacquero nuovi generi ibridi tra il teatro e la musica assoluta, quali il teatro strumentale e la musica gestuale, che annettevano al suono, tra le informazioni significative e precisamente codificate, anche l’azione degli interpreti o l’apparizione di immagini di varia tipologia (grafiche, fotografiche, cinematiche) o altro ancora.[10]
Bertoncini fu forse intrigato da quest’ultima linea compositiva anche per la sua personale poliedricità; ma, oltre agli stimoli interdisciplinari, la posta in gioco – in prospettiva estetica – era comunque alta: far entrare in dialettica il principio dell’organicità con quello dell’eteronomia dei materiali. Il punto di riferimento è stato senz’altro, al riguardo, John Cage: in particolare, Cage aveva posto le premesse teoriche, oltre a fornire esempi concreti, per considerare tali composizioni allargate in quanto teatro, poiché «semplicemente […] il teatro è qualcosa che coinvolge sia l’occhio che l’orecchio. Vista e udito sono i nostri due sensi “pubblici” […]».[11] Pur riconoscendo imprescindibile la lezione di Cage, in particolare i lavori realizzati assieme al coreografo Merce Cunningham e ad altri più o meno saltuari ma importanti collaboratori,[12] Bertoncini riteneva che il suo approccio decostruttivo e fortemente non-intenzionale (la composizione quale operazione programmata del caso, gli accadimenti quotidiani assunti nella sfera artistica) potesse essere superato, in favore di articolate e intenzionali interrelazioni tra gli elementi in gioco. Anche gli esempi di scollamento paradossale tra i piani mediali, rintracciabili nei lavori di Dieter Schnebel (della cui Visible Music I Bertoncini elaborò una versione silente, per danzatrice e direttore) e di Mauricio Kagel,[13] furono apporti parziali, nella reinvenzione di nuove e sfaccettate correlazioni tra i media.
Su un punto, Bertoncini rimase relativamente fedele al modello cageano: l’idiosincrasia verso un impianto di rappresentazione o di semantizzazione simbolica. In tale nuovo teatro musicale, tutte le azioni mediali implicate si presentano, e non rappresentano; si offrono nello spazio-tempo in quanto tali, non rinviando ad altro se non a sé stesse.
Si tratta di un assetto estetico più vicino alla cosiddetta ‘musica assoluta’ e alla «semantica intrinseca»,[14] che al teatro musicale operistico, nel quale le azioni mediali (musica strumentale, canto come unione di parola e melos, azione gestuale, scenografia e luci etc.) e le loro combinazioni fanno riferimento a un piano del racconto rappresentato. Ciò implica, nel teatro musicale di rappresentazione, una loro non-autonomia, dovendosi rapportare a contenuti drammatico-narrativi, interpersonali, emotivi, in funzione dei quali ogni formante spettacolare ha elaborato – musica compresa – cifre codificate e riconoscibili. Tramontata l’attualità linguistica di quelle cifre (legate a principi di periodicità, simmetria, direzionalità formale e discorsività), per Bertoncini anche l’orizzonte rappresentativo-narrativo, che conferiva loro coerenza e unità, non può che essere abbandonato: un nuovo teatro musicale, ripensandosi quale forma inter-mediale organica, deve ricostituire nuove funzioni – cogenti e non semplicisticamente gerarchiche – tra i media coinvolti, trattandoli anzitutto nella loro pura materialità.[15]
L’etichetta che Bertoncini diede alla sua produzione nel campo è stata volutamente provocatoria: teatro della realtà. Il secondo lemma, però, non rimanda ad alcun realismo rappresentativo, ma – per l’appunto – alle componenti mediali in sé e alla loro interazione organica e reciprocamente funzionale, quali uniche realtà estetiche ammesse in un nuovo teatro musicale. La definizione, consacrata a metà anni Ottanta con uno dei suoi dialoghi,[16] fu coniata dal compositore all’altezza del varo del titolo più ambizioso lungo questa linea creativa: Spazio-Tempo, progetto (1967-70)[17] complesso che sovrappone modalità da installazione d’arte e da performance intermediale aperta ma fortemente guidata entro uno spazio allestito con oggetti d’arte risonanti. Se ne sottolinea qui solo la predilezione – comune ad altri lavori di Bertoncini – per l’elemento corporeo del gesto (e l’idiosincrasia per quello vocale), nonché la triangolazione reciproca tra componenti sonore, gestuali e visuali (Fig. 2).[18]
Una triangolazione analoga, ma scalata alla dimensione della musica da camera, si rintracciava già in Quodlibet (1964),[19] primo brano sulla linea del teatro della realtà: a turno, uno dei quattro strumentisti (viola, violoncello, contrabbasso, percussioni) traccia gestualmente nell’aria, con il suo battente/archetto, traiettorie precisamente notate, che rispecchiano per analogia l’evoluzione temporale informel – malleabile e imprevedibile – della materia sonora. Bertoncini prescrive che gli undici fogli di partitura, in sequenza parzialmente libera ma preparata, vadano visualizzati per gli strumentisti su appositi grandi schermi, ad es. – si veda la Fig. 4 – attraverso diapositive proiettate: la soluzione non riguarda tanto la facilitazione del compito di lettura della partitura, quanto la facoltà, anche per il pubblico, di osservare la notazione grafico-analogica di tutti i segni, compresi quelli risolti in gestualità; in tal modo, s’instaura una triangolazione percettiva – non solo compositiva – tra i domini del suono, del gesto e del segno.
 
 
2. Illegonda: il testo e la concezione intermediale, lo Spazio come Forma
 
Illegonda (composto tra l’agosto 1967 e il 1968), «azione teatrale per solista femminile con percussioni e nastro magnetico»,[20] è uno dei due ritratti – Bertoncini ne aveva progettati tre[21] – per solo performer, nei quali la composizione è costruita sulle peculiari capacità esecutive dell’interprete dedicatario: in questo caso, la cantante Ille Strazza Brinkmann, olandese, sposata all’artista Guido Strazza.[22] Il ruolo centrale della componente vocale è una delle specificità del lavoro, e lo rende quasi un unicum nel percorso teatral-musicale del compositore: ciò impegnò Bertoncini a trovare, per la voce, soluzioni congruenti e insieme non-diegetiche, atipiche quindi rispetto sia alla tradizione operistica vigente, sia all’impianto assoluto e sostanzialmente non-referenziale cui – secondo la sua idea di teatro musicale – le componenti mediali dovevano attenersi nell’entrare in vicendevole relazione; un obiettivo reso viepiù arduo dalle implicazioni espressive ordinariamente connesse alla voce umana.
Prima di affrontare questi aspetti del brano, è opportuno partire dal fattore funzionale subito osservabile e direttamente legato alla sua costellazione testuale: la concezione di uno spazio della performance, che è anche la sua forma aperta eppure definita. La performer agisce «[…] equally [as] singer, actor-mime and percussionist»[23] in uno spazio allestito sul palcoscenico con svariati oggetti sonori, ovvero percussioni – perlopiù – e un riproduttore di nastro magnetico, raggruppati liberamente oppure in stazioni obbligate (nel novero degli strumenti, più che nella posizione); la performer approda a quelle stazioni in sequenza non predeterminata – sulla quale può interferire l’intervento delle luci – fino ad esaurirle, chiudendo allora la performance.
Per l’allestimento di tale stage environment,[24] è indicata una dotazione strumentale di base, il cui raggruppamento in quattro postazioni (a-b-c, più il grande tam-tam) è collegato – ma non biunivocamente – ai quattro fogli di partitura per la performer:
 
È fornito anche un elenco di battenti vari, da integrare con le indicazioni sui fogli di partitura (piccole percussioni, come guiro e campanaccio, possono farvi da eccitatori). In aggiunta, altre percussioni – degli stessi tipi – vanno disseminate ad libitum vicino e tra le postazioni principali: andranno agite dalla performer durante gli spostamenti e le fasi intermedie tra i fogli di partitura.
Gli schizzi autografi[25] testimoniano la rilevanza, nel processo compositivo, della disposizione spaziale degli strumenti, quale elemento regolatore della forma, in combinazione coi fogli di partitura e accanto al copione dell’azione, anch’esso gestato con attenzione da Bertoncini attraverso stesure provvisorie. La primazia – tanto logica quanto cronologica – della descrizione dell’azione, nucleo generativo del lavoro e dell’idea gestuale-teatrale racchiusavi, consiglia di darne qui la trascrizione della sua versione definitiva in italiano:[26]
 
palcoscenico vuoto, fondale grigio (sulla parete di fondo una linea dolcemente curva divide due diverse tonalità di grigio)
1- Ille è sulla scena fin dall’inizio, al buio, seduta sopra un sedile basso (un parallelepipedo) posto di traverso, al centro del palcoscenico.
2- la luce si accende; lei, investita da un fascio luminoso circolare che viene dall’alto, resta ancora immobile per alcuni secondi (10 al minimo) nell’atteggiamento iniziale: le mani in grembo, l’una nell’altra, le gambe unite, ripiegate lungo uno dei fianchi del parallelepipedo che le serve da sedile. È vestita semplicemente, con una tunica bianca o chiara, non lunga né corta e comunque non evocante una condizione particolare (né da sera né beat ecc.)
3- si guarda intorno lentamente, muovendo appena la testa, quindi si alza e, sempre lentamente, si dirige verso uno dei gruppi di strumenti sistemati lungo le pareti del palcoscenico. Tale azione sarà calma, lenta addirittura, ma compiuta senza esitazione, percorrendo il palcoscenico in linea retta. La scelta d’una o di un’altra zona, di questo o quel gruppo di strumenti, sarà assolutamente casuale, cioè compiuta senza intenzione o premeditazione: e ciò anche se la cantante avrà provato molte volte il pezzo, se saprà riconoscere a colpo d’occhio gli strumenti e quindi le indicazioni ad essi relative e notate sulle partiture messe a caso in luoghi differenti.
4- Ella comincia quindi a “trovare” gli / ad accorgersi degli / strumenti, a spostarli. Ne prende uno, è sorpresa dai suoni che esso produce; lo posa, ne prende un altro, sempre più incuriosita, lo percuote, se è spostabile e maneggevole (ad esempio se è un […] campanaccio) lo porta all’orecchio, reagisce al suono prodotto dallo strumento intonando o la stessa altezza o un’altezza diversa, che le viene suggerita da un’associazione assolutamente spontanea, raggiunta senza la volontà di stabilire aprioristicamente una relazione determinata tra i due eventi sonori.
5- ‘Importante’ | dopo aver messo in disordine gli strumenti portandone alcuni verso il centro della scena, ella legge per caso una delle partiture poste sul relativo leggio; parla tra sé, a mezza voce, commentando brevemente la scoperta (cioè da voce ad alcuni dei processi mentali che dovranno guidare le azioni successive), se vuole, anche usando un tipo d’intonazione parlata / Sprechgesang /, improvvisando esclamazioni, accenni; […] poi si reca senza precipitazione ma con sicurezza, decisamente, verso gli strumenti indicati nella pagina da eseguire e li raggruppa in ordine presso il cerchio luminoso. Quindi “esegue” l’oggetto trovato.
[5bis-] (dovrà preoccuparsi di non marcare la separazione, la differenza tra zona improvvisata e zona determinata, curando che quest’ultima mantenga il carattere atemporale di oggetto; in altri termini, ella dovrà eseguire con estrema naturalezza la successione tra i diversi oggetti; in nessun caso gli ascoltatori dovranno avere l’impressione di preparazione ed esecuzione d’un pezzo in sé concluso, ma soltanto d’un tutto unico composto di queste diverse fasi di avvenimenti sonori che si succedono senza soluzione di continuità.)
6 - L’incontro (e quindi il percorso tra gli oggetti) con i vari strumenti deve generare in Ille dei sentimenti quali la sorpresa, la paura, la gioia ecc.; tuttavia, naturalmente, si tratta di sentimenti “fittizi”, occasionati da cause minime – è un gioco – e velati tutti, in ogni singolo momento, da uno stato di dolce noia. È questo clima generale, questa “inutilità” dei suoi spostamenti che Ille deve cercare di mostrare, al di là dei sentimenti sopra esposti: come se li consideriamo, quei sentimenti e quindi le loro cause, attraverso una parete traslucida, appunto nei limiti di un gioco.
- FORMA GENERALE | In ogni caso, qualunque sia il percorso derivante dalla successione scelta delle sezioni, il pezzo dovrà avere una forma del tipo A B A’.[27]
Inizio: Ille seduta, luce spenta. Sviluppo: azioni, suono ecc. Fine: Ille seduta (in un posto diverso) compie alcune azioni “piccole” (si aggiusta i capelli, si guarda nello specchio) in diminuendo fino alla immobilità finale. Luce si spegne lentamente.
 
Le azioni – sonore e non – che la performer compie alle quattro stazioni principali nel mezzo della performance, tra il suo avvio e il suo epilogo e tra le fasi semi-improvvisate di raccordo, sono disciplinate da altrettanti fogli-partitura:[28]
 
- foglio Chimes (Fig. 5): è diviso in due zone, corrispondenti alla posizione delle chimes [campane] (a) e del tom [tamburo] grave (b). Dapprima, la performer nota e ‘scopre’ sonoramente le chimes, eccitandole variamente; gli atteggiamenti complessivi e le corrispondenti posture di parti del corpo (braccia, testa) sono indicati con precisione, e rispecchiano a turno sorpresa, curiosità, fascinazione etc. Le azioni vocali sono sia parlate (sonore o aspirate come in un’esclamazione), sia cantate; i gesti vocali sono spesso una reazione spontanea – qualche volta una preparazione – ai gesti sonori, per analogia o più raramente per contrasto: il più evidente è la serie di esclamazioni (a intensità proporzionale alla grandezza del carattere) parallele allo scuotimento sovreccitato dei due tipi di chimes (legno, vetro) in alto a destra. L’azione della performer viene spostata sul tom dall’intervento del regista alla luci: la membrana dello strumento viene colpita con un mucchio di biglie da Ille, che contrappunta i suoni ottenuti o vi reagisce emotivamente con la propria voce.
 
- foglio Nastro (Fig. 6): le due fasi coincidono con un solo vocale, notato su pentagramma in alto a sinistra, e con la riproduzione di un nastro magnetico, avviata dalla performer stessa su un apparecchio in scena. Il lungo solo, eseguendosi a bocca chiusa, è un’esplorazione propriocettiva interna e circospetta che Ille compie attraverso la propria voce, con comportamenti fraseologici e parametrici miranti a una discontinuità e a una temporalità flessuosa, sospesa, tipicamente informel. Terminato il solo dal vivo su una lunghissima nota tenuta sino a fine fiato, Ille aziona la riproduzione del nastro, ottenuto montando a piacere materiali vocali selezionati dall’intero brano ed eseguiti della stessa performer;[29] dal vivo, la performer commenta l’ascolto della sua stessa voce con espressioni – in olandese – ancora di sorpresa e stupore: è di nuovo una propriocezione della vocalità, ma stavolta esterna, mediatizzata su un dispositivo tecnologico, tanto da essere farcita di commenti di meravigliato auto-riconoscimento (ad es. «…maar, dat is mijn stem…» [«…ma, questa è la mia voce…»]), e chiudersi con un rammaricatoin italiano – «è finito!».
- foglio Arco, Gong (Fig. 7): la dotazione strumentale – sparsa in tutte le tre zone a) b) c) – è più varia e numerosa di quella suggerita nel titolo, annoverando – oltre ai tre gong di diversa misura – glass-chimes, le due paia di bongos e tumbas, piatto sospeso medio e wood-chimes mobili (usate anche come eccitatore); il nucleo timbrico principale è però costituito dagli oggetti in metallo, col piatto sospeso eccitato – extra-ordinariamente – con l’arco di violino. Gli interventi vocali della performer sono sempre in relazione coi gesti di eccitazione (ora caotici e disordinati, ora metodici e concentrati) sulle percussioni: enunciati pragmatici (ordini, direzioni d’azione), commenti, echi timbrici asemantici del risultato ottenuto, tutti trascoloranti l’uno nell’altro.[30]
 
- foglio Tam Tam (Fig. 8), tra i quattro destinati alla performer, è l’unico a lettura spaziale-libera, in luogo di quella destrorsa tradizionale: il foglio restituisce, entro il cerchio, le zone del grande tam-tam (diametro 1 m) sulle quali eseguire le azioni lì notate, senza vincolo – quanto al loro ordine – di direzione di lettura.[31] La voce, di nuovo, imita i suoni ottenuti eccitando variamente lo strumento, reagisce loro con commenti, è essa stessa strumento d’eccitazione quando l’organo vocale è accostato molto vicino alla superficie, si pone insomma come uno specchio dello scandaglio timbrico.[32] Tra la funzione semanticamente emotivo-pragmatica e quella puramente acustica della voce, la seconda sembra avere il sopravvento, come nella transizione notata sul bordo superiore, con l’evidente trasformarsi della notazione da scrittura verbale a linee sonore pure: «[Ille] parla, improvvisando frasi a caso ma attinenti, secondo associazioni spontanee, all’azione che sta compiendo, accelerando sempre, fino a confondere le parole, trasformandole in linee sonore concitatissime e confuse».
- un quinto foglio, Luce (Fig. 9) è riservato al regista-direttore: si tratta di una meta-partitura che può determinare il percorso tra gli altri fogli e le stazioni dello spazio, ovvero il movimento della performer quando questa viene intercettata – in corrispondenza del segno I↗ – da uno spot luminoso, e quindi guidata tra gli oggetti sonori; in queste fasi, la performer dovrà improvvisare, impiegando i soli strumenti via via illuminati dallo spot. Le luci sono orientate dal loro operatore alla stregua di un’esecuzione musicale, con lo scorrimento nel tempo di tre adiacenti righe-sequenze di effetti; scelta una riga mediana quale centro c, le righe vicine corrisponderanno alla zona destra e sinistra del palcoscenico.
 
Dunque, anche le luci – e il loro operatore – ‘leggono’ lo spazio d’esecuzione interagendo, o perfino interferendo, con la performer, generando a ogni nuova esecuzione una nuova sequenza di eventi sonori, vocali, gestuali e luminosi. In uno dei primi appunti concettuali per il brano, Bertoncini aveva annotato:[33]
 
fare in modo che i singoli momenti (le sezioni, o strutture) non stabiliscano una “forma”, nel senso di una successione distribuita di eventi: tutti gli eventi (ritmi, altezze, gesti, timbri, ecc.) devono stabilire una struttura atemporale attraverso la loro “contemporaneità”.
 
L’assetto performativo e testuale di Illegonda rappresenta in effetti uno spazio, un environment di oggetti sonori da allestire in base ad alcuni criteri, e da percorrere più o meno liberamente generando una sequenza non-prestabilita dell’azione. Le possibilità foniche e gestuali che vi si dispiegano nel tempo sono già inscritte nella disposizione scelta degli oggetti entro lo spazio, nonché – naturalmente – nei segni esecutivi che la performer vi applica: per questo Bertoncini le definisce «contemporanee», ovvero – tentando una parafrasi – sincroniche-paradigmatiche: sono, cioè, un repertorio già organizzato, localizzato, e disponibile per la concreta realizzazione diacronica del lavoro. Per lo spettatore, in particolare, l’immagine spaziale dell’environment (la distribuzione degli oggetti sonori nel palcoscenico) costituisce la forma sensibile fondamentale che del lavoro si offre, prima che essa sia praticata dall’esplorazione della performer e assuma così una delle sue innumerevoli vesti temporali-sintagmatiche possibili.[34]
Lo spazio fisico, immagine visibile di una forma multiversa e non più vincolabile a una retorica della vettorialità formale (immagine, perciò, di un principio dell’informel musicale), plasma anche la concezione di uno dei quattro fogli-partitura, quale pars pro toto di tale concezione: il foglio Tam tam rappresenta analogicamente la superficie circolare dell’oggetto risonante, entro la quale sono notate le azioni sonore-gestuali da compiervi (in corrispondenza di quei punti dello strumento) senza obbligo della loro sequenza di lettura. Inoltre, lo strumento tam-tam è un oggetto risonante con specifiche proprietà foniche, delle quali il foglio corrispondente esplora alcune caratteristiche, oltre a fornire un canovaccio libero d’azione gestuale: testo e oggetto sonoro in parte si sovrappongono, tanto che Bertoncini – nel punto 5. del copione – può scrivere che, una volta scelto il foglio da leggere e posizionati appropriatamente nello spazio i generatori sonori che vi figurano, la performer «“esegue” l’oggetto trovato».
 
 
3. Metacritica e Gioco emotivo nella vocalità di Illegonda
 
Si è già notato, descrivendo il testo, come una dimensione metacritica investe ampiamente il ruolo della voce in molti luoghi dell’azione fissata nei fogli-partitura, al fine di immetterla (al di là del suo ruolo fonatorio-eccitativo o delle sue conformazioni acustiche in quanto tali) in un feedback funzionale con quell’azione. In quanto organo metacritico, la voce è uno specchio – quale, a un certo punto, diventa fisicamente il tam-tam, e qual è sonoramente il Nastro da cui Illa ascolta la sua stessa voce – nel quale la performer si riconosce e insieme si sdoppia, commenta o simula gli eventi, sviluppa una propriocezione ripiegata sui risonatori corporei dell’emissione o una percezione esterna di questa. Quasi tutta la componente verbale, in effetti, consiste in espressioni di valutazione, su di sé o sul risultato («bravissima», «bello»), in constatazioni sugli eventi e le azioni («è finito», «ora sono stanca») o in nominazioni degli oggetti («chimes»), in auto-istruzioni, anche in forma esclamativaproviamo», «Ssss..sss» per fare silenzio), in esclamazioni varie (sorpresa, entusiasmo, curiosità, soddisfazione…). Il trattamento metacritico di elementi voco-verbali, peraltro, era ampiamente praticato nel nuovo teatro musicale internazionale, essendo risolvibile in fenomeni dissociativi suono-gesto o in denuncia della crisi storica del linguaggio musicale: si vedano ad es. i tanti lavori o singole scene in forma di conferenza sul tema della Nuova Musica, da Sur Scène – 1959-60 – di Mauricio Kagel in avanti (con titoli nati proprio nell’ambito della neoavanguardia musicale romana).[35] Pur certamente nota a Bertoncini, tale soluzione teatrale – l’epica della Nuova Musica – non fu però da lui praticata in forme pure, forse per la sua stretta tematizzazione, bensì in forme assai mediate.
Una mediazione può considerarsi ad es., in Illegonda, l’oscillazione tra modalità rappresentativa e presentativa, con netta prevalenza della seconda. La performer non rappresenta una entità-personaggio, né dovrebbe poter essere identificabile con un’entità astratta ma definita, o con l’astrazione di una classe socioculturale: la prescrizione dell’autore sul vestiario della performer (al punto 2. del copione, supra) è in tal senso esplicita. La performer, in Illegonda, presenta se stessa come tale, alle prese con una situazione semi-strutturata di sperimentazione sonora: che sulla partitura e nel copione la performer sia indicata col nome reale della dedicataria e prima interprete (Ille/Illa) è la riprova di una situazione mediana tra presentazione reale e rappresentazione mediante un avatar omonimo. Nella realtà precedente alla performance, la performer ha già condotto un approfondito lavoro di preparazione, e grossomodo predisposto assieme al compositore – in quanto regista-direttore – un ordine maestro della sequenza dei fogli. Eppure, in sede di performance, a Ille è prescritto di indossare la maschera della freschezza e dell’imprevedibilità improvvisativa: le azioni devono compiersi come se i rispettivi esiti sonori le giungessero nuovi e inaspettati (con tanto di simulate reazioni di sorpresa), e come se ella «trovasse» sulla sua strada partiture e oggetti sonori per la primissima volta, senza premeditazione, forse neppure senza sospettare – fingendo, quindi rappresentando una situazione – che quegli oggetti possano suonare. Importanti diventano perciò le fasi di passaggio tra le postazioni: la performer v’improvvisa effettivamente piccole azioni a soggetto (imbattersi in partitura e oggetti, saggiarli commentando, metterli in disordine e poi nell’ordine richiesto dall’esecuzione del foglio), avendo cura di sfumare ogni cesura tra queste fasi e l’esecuzione di una struttura conchiusa quale è – sostanzialmente – il foglio-partitura. Ma proprio in quei passaggi semi-improvvisati, alla performer è richiesto di meglio mostrarsi come tale, alludendo alle fasi preparatorie – le prove – di un’esecuzione.
L’elemento metacritico è solo una delle categorie implicate in Illegonda: impegnando per la prima volta media espressivi in genere abbastanza connotanti (l’azione corporea e la voce), uno dei quali in una forma potenzialmente denotante (la vocalità verbale), a Bertoncini si presentava il problema di rendere massimamente organici a una drammaturgia di relazioni pure e assolute questi due elementi. Accanto alla funzione puramente fonica – diretta o eccitatoria – della voce, un’altra categoria chiamata a risolvere il problema può essere definita (a partire dall’introduzione autografa) il gioco fittizio dei sentimenti: riflettendo l’azione un percorso di scoperta sperimentale del suono attraverso stazioni dell’inaudito, quelle scoperte generano nella performer vari stati emotivi – sbigottimento, paura, gioia, compiacimento etc. – appunto fittizi. L’aggettivo indica che tali stati sono «semplici», sono assoluti (sono privi, cioè, di una referenza a un piano diegetico-rappresentativo di relazioni affettive interpersonali, e non sono articolabili fuori della reazione a quei nudi eventi sonoro-visivi), e sono agiti come in un gioco: sono sì autentici, ma solo nella realtà specifica e separata della performance, che la performer mostra (metacriticamente) in quanto tale. È per questo che il compositore le richiede di [rap]presentarsi agendo quasi «in uno stato di «dolce noia» e come «attraverso una parete traslucida».[36]
Il riferimento al gioco, alla sua «inutilità», contiene un collegamento e insieme un distinguo rispetto alla nota estetica musicale formalista di Eduard Hanslick, ovvero alla sua idea di musica quale forma dinamica dei sentimenti.[37] In Hanslick, il contenuto determinato della musica rinvia solo al medesimo piano musicale, e può condividere col piano emotivo nient’altro che un isomorfismo. In Bertoncini, la tendenziale auto-referenzialità entra, nella dimensione pluri-mediale del teatro, in una rete di interazioni, che giustifica contenuti emotivi ma entro una pura relazionalità. Quando si ripresenterà la questione dell’organicità della voce (in Tempi di prova, 1969-70), il compositore tornerà sulla funzione relazionale di caratteri metacritici e di stati emotivi fittizi: tematizzata la preparazione (prova) di un brano di Nuova Musica quale situazione rappresentata dall’esecuzione del brano medesimo, la performer Cantante potrà decodificare liberamente le istruzioni gestuali del Direttore in base a una griglia di stati emotivi regolamentati («ηθος | f tragico | drammatico | epico | enfatico | cinico | p intimo»), rendendo così imprevedibile la sua risposta a quelle istruzioni.[38]
 
 

*Il presente contributo deriva da un percorso di ricerca pluriennale su Bertoncini, condotto sia sugli schizzi conservati nel fondo omonimo presso il Musik-Archiv della Akademie der Künste, Berlin (sigla AdK), sia sui materiali presso l’archivio personale del compositore a Piazze di Cetona, Siena (sigla ABCe, ora in fase di aggregazione al precedente), da dove provengono tutte le immagini qui riprodotte. Si ringrazia sentitamente Valeska Bertoncini per l’autorizzazione concessa alla loro pubblicazione.
 
[1]  Sull’opera multiforme e la biografia di Bertoncini, cfr. M. Bertoncini, …Altre cose… Dialogo decimo in quattro giornate, in Ragionamenti musicali in forma di dialogo: X e XII, Roma, Aracne, 2013, pp. 29-235; si tratta di uno dei quattordici dialoghi, nei quali Bertoncini ha proiettato il suo pensiero sdoppiandosi in almeno due personaggi fittizi, Bremonte (l’alfiere entusiasta) e Menippo (lo scettico ben informato); solo il primo dialogo della serie deriva da un’intervista con un interlocutore reale. Per ulteriori informazioni, si può consultare il sito http://www.mariobertoncini.com/, e una recente collettanea: La bottega del suono: Mario Bertoncini. Maestri e allievi, a cura di C. Mallozzi e D. Tortora, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017.
 
[2] Una recente sintesi, riguardo il panorama italiano, è: D. Vergni, Nuovo teatro musicale in Italia 1961-1970, Roma, Bulzoni, 2019. Per una panoramica generale e una disamina analitica dei fenomeni italiani, in particolare in due centri nodali che Bertoncini ben conosceva: A. Mastropietro, Nuovo Teatro Musicale fra Roma e Palermo, 1961-1973, Lucca, LIM Libreria Musicale Italiana, 20202.
 
[3] T. W. Adorno, Vers une musique informelle (1961), in Id., Quasi una Fantasia, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1963 [trad. italiana in Immagini dialettiche, a cura di G. Borio, Torino, Einaudi, 2004, pp. 235-279]. G. Borio, Musikalische Avantgarde um 1960. Entwurf einer Theorie der informellen Musik, Laaber, Laaber-Verlag, 1993.
 
[4] Geschichte der Musik im 20. Jahrhundert: 1945-1975, a cura di Hanns-Werner Heister, Laaber, Laaber-Verlag, 2005. P. Decroupet, Konzepte serieller Musik, in Im Zenit der Moderne. Die Internationale Ferienkurse für Neue Musik Darmstadt 1946-1966, a cura di G. Borio e H. Danuser, Freiburg im Breisgau, Rombach, 1997, vol. I, pp. 285-425.
 
[5] P. Decroupet, Aleatorik und Indetermination, in Im Zenit der Moderne, cit., pp. 189-276. Si consideri che il testo teorico-critico che fonda il concetto (U. Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962) crebbe sul tronco di un intervento del semiologo sull’indeterminazione nella Nuova Musica (U. Eco, L’opera in movimento e la coscienza dell’epoca, «Incontri Musicali», 3, 1959, pp. 32-54).
 
[6] G. Borio, Musikalische Avantgarde um 1960, cit.
 
[7] Dall’inizio degli anni Settanta fino alla scomparsa, Bertoncini si concentrò molto sulla progettazione e realizzazione di strumenti eolici (soprattutto arpe), in quanto sistemi sonori finalizzati alla sola produzione di textures complesse e cangianti (M. Bertoncini, Arpe eolie e altre cose inutili, Milano, die Schachtel, 2007).
 
[8] Tra le tecniche escogitate personalmente da Bertoncini, quella dell’eccitazione di corde del pianoforte mediante strofinamento manuale di sagole loro annodate, in modo da ottenere dalla corda un suono continuo anziché impulsivo. La tecnica sarà portata nell’arsenale sonoro del Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza, del quale Bertoncini farà parte dal 1965 al 1972 (G. Guaccero, L’improvvisazione nelle avanguardie musicali. Roma, 1965-1978, Roma, Aracne, 2013, pp. 104-124).
 
[9] P. Decroupet, I. Kovács, Erweiterungen des Materials, in Im Zenit der Moderne, cit., pp. 277-332.
 
[10] Sprachkomposition, Instrumentales Theater, theatralische Experimente, in Geschichte der Musik im 20. Jahrhundert: 1945-1975, cit., pp. 213-262.
 
[11] M. Kirby, R. Schechner, Intervista con John Cage, «Marcatré», 37-40, maggio 1968, pp. 218-228, trad. italiana a cura di Elena Baruchello dall’originale inglese, «Tulane Drama Review», X, 2, 1965.
 
[12] J. Cage, Lettera a uno sconosciuto, a cura di R. Kostelanetz, Roma, Socrates Edizioni, 1996, pp. 157-191 e 261-270. Si rinvia inoltre alle schede delle composizioni per danza e multimedia, realizzate con Cunningham, nel sito https://johncage.org/pp/john-cage-works.cfm.
 
[13] A. Mastropietro, Nuovo Teatro Musicale fra Roma e Palermo, cit., pp. 41-48 e 483-485.
 
[14] J.-J. Nattiez, Musica e significato, in Enciclopedia della musica, a cura di J.-J. Nattiez, II, Il sapere musicale, Torino, Einaudi, 2002, pp. 206-238.
 
[15] A. Mastropietro, Nuovo Teatro Musicale fra Roma e Palermo, cit., pp.  473-476.
 
[16] M. Bertoncini, Note per un “teatro della realtà” [1986], «Decalage», supplemento a «1985 La Musica», 13, 1987, pp. 21-30.
 
[17]  A. Mastropietro, Nuovo Teatro Musicale fra Roma e Palermo, cit., pp. 493-508.
 
[18] In Spazio-Tempo, gli unici elementi verbali sono di tipo metacritico (commenti sulla musica), e non sono affidati a performer vocali, bensì insufflati in uno strumento. In Epitaffio in memoria d’un concerto – 1968-69 – la loro muta scrittura su tavole risonanti genera i materiali sonori del brano (Ivi, pp. 495-487).
 
[19] Ivi, pp. 480-483.
 
[20] Ivi, pp. 487-492. Il presente complemento è la traduzione di quello riportato – in tedesco – nel programma di sala della première a München (Studio 2 del Bayerische Rundfunk, Monaco di Baviera, Ille Strazza e Gruppo TEAM, 11 aprile 1972, nell’ambito della serie concertistica Neue Musik Münche): Thetralische Aktion für Solistin mit Schalgzeuginstrumenten und Tonband; ne sono attestati altri differenti, sia negli appunti, sia sulla bella copia in inglese delle note esecutive ([Introduzione a] Illegonda, versione inglese, ms. autografo su lucido, f. 1, ABCe), dove è segnalato anche l’avvio della composizione nell’agosto 1967.
 
[21] Oltre a Illegonda, inizialmente conteggiato come secondo della serie (AdK 16, f. 7), Bertoncini terminò solo un altro ritratto, Mariolina (1970, per la clavicembalista Mariolina De Robertis).
 
[22] Ille Strazza è stata attiva soprattutto quale interprete di musica antica (dal Medioevo al primo Seicento) in gruppi facenti base a Roma. Il marito Guido, pittore e incisore (nonché ingegnere), è stato uno dei maestri della grafica sperimentale in Italia, ma ha esposto in prestigiose sedi anche opere propriamente pittoriche; teorico e didatta, il suo Il gesto e il segno (prima edizione: Milano, Scheiwiller, 1979) ha approfondito il rapporto tra la prassi tecnico-poetica e le valenze percettive nell’arte grafica.
 
[23] [Introduzione a] Illegonda, cfr. supra nota 21, f. 1, ABCe; la formula è identica in un appunto (in AdK 80, cartellina prima f. 1).
 
[24] Per stage environment, s’intende l’allestimento dello spazio separato (stage) nel quale, secondo la griglia di Kostelanetz, possono tenersi realizzazioni di Staged Happenings o di Kinetic Environments (R. Kostelanetz, The Theatre of Mixed Means, New York, The Dial Press, 1968, pp. 3-7).
 
[25] Per un’approfondita analisi genetica degli schizzi, comparativamente con gli elementi testuali infine assestatisi, e quindi del processo compositivo (incluse le soluzioni scartate), si rinvia a: A. Mastropietro, Suono-segno-gesto: teatro musicale organico (1964-1974) di Mario Bertoncini, Lucca, LIM Libreria Musicale Italiana, in corso di pubblicazione.
 
[26] Il primo appunto al riguardo, datato 8 agosto 1967 è in ABCe, scatola «Vecchie idee», in un taccuinetto a righe (4 ff., in parte scritti r/v); esso è stato ampliato e riordinato dapprima in una versione transitoria (con un elenco provvisorio di oggetti-strumenti, è in AdK 16, f. 7), quindi nel testo qui trascritto da AdK 80, cartellina seconda ff. 1-2 (punti 1-6) e cartellina terza f. 1 (appunto di chiusura sulla «forma generale»). Le varianti autografe sono racchiuse tra slash.
 
[27] L’indicazione è già esplicita in un appunto concettuale (AdK 80, cartellina terza f. 1), ma non va intesa come imposizione di uno schema formale estraneo (dato che la forma si genera dal percorso della performer tra le stazioni), bensì come allusione alla circolarità del tragitto d’azione: la performer inizia e termina – in punti diversi della sala – con le stesse azioni minime.
 
[28] I lucidi originali sono in ABCe, assieme al già descritto dossier di spiegazione dell’esecuzione in versione inglese (introduzione più General Explanatory Notes e foglio di semiografie). Una copia dei soli fogli-partitura in stampa eliografica è presso la Biblioteca del Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro.
 
[29] Nastro non identificato in ABCe, ma – da partitura – della durata di 2’15”.
 
[30] Durata indicativa prevista: 2’30”.
 
[31] Tuttavia, la natura delle azioni notate consiglia di partire da quelle al bordo mediano sinistro, che – nelle parole pronunciate, in olandese o italiano, e negli atteggiamenti – corrispondono a una presa di contatto con l’oggetto sonoro: «God, is zo groot!»; «Che cosa ci faccio con questo?... proviamo»; percuotendo leggermente la superficie arretra spaventata e poi ripete il gesto dicendo «pianino», ecc.
 
[32] In una delle azioni prescritte, Ille tratta effettivamente il tam-tam come fosse uno specchio, afferrandolo sui bordi e osservandovi civettuola se stessa.
 
[33] AdK 80, cartellina terza, f. 3.
 
[34] La concezione spaziale della forma è stata a lungo maturata, dal compositore, in appunti concettuali del periodo, collegati soprattutto a Spazio-Tempo. Notabile è poi che proprio in Illegonda, a tale soluzione Bertoncini non sia approdato immediatamente, ma – come emerso nello studio degli schizzi autografi – scartando soluzioni più determinate (almeno nella seconda parte del brano) nell’assetto del percorso formale, e quindi del testo che avrebbe dovuto descrivere al contempo il percorso della forma e della performer nello spazio.
 
[35] A. Mastropietro, Nuovo Teatro Musicale fra Roma e Palermo, cit.; i compositori, nel contesto romano, sono Domenico Guaccero, Giuliano Zosi e Francesco Pennisi.
 
[36] Punto 6. del copione supra nel testo. Cfr. la verbalizzazione dell’idea nel primissimo appunto dell’8 agosto 1967 in ACBe: «Tutto il “gioco” sarà eseguito senza precisarlo emotivamente (né satira, né allusione, né emozione ecc.) cercando sempre la via di mezzo tra l’espressione e la meccanicità, senza concedersi mai ad alcunché di determinato. (Ricchezza simbolica, ma assoluta indeterminazione del simbolo: lo stesso vale per le strutture “montate” o preordinate)».
 
[37] E. Hanslick, Il bello musicale, trad. a cura di M. Donà, Milano, Minuziano, 1945, pp. 49-50 (ed. originale: Vom Musikalisch-Schönen, 1854).
 
[38] A. Mastropietro, Tempi di prova (1969-70), un passaggio nel (meta-)teatro della realtà di Mario Bertoncini, in Performance. Dal testo al gesto, a cura di S. Marano, Lentini, Duetredue edizioni, 2017 (e-book).
 


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BERTONCINI , SPERIMENTAZIONE , COMPOSIZIONE


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Musicologia

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