Omofonie, eterofonie, polifonie: emozioni e pratiche musicali di tradizione orale

di Giuseppe Sanfratello

 
 
1. ‘Teoria degli affetti’ e semantica della musica
 
Che la musica susciti qualcosa in chi la ascolta non è affatto una novità né un mistero. Sin dall’antichità, teorici e pensatori del calibro di Damone di Atene, Platone e Aristotele – solo per citarne alcuni – hanno sostenuto che la musica abbia la capacità di rappresentare e/o suscitare emozioni (Dahlhaus & Eggebrecht 1988, p. 26), ossia di ‘muovere gli affetti’. Questo concetto sarà poi ripreso in età moderna, a partire dalla fine del Cinquecento, attraverso un lungo processo che portò alle prime sperimentazioni del melodramma. La musica, secondo gli ‘accademici’ del tempo, aveva il potere di valorizzare il significato del testo verbale intonato e di esprimerlo ‘sonoramente’, grazie alle virtù emotive e catartiche del canto (Gallico 1991, p. 106). Riflettendo sul carattere evocativo della musica in rapporto alla ‘sonorizzazione’ delle parole, si può affermare che «il senso delle parole non è tanto denotazione oggettiva, quanto connotazione soggettiva», e l’arte dei suoni gioca un ruolo fondamentale nella realizzazione del valore sentimentale[1] del testo poetico (Carapezza 1999, p. 38). A sua volta, soltanto il linguaggio verbale può esplicitare la «rete di rimandi estrinseci» al mondo extramusicale dei concetti e degli stati emotivi, determinando un «passaggio dal proto-semantico al semantico» (Molino & Nattiez 2005, p. 350).
La questione degli affetti in musica – laddove per ‘affetto’ si possono genericamente intendere stati d’animo come l’emozione, il sentimento o l’umore – si delinea, secondo McAllester (McAllester 1971), come una specifica «esperienza elevata» universale. Allo stesso tempo, bisogna tuttavia considerare due poli opposti, due modi diversi di interpretare le risposte degli ascoltatori a un qualsiasi fenomeno di natura musicale, prendendo in esame la tradizione eurocolta. Da un lato abbiamo l’approccio speculativo che vede la musica come una disciplina astratta fondata sui numeri, dall’altro, una visione focalizzata più sulla esperienza affettiva e morale (Molino & Nattiez 2005, p. 347).
Diverse sono le discipline che nel corso della storia si sono interrogate sul rapporto tra pratiche musicali ed emozioni, e gli ambiti d’indagine sono tra i più disparati (filosofia, psicologia, semiotica, neuroscienze e scienze cognitive). Gli studi di psicologia e, in particolare, di psicologia della musica, suggeriscono che in effetti sia possibile associare una sensazione sgradevole a un suono o a un timbro stridente, o a un accordo tensivo, dissonante; allo stesso modo, ci capita spesso di percepire il movimento di una struttura musicale a partire dalle sue configurazioni ritmiche o dalla natura acustica del suo profilo melodico – che secondo la teoria del contorno veicolerebbe espressioni emotive umane (Meini 2020) –, di provare a discretizzare le voci all’interno di un procedimento polifonico, o di qualificare lo ‘spessore’ di un suono – acuto o grave – a partire dalla percezione della sua altezza, ossia della frequenza dell’onda sonora che lo ha originato (Sloboda 1998). È stato infatti dimostrato che l’associazione di un suono a un significato (o a un insieme di essi) si verifica in maniera automatica all’interno della corteccia temporale associativa entro le prime centinaia di millisecondi dell’ascolto di una frase musicale (Schön et al. 2018, p. 80).
Tra gli studi di neuroscienze, ricordiamo il contributo di Antonio Damasio (Damasio 1994) a sostegno di una prospettiva ‘culturale’, più che ‘naturale’, delle emozioni che entrano in campo quando si pensa al ruolo della musica; diversamente da quanto si possa ricavare da qualsiasi teoria ‘universalista’, Damasio distingue in modo chiaro tra emozioni primarie e secondarie (dette anche ‘complesse’), e secondo la sua interpretazione, le ‘emozioni musicali’ rientrerebbero nel secondo insieme, in quanto «poggiano sui legami progressivamente stabiliti fra le emozioni primarie [innate, che innescano reazioni fisiologiche caratteristiche] e le diverse categorie di oggetti e situazioni che l’esperienza presenta» (Molino & Nattiez 2005, p. 349). Da ciò ne deriva che gli affetti umani siano da considerare fenomeni complessi, e che non si può in alcun modo parlare di ‘emozioni globali’ ma di esperienze legate a uno specifico sistema culturale di riferimento. Infatti, è proprio nella cultura delle comunità umane che ‘organizzano il suono’ – per dirla con Blacking (Blacking 1986) – che la musica trova la sua funzione e il suo posto d’onore, e il linguaggio fatto di parole ne permette una ‘semantizzazione’, nonché una complessa formalizzazione di sistemi teorici.
Dal punto di vista strettamente antropologico, ci si potrebbe chiedere ‘perché’ noi esseri umani ‘facciamo’ musica. Un aspetto da prendere in esame trattando questo tipo di riflessione è sicuramente quello dell’intenzionalità: qualsiasi pratica musicale implica un atto di «costruzione intenzionale», ossia un atto di «creazione che attualizza un’intenzione» (Arom 2000). Si tratta di riconoscere uno scopo e di condividerlo tra gli agenti che ‘fanno’ quella musica e i membri della loro cultura, all’interno di una cornice ben definita che è quella del ‘gioco sonoro’, un gioco che coinvolge chi fa/ascolta quella musica e conduce a una «reazione estetica» (Eco 1989), attraverso una serie di operazioni che contribuiscono alla creazione dell’identità comunitaria. Questo avviene perché quando «un evento musicale preveda la presenza di due o più individui, trattandosi anche di un semplice canto eseguito all’unisono, esso richiede una modalità di coordinamento» (Arom 2000, p. 28). La musica, in tal senso, si configura come una pratica sociale e il suono può essere inteso «come una materica concretezza attraverso cui si rende visibile un gioco di forme» (Serra 2008, p. 10), un gioco regolato da precise norme interne e condivisibili, che legano profondamente l’uno all’altro nel corso dell’elaborazione della performance e nell’orizzonte dell’ascolto partecipato. In altre parole, si (ri)crea l’identità collettiva a partire da una costruzione simbolica intenzionale, partecipata e organizzata che coinvolge i singoli individui di una comunità.
 
 
2. Forme simboliche e comportamento musicale
 
L’espressione ‘forma simbolica’ in riferimento alla pratica musicale viene proposta per la prima volta da Jean-Jacques Nattiez – ereditata a sua volta da Jean Molino (Molino 1975) – in un suo fondamentale studio di semiologia della musica (Nattiez 1989). Il tema del simbolismo musicale è stato inoltre trattato da diversi studiosi[2] dai cui contributi emerge, tra le altre questioni, che la rappresentazione simbolica sembra essere una funzione propria della musica. Quest’ultima asserzione è inoltre corroborata lapidariamente dal contributo scientifico di Alan Merriam agli studi di antropologia della musica, secondo cui «la musica funziona in tutte le società come rappresentazione simbolica di qualcos’altro: idee o comportamenti» (Merriam 1983, p. 226).
Nell’ambito della ricerca etnomusicologica, le pratiche musicali sono considerate un forte elemento simbolico di coesione del gruppo sociale che le produce, attraverso varie modalità espressive come il canto, la musica strumentale e/o la danza. La rappresentazione simbolica dell’identità individuale e collettiva in un contesto di musica tradizionale si realizza attraverso il comportamento degli esecutori che formano un gruppo, per mezzo di processi performativi proprî del musicking (Small 1998), del ‘saper fare musica’ e del saperla fare ‘insieme’ (Merriam 1983; Magrini 2002). Si tratta di un sapere pratico, di un’attività sapiente messa in gioco grazie alla compartecipazione dell’esercizio della memoria orale e dell’esecuzione sonora – sia essa vocale o strumentale – prodotta e fruita nell’ambito di uno specifico contesto performativo.
 
 
3. Omofonie, eterofonie, polifonie
 
Per poter affrontare il tema del rapporto tra pratiche musicali di tradizione orale ed emozioni è necessario introdurre e contestualizzare alcuni termini specialistici, a partire proprio da quello di ‘tradizione’. Volendo evitare di incorrere nel rischio di fornire definizioni granitiche, ne propongo una che sostiene gran parte delle premesse teoriche fin qui esposte:
 
Tradition might be seen as the process of transmission, within a community that identifies itself as such, of a specific knowledge and of relatively stable forms of behaviour. These define ‘symbolic communities’ which […] are ‘groups of individuals sharing some relatively stable features of language and culture, i.e. relatively stable features of their symbolic organisation systems’. Traditional music is a symbolic production, which – like language for a given community – is transmitted from mouth to ear, from generation to generation, and represents a major constituent of the group’s cultural identity. (Arom 1994, p. 137).
 
Al concetto di ‘tradizione’, Arom accosta quello di ‘trasmissione’, per sottolineare la natura comunicativa, ‘di contatto’ tra le varie generazioni, un veicolo che ha permesso a una data pratica, consuetudine o azione rituale di consolidarsi nel tempo e nello spazio, come ‘forme relativamente stabili di comportamento’. Le ‘comunità simboliche’ – ossia qualsiasi comunità umana – nel condividere ‘linguaggio e cultura’ fissano nel loro immaginario le coordinate e gli elementi utili alla costruzione di ‘sistemi simbolici di organizzazione’, proprio perché – e Arom lo scrive espressamente – la musica tradizionale è una «produzione simbolica», una componente fondante e fondativa dell’identità culturale di un gruppo, di una collettività.
Le pratiche musicali che analizzerò necessitano inoltre di essere precedute da una breve esplicazione di alcuni termini musicologici: omofonia, eterofonia, polifonia. Per ‘omofonia’ (dal greco homós, identico; phōné, suono, tono o voce) si intende generalmente l’esecuzione di parti melodiche che si muovono insieme – non necessariamente all’unisono – e che condividono lo stesso ritmo; in questo caso specifico si parla di ‘omoritmia’ (Hyer 2001).[3] Con ‘eterofonia’ (dal greco héteros, diverso; phōné, suono, tono o voce) si fa riferimento a un tipo di tessitura caratterizzata dalla variazione simultanea di una singola linea melodica, elaborata da più voci talvolta mediante l’uso di abbellimenti. Nella sua configurazione ritmica risultano frequenti sfasamenti – rispetto all’assetto verticale delle voci – e alcune varianti melodiche (Arom 2005). In questo senso, l’eterofonia potrebbe essere vista come una sorta di tecnica per arricchire un’idea melodica di base, sia essa involontaria o volontaria. Infine, il termine ‘polifonia’ probabilmente non ha bisogno di una presentazione. Tuttavia, l’esistenza di uno ‘Study Group’ attivo nell’ambito degli studi e delle ricerche dell’ICTM (International Council for Traditional Music) che usa l’espressione ‘multipart singing’ – escludendo volutamente altri possibili lemmi quali ‘polyphony’ o ‘polyvocality’ – ci suggerisce che, decisamente, con ‘polifonia’ si potrebbe fare riferimento a uno spettro più ampio di significati. Infatti, con ‘multipart singing’, traducibile in italiano con ‘canto a più parti’ si intende descrivere – in modo neutro – la «compresenza di ‘parti’», considerando non solo le ‘parti vocali’ eseguite ma le persone stesse che interagiscono, evitando in questo modo qualsiasi connotazione di carattere storico-culturale del termine ‘polifonia’, che rimanda alla prospettiva della musica eurocolta, spesso connessa al fenomeno della trasmissione scritta attraverso le fonti musicali antiche (Macchiarella 2009, 2011, 2012). In sintesi, con questa prospettiva ampia, per ‘polifonia’ si intende qualsiasi tipo di manifestazione musicale non monodica ma ‘plurilineare’, a prescindere dalla sua modalità esecutiva. Questa definizione è ben conosciuta nell’ambito dell’etnomusicologia italiana, e riconosce nella ‘polifonia’ una «modalità espressiva basata sulla combinazione simultanea di parti distinte (vocali, strumentali o con voci e strumenti insieme) percepite e prodotte intenzionalmente nella loro differenziazione reciproca, in un assetto formale determinato» (Agamennone 1996, p. 3).
 
 
4. Melodie eterofoniche di idee omofoniche
 
Il rizìtiko è un genere di canto della tradizione musicale cretese privo di accompagnamento strumentale praticato esclusivamente da uomini (rizìtes, ossia ‘cantori di rizìtiko’). È diffuso perlopiù nella parte occidentale di Creta (Nomòs Chanìon, o Prefettura di Chanià), dove viene tramandato da secoli. Il termine rizìtiko, deriva dal sostantivo femminile singolare rìza che significa ‘radice’, ma anche dal neutro plurale ta rizà: ‘falde’, ‘piedi’ – sottinteso – della montagna. Dunque, rizìtiko sarebbe un aggettivo, come a dire di qualcosa ‘relativo alle radici’, o semplicemente ‘delle radici’ (dei monti), e rimanda al contesto geografico entro cui il canto si è sviluppato: i villaggi ai piedi della montagna.[4]
Le tecniche tipiche della performance orale, dell’improvvisazione e rielaborazione di testi tradizionali così come della ‘frammentazione’ dello stesso testo poetico, vengono impiegate nel rizìtiko quali codici di rappresentazione simbolica che rafforzano il legame dei cantori. I testi dei canti rizìtika, che furono per lungo tempo tramandati oralmente, presentano una singolare modalità di versificazione. Vi è, innanzitutto, una macrostruttura testuale, cioè una sequenza di un numero variabile di ‘versi politici’[5] (da un minimo di 4-5 versi, fino a un massimo di 25 o poco più), che viene ridotta a una serie di microstrutture elaborate «in conformità con l’organizzazione melodica del canto» (Magrini 2002, p. 142). Partendo dalla macrostruttura, la prima strofa è formata dal primo verso e dal primo emistichio del secondo verso; la seconda strofa riprende l’emistichio appena interrotto e lo completa col secondo emistichio, aggiungendo il primo emistichio del terzo verso, e così via. Tutte le strofe sono organizzate secondo questo schema: ogni strofa contiene, dunque, tre emistichi e ognuna inizia con la ripetizione dell’ultimo emistichio della strofa precedente. In questo modo, tutte le strofe sono concatenate fra loro. È interessante notare che, all’interno delle singole strofe, gli emistichi sono ulteriormente elaborati, attraverso processi di frammentazione e ripetizione, per cui «il canto non risulta basato su sequenze isosillabiche di versi politici, bensì su sequenze eterosillabiche desunte dalla scomposizione di questi e dalla ricomposizione di nuove unità poetiche» (Magrini 1982, p. 52). Il testo originale viene così riplasmato attraverso un processo performativo che dà luogo a una asimmetria tra ‘strofa’ e ‘frase musicale’, perché, mentre quest’ultima sembra morfologicamente coerente e compiuta – nel ripetersi in modo strofico –, la struttura semantica del testo viene sgretolata dalla stessa frammentazione formale dei versi.
Potremmo dire che, nel rizìtiko, la musica sembra costringere la parola all’interno di una formula rigidissima: un vincolo sonoro che produce la frantumazione del linguaggio. Valga da esemplificazione il seguente schema, che riporta uno dei testi tra i più noti, Kosme chrisè, kosme arghirè, un canto emblematico della concezione ‘tragica’ della vita, particolarmente sentita presso i cretesi, ma in realtà fondante dell’intera cultura greca, sia nella sua dimensione popolare, sia nella sua versione colta:
 
Traslitterazione del testo:[6]
Kosme chrisè, kosme arghirè, kosme malamatènie,
kosme, kiè piòs se chàrike, kiè piòs tha se kerdhèsi, psefti kosme?
Kosme m’egò se chàrika, ma dhe tha se kerdhèso, psefti kosme.
Pezòs edhiàvi ta vunà, stsi kambus kavalàris dhiomatàris.
Traduzione:
Mondo che d’or si tinge, mondo d’argento, o mondo argenteo
mondo, e chi di te ha mai goduto, chi suo ti farà, o mondo ingannatore?
Mondo, di te ho goduto, ma mio non ti farò, o mondo ingannatore.
A piedi ho attraversato i monti; a cavallo, viandante, i campi.
Frammentazione ed elaborazione del testo nelle strofe:
Kosme chrisè, kosme arghirè, kosme mala amatè malamatènie |
kosme, kiè piòs kosme | kiè piòs se chàrike, |
kiè piòs tha se (e) kerdhèsi, psefti kosme? |
kosme kiè piòs se chàrike kiè piòs tha se (e) kerdhèsi, psefti kosme? |
Kosme, m’egò kosme | m’egò se chàrika |
ma dhe tha se (e) kerdhèso, psefti kosme |
ma egò kosme se chàrika ma dhe tha se (e) kerdhèso, psefti kosme |
Pezòs edhià[…] pezòs | edhià vi ta vunà |
stsi kambus ka–avalàris dhiomatàris. |
 
Dai versi iniziali si può ottenere un numero variabile di strofe (in questo caso specifico tre), in base alla lunghezza e alla conseguente elaborazione del testo, uno sviluppo che tiene conto della melodia tradizionale e delle variazioni proprie della performance orale. Dall’esecuzione delle strofe si evince un’ulteriore frammentazione del testo per cui, generalmente, viene lasciata una frase o una parola a metà per ripetere quelle precedenti, e quando lo sviluppo verbale giunge nuovamente al ‘punto di rottura’, questa viene ancora interrotta, ripetuta e poi conclusa. Le modalità di frantumazione e ripetizione del testo sono costanti nelle strofe di uno stesso canto, ma variano all’interno di altri canti che presentano altri testi. Inoltre, esistono tante modalità di organizzazione del testo verbale quante sono le melodie impiegate in questo repertorio, ma tutti i canti vengono eseguiti attraverso questa tecnica performativa.
La realizzazione sonora del testo di un canto rizìtiko è, dunque, complessa: essa richiede un’estrema precisione nei processi di memorizzazione e di ri-organizzazione formale, in cui «il ricordo riveste una funzione determinante, la mnemotecnica diventa una necessità. Il verso è un segmento di queste ‘tecniche della memoria’ adottate per poter conservare e tramandare» (Carpitella 1994, p. 9). Avendo struttura strofica, questi canti richiedono la ripetizione di una stessa melodia per tutte le strofe, pertanto, è possibile che nelle diverse ripetizioni si verifichino delle microvariazioni in ordine alle altezze, alle durate, all’ornamentazione e anche alla presenza di note di passaggio o appoggiature. Tra le caratteristiche fondamentali delle circa quaranta melodie dei rizìtika individuate, spiccano gli abbellimenti vocali, che costituiscono il sistema di decorazione come elemento strutturale del canto. Un bravo cantore di rizìtiko, oltre che per l’abilità di improvvisazione (così come avviene anche nell’esecuzione delle mandinàdhes)[7] e per la potenza della voce, è giudicato in base alla sua capacità di eseguire la melodia secondo uno specifico ‘sistema decorativo’, in relazione anche al contesto e all’occasione esecutiva. L’aspetto del ritmo è tanto interessante quanto impegnativo da analizzare; i cantori intonano i testi facendo uso di formule ritmiche molto libere, in cui l’aspetto agogico è marcato da ‘rubati’, ‘accelerazioni’ e ‘ritardi’.
Questa rassegna di informazioni tecniche sul rizìtiko ci fornisce gli strumenti ermeneutici per proseguire con l’approfondimento del nostro tema centrale: la rappresentazione delle emozioni nelle pratiche musicali di tradizione orale.
La funzione sociale del canto rizìtiko determina il suo contesto esecutivo: esso infatti è concepito per essere eseguito in determinate occasioni di aggregazione comunitaria. Da queste occasioni derivano due principali categorie e, di conseguenza, due particolari tipologie di repertorio: a) il rizìtiko ‘della strada’ (tis stràtas); b) il rizìtiko ‘della tavola’ (tis tàvlas).[8] Il primo è eseguito in occasioni processionali e ancora oggi è possibile rilevarlo principalmente nel rito del matrimonio (in questo caso si parla di ‘tragùdhia tu gamu’, ossia ‘canti del matrimonio’). Il rizìtiko ‘della tavola’, invece, è legato a occasioni conviviali (anche quelle che si collocano al di fuori del rito matrimoniale). Rispetto all’altro tipo, questo repertorio è più vario perché adotta un numero ampio di modelli melodici distinti.
Entrambe le tipologie di canto rizìtiko sono costituite da una prassi esecutiva comune: un solista (o un primo coro) propone un verso e nello stesso momento in cui sta concludendo l’intonazione delle sillabe dell’ultima parola, interviene un (secondo) coro che risponde in modo antifonale, cantando lo stesso verso o frammento appena proposto. Questa tecnica può essere considerata come una specie di ‘polifonia eteroritmica’, come una ‘sovrapposizione’ o ‘tuilage’,[9] prendendo in prestito un termine usato da Arom nel suo studio sulle polifonie e poliritmie di etnie dell’Africa Centrale. Serena Facci puntualizza che «il termine tuilage è efficace ma difficilmente traducibile in italiano; la sovrapposizione tra l’incipit di una parte e la cadenza di un’altra ricorda in effetti la disposizione delle tegole» (Facci 1991, p. 231). Questo fenomeno si riscontra frequentemente nella prassi esecutiva del canto rizìtiko, in cui il coro ripete il verso cantato dal solista cominciando la sua frase melodica prima ancora che l’altro abbia terminato.
Come risultato di questo processo di ‘sovrapposizione’, ma anche di sfasature temporali e divergenze melodiche (Arom 2005, p. 1067), emerge un aspetto molto importante del rizìtiko: la risposta-ripetizione del verso poetico da parte del coro, che è anticipata rispetto a quello che potremmo definire ‘ictus’,[10] produce una ‘anacrusi’ percepibile più che altro come una specie di spostamento ritmico, che si riverbera per tutto il tempo dell’esecuzione del canto. Gli interventi degli esecutori (‘solista’ + ‘coro’, o ‘primo coro’ + ‘secondo coro’) sono dunque collegati tramite un processo quasi ‘osmotico’, un passaggio significativo di consegne che si verifica all’interno del continuum spazio-temporale. In breve: ogni intervento di risposta del coro ha il suo incipit sovrapposto alla cadenza dell’intervento precedentemente proposto dal solista (o dal primo coro). Ciò che si viene a creare è una successione del tipo mostrato nel seguente diagramma:[11]
 
 
A questo punto, è necessario anche trattare la questione della ‘esatta’ intonazione dei canti: mi riferisco all’interessante ‘tendenziale omofonia’ raggiunta da tutti i partecipanti durante i loro interventi di risposta corale al canto intonato da un solista:
 
Nelle più rilevanti occasioni di canto, nei banchetti nuziali cui partecipano centinaia di invitati, si realizza una accentuata eterofonia e, da un lato all’altro delle lunghe tavolate, gli esecutori – i parenti e gli invitati di sesso maschile che realizzano collettivamente il canto – possono trovarsi anche a considerevole distanza. Non va comunque dimenticato che, in assemblee più ridotte, i cantori raggiungono un assieme molto più compatto e per questo ci sembra giusto parlare di una tendenziale omofonia come modello di riferimento per gli stessi esecutori (Magrini 1982, 51).
 
Il gruppo, la parèa[12] di sole voci maschili, nell’intonare i canti non raggiunge mai l’unisono, perché ciascuno degli esecutori partecipa con la sua intonazione propria, quasi a voler determinare un carattere distintivo della voce tale da non farla perdere nell’esecuzione corale, quasi in modo che questa si distingua dalle altre. Tuttavia, a un orecchio troppo ‘occidentale’ la percezione di questi canti potrebbe risultare sgradevole, in quanto le voci dei cantanti non producono né unisono né polifonia, ma delle «melodie eterofoniche di idee omofoniche» (Hnaraki 2011, 3). Originariamente l’‘idea’ della melodia del canto – e anche il modo peculiare con cui viene percepita dagli stessi esecutori – è omofonica, per questo sembra corretto parlare di una ‘tendenziale omofonia’. Nell’ascolto di questi canti, si può assistere alla produzione di una serie di microvariazioni delle altezze per cui si raggiunge (o forse ci si allontana da) una certa ‘intonazione’. Questo può essere interpretato come un sottile passaggio ‘dal collettivo all’individuale’, poiché il brano che è stato intonato dal solista viene sì recepito da tutta la parèa ma percepito individualmente. Vi è anche un ritorno ‘dall’individuale al collettivo’, non appena gli elementi tradizionali del canto vengono elaborati e interpretati dal singolo, secondo un codice esecutivo ben definito da cui poi risulteranno melodie eterofoniche di idee ‘originariamente’ omofoniche.
La tecnica iterativa del canto, ossia la ripetizione testuale nella dialettica ‘solista – coro’, sembra essere collegata al modo in cui avviene la partecipazione emotiva dei singoli cantori all’interno del gruppo; questo insieme di individui presenta delle condizioni psicologiche comuni, compresa la necessità di raggiungere e manifestare la presenza di contatti e di accordi emozionali. In questo senso, possiamo chiamare tale fenomeno ‘iterazione in consonanza’, per sottolineare la ricerca di relazioni all’interno del gruppo attraverso la ‘risonanza collettiva’ dei membri dello stesso in un’azione comune. Questa forma di comunicazione evidenzia, il valore emozionale dello stare insieme e dell’assumere un comportamento simbolico.
Lo studio del comportamento musicale offre un’interessante prospettiva d’indagine che analizza la figura del cantore-esecutore, descrivendolo come il ‘protagonista’ di questa prassi esecutiva: il ‘music maker’, per usare il termine inglese in sostituzione del suo equivalente italiano, ‘produttore di musica’. L’attività performativa dell’esecutore è fondata sulla riproduzione di ‘oggetti sonori’ e la disponibilità di questi è intesa dal produttore come possibilità di (ri)eseguire qualcosa che è stato memorizzato, cioè di ‘ricordare’ oggetti sì predeterminati ma che sono esclusivamente ‘oggetti mentali’, data l’assenza di una forma prescrittiva (Magrini 1992). Eseguire e ‘ricordare’ sono due azioni complementari nella (ri)produzione di un ‘oggetto sonoro’ che è appartenente a una tradizione orale. In tal senso, la pratica musicale si presenta come «un oggetto rappresentazionale aperto, un contenitore di rappresentazioni non definite» (Schön et al. 2018, p. 98), e questo si verifica perché quasi tutte le musiche tradizionali sono caratterizzate dalla trasmissione orale, e di conseguenza «la memoria gioca un ruolo fondamentale» (Arom 1994, 137).
I temi dei canti rizìtika sono diversi: l’amore, l’esilio, l’argomento pastorale, l’esaltazione dell’amicizia, l’odio per il nemico, etc.; vengono eseguiti anche per onorare un ospite, in onore di un santo (durante una festa religiosa locale, i panighìria), e per la contemplazione della morte – tema ricorrente nella «poetica della virilità» (Herzfeld 1985). Tutto ciò spiegherebbe, dal punto di vista antropologico, il comportamento musicale dei cantori di questo repertorio: fra gli altri elementi, la forma antifonale crea dei legami e dei vincoli emotivi di affinità e difesa all’interno del gruppo sociale. Così il rizìtiko, alla luce dello studio di Merriam sulle funzioni della musica, contribuisce all’integrazione sociale e soddisfa il bisogno di partecipare a qualcosa di familiare, nel dare all’individuo la certezza di appartenere ad un gruppo i cui componenti condividono gli stessi valori, le stesse emozioni, modi di vita e forme artistiche (Merriam 1983, 228).
La rappresentazione simbolica dell’identità nella parèa si realizza grazie al comportamento stesso dei performers, giacché si tratta di una pratica di ostentazione di virilità e mascolinità, inserita all’interno di un contesto performativo quale è quello del ‘saper fare musica’, dell’avere una voce bella e forte, e del ‘conoscere bene i canti’. Poiché il «comportamento umano produce musica» (Merriam 1983, 24), possiamo assegnare un ruolo fondamentale a questo ‘saper fare’ quale dimostrazione del fatto che l’individuo è ‘uomo forte e valoroso’. Questi rapporti d’alleanza vengono ritualmente stabiliti e formalizzati durante momenti di festa, per esempio durante un matrimonio, un battesimo, un panighìri (l’anniversario di un santo); tutto ciò implica l’esecuzione di canti particolari e di danze, dunque, la creazione di un ambiente e di elementi ‘rituali’ attraverso cui vengono assegnati e rappresentati nuovi ruoli sociali. In questi contesti – e secondo i codici comportamentali assunti all’interno del ‘gruppo’ – non è tanto importante «essere un brav’uomo» quanto, essere «capace di essere un uomo» (Herzfeld 1985, 16). Il ‘saper fare musica’ qui comprende, allora, un campo più vasto di accezioni rispetto alla mera attività pratica del cantare o suonare: ‘fare musica’ significa avere «una profonda percezione di una vasta gamma di problematiche esistenziali, così come delle dinamiche fra individuo e gruppo, e del rapporto fra tradizione e creatività» (Magrini 2002, 227).
Nell’ambito di occasioni processionali e/o conviviali, questi canti accompagnano così la vita del popolo cretese, andando per via o sedendo a un banchetto, durante gli incontri della parèa o nelle feste di matrimonio, come luoghi privilegiati di una cultura tradizionale in cui «il cibo e il canto costituiscono i due poli di uno scambio cerimoniale ampiamente formalizzato» (Giallombardo 2003, 27). Ancora, la tradizione musicale, quale comportamento simbolico e rappresentazione di «altre cose» (Merriam 1983, 235), diviene uno strumento essenziale dell’esistenza dell’individuo, così come della collettività, e viene interpretata dagli stessi performers come efficace simbolo della loro identità e del loro valore.
5. Appunti preliminari su un repertorio ‘a più parti’
Quanto detto finora riguardo al rizìtiko – specialmente per quel che concerne il rapporto tra performance musicale e rappresentazione delle emozioni –, si può applicare a grandi linee anche a un altro campo di indagine sulla musica tradizionale greca, pertinente a una regione che si trova più a nord, in una posizione strategica nel bacino del Mediterraneo orientale, al crocevia tra l’Italia meridionale, l’Albania, l’Epiro e il Peloponneso: Zante, o Zakynthos – insieme a Corfù e a Cefalonia – è l’oggetto di interesse primario all’interno di una mia indagine attualmente in corso, riguardante lo studio dei canti ‘polifonici’ di tradizione orale delle Isole Ionie, sia di ambito profano che di ambito sacro.
Alcune tecniche della performance orale presenti nel canto rizìtiko, es. l’elaborazione o la ripetizione di frammenti del verso poetico che lo compone, sono riscontrabili anche nel repertorio delle arekies di Zante. Dal punto di vista performativo, l’arekia[13] è una tipologia di canto caratterizzata dall’esordio del solista e dall’entrata ritardata delle altre voci, che la accompagnano ‘ad accordo’. Si tratta di un canto ‘polivocale’ omofonico a 3-4 voci maschili, eseguito ‘a cappella’, armonizzato su un testo dal numero variabile di versi organizzati in distici. La denominazione delle diverse parti vocali fa riferimento ad aggettivi numerali ordinali o a termini musicali italiani, dalla voce più acuta alla più grave: il primos (primo tenore), il sekondos (secondo tenore), il tertsos o varìtonos, e – se è prevista una quarta voce – il basos (la più grave).
Le arekies rientrano fra i generi popolari tipici delle aree urbane di Zante e l’esempio specifico che presentiamo appartiene al repertorio dei canti d’amore: Dhìo ìlii dhìo fengària (it. ‘Due soli, due lune’).[14] Secondo gli esecutori, il brano in questione appartiene al repertorio tradizionale del XIX secolo; presenta una struttura strofica organizzata in distici ed è tradizionalmente eseguito ‘a cappella’, cioè senza l’accompagnamento di strumenti musicali (come molte altre arekies della tradizione di Zante).
Di seguito viene riportata la traslitterazione e la traduzione in italiano di questa arekia, per evidenziare la struttura e l’elaborazione del testo poetico:
 
Traslitterazione del testo:
Dhìo ìlii dhìo fengària, dhìo ìlii dhìo fengària,
dhìo ìlii dhìo fengària lambùne sìmera.
To èna sto pròsopò su, to èna sto pròsopò su,
to èna sto pròsopò su, t’àllo sta sìnnefa.
Mu thàboses to fos mu, mikrò kiè nòstimò mu,
me thàboses to fos mu kiè de’ borò na idhò.
Fìla me esì sta chìli, fìla me esì sta chìli,
fìla me esì sta chìli ki’egò sto màgulo.
Traduzione ed elaborazione del testo nei distici:
Due soli due lune | due soli, due lune |
due soli, due lune | brillano oggi.
Uno brilla sul tuo viso | uno brilla sul tuo viso |
uno brilla sul tuo viso | l’altro sopra le nuvole.
Hai abbagliato (oscurato) la mia piccola e delicata luce |
hai abbagliato la mia luce | e non riesco più a vedere.
Baciami sulle labbra | baciami sulle labbra |
baciami sulle labbra | e ti bacerò sulla guancia.
 
La funzione sociale delle arekies, come nel rizìtiko ‘della tavola’, si manifesta oggi nelle occasioni conviviali. La prassi esecutiva prevede di solito che il solista, detto primos, intoni l’incipit di ciascun verso del brano, mentre le altre voci (in genere tre) si aggiungono simultaneamente su una sillaba specifica dell’incipit e accompagnano la melodia del primos fino alla fine di ogni distico, tracciando un disegno ‘polifonico’, o meglio un intreccio (‘multipart singing’) caratterizzato dal linguaggio accordale. Questa trama ‘plurilineare’ o ‘a più parti’ determina (e al tempo stesso è determinata da) «un’interazione ordinata e simultanea tra i partecipanti, con una distribuzione dei ruoli», tipica di questa tipologia di repertorî (Arom 2000, 28). Come nel caso del canto rizìtiko, i performers condividono ‘contatti e accordi emozionali’ attraverso la ‘risonanza collettiva’ delle loro voci, per esaltare il valore emozionale dell’assumere ‘in gruppo’ un comportamento simbolico. Anche qui, l’azione del cantare o del ripetere insieme le stesse parole accomuna gli individui partecipanti e ne simboleggia il rapporto reciproco che si crea e si sviluppa nel corso dell’azione cerimoniale.
 
 
6. Conclusioni
 
I due casi studio qui analizzati, il rizìtiko cretese e le arekies di Zante, come abbiamo visto, sono emblematici di una produzione performativa di ‘melodie eterofoniche di idee omofoniche’, da un lato, e di un linguaggio polifonico accordale, dall’altro, caratterizzati entrambi dallo scambio antifonale solista-coro, mediante un gioco sonoro che soddisfa pienamente l’orizzonte delle attese (Sbardella 2014). La musica – sia essa colta o popolare, scritta o di tradizione orale – si sviluppa nel tempo e la sua natura cangiante, caratterizzata dalle sue forme ‘sonore’ in movimento, crea certamente delle attese negli ascoltatori, un orizzonte simbolico intimamente legato alle emozioni (Meyer 1992). Infine, i performers dei repertorî musicali analizzati presentano condizioni psicologiche comuni, che vale la pena richiamare: il valore emozionale dello stare insieme, la costruzione simbolica di relazioni interne al gruppo grazie alla ricerca di una ‘risonanza collettiva’, e la necessità di manifestare scambi e accordi emozionali, per mezzo di una rappresentazione dell’identità individuale e collettiva favorita – come detto in precedenza – dal ‘saper fare musica’ e dal saperla fare ‘insieme’.
 
 
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[1] Non è certamente questo il luogo per aprire una discussione sugli eventuali ‘contenuti sentimentali’ della musica (Hanslick 2001), né tantomeno sui concetti di musica ‘buona’ e musica ‘cattiva’. Ciononostante si rimanda alla lettura del fondamentale lavoro di Carl Dahlhaus ed Hans Heinrich Eggebrecht, ancora oggi un classico della musicologia europea; l’emozione (insieme a mathesis e tempo) viene descritta come uno dei caratteri essenziali per definire il ‘concetto di musica’ (occidentale), e più specificatamente, si rinvia alla riflessione dei due autori sul «giudizio sensibile o estetico» e il «giudizio cognitivo o astratto» (1988: 59).
 
[2] Solo per citarne alcuni: Schneider 1979, 1986; Cano 1985; Collisani 1988; Bonanzinga 1993, 1997, 1999, 2004; Giannattasio 1998; Nattiez 2003; Bohlman 2005; Serra 2005. Per un approfondimento sull’etnografia del suono come sistema culturale o «sistema di simboli», cfr. Feld 2009.
 
[3] Diversamente dalla pratica diffusa nell’antica musica greca, in cui l’omofonia era caratterizzata perlopiù da una singola melodia eseguita da due o più voci all’unisono o all’ottava.
 
[4] Per un approfondimento completo sulle origini e le forme di questo repertorio, cfr. Sanfratello 2017.
 
[5] Caratteristici dei testi della produzione poetica greca in lingua demotica, detti anche ‘decapentasillabi’, formati cioè da quindici sillabe, nel caso del rizìtiko articolate in due emistichi (8+7), in cui il primo può suddividersi in due parti (4+4) e la penultima sillaba è spesso accentata.
 
[6] Per la traslitterazione del testo greco, si è ritenuto più congruo adottare la trascrizione ‘u’ per il dittongo greco ‘ou’; la trascrizione ‘k’, ‘g, ‘ch’ per ‘κ’, ‘γ’, ‘χ’ seguiti da fonema ‘a’, ‘o’, ‘u’; la trascrizione ‘j’ per ‘γ’ seguito da fonema ‘e’, ‘i’; la trascrizione ‘dh’ per la spirante ‘δ’. La traduzione dei testi dal greco è dell’autore. Per accedere al video del canto in questione raccolto sul campo, cfr. nota 11.
 
[7] Il termine mandinàdha deriva dall’italiano matinàda (mattinata), risale al periodo della dominazione veneziana e si riferisce probabilmente ad un componimento poetico musicale che veniva eseguito nelle prime ore del mattino (Hnaraki 2007, p. 164). Le mandinàdhes sono dei canti monodici, di tipo lirico, basati su distici di ‘versi politici’ improvvisati, ed insieme al rizìtiko costituiscono un repertorio vocale rilevante nella tradizione musicale cretese.
 
[8] Feast-songs: ‘canti della festa’. Classificandoli così, Maria Hnaraki ridefinisce il loro significato intrinseco, nonché il valore funzionale, all’interno di un contesto festivo (Hnaraki 2011, p. 5).
 
[9] Derivato dal sostantivo femminile francese tuile che significa ‘tegola’. Tuilage è la tecnica di installazione, dunque di sovrapposizione, delle tegole sul tetto di un qualsiasi fabbricato.
 
[10] Interpretiamo qui la pratica del rizìtiko usando alcuni termini della teoria musicale eurocolta.
 
[11] Per rendere graficamente gli interventi vocali degli esecutori ho usato le seguenti abbreviazioni: A, B, C indicano le strofe, (s) e (c) significano rispettivamente ‘solista’ e ‘coro’ e le lettere ‘α’ e ‘ω’, indicano l’inizio e la fine dell’esecuzione di una strofa, disposte in modo appositamente sfalsato per visualizzare il concetto di ‘sovrapposizione’ (tuilage) esposto sopra. A titolo esemplificativo, a parte le registrazioni audio disponibili in Sanfratello 2017, per accedere al materiale audio-visivo raccolto sul campo (copyright dell’autore) si rinvia al mio canale YouTube tramite il seguente link: https://youtu.be/YT79JjEhPVw.
 
[12] Dal greco παρέα, che significa ‘compagnia’, ‘comitiva’, ‘gruppo di amici’.
 
[13] L’etimologia del termine arekia può essere ricondotta alla locuzione italiana ‘a orecchio’, forse giunta nelle Isole Ionie tramite il dialetto veneziano, per descrivere una prassi esecutiva – vocale o strumentale – di tradizione orale (Raftopoulos 1997). Ciononostante, la questione è ancora da approfondire.
 
[14] Per accedere al materiale audio-visivo relativo a questo esempio musicale (copyright dell’autore) raccolto sul campo nel 2016, si rinvia al mio canale YouTube tramite il seguente link: https://youtu.be/muH0Yxaw3qc.
 


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OMOFONIE , TRADIZIONE ORALE , PRATICHE MUSICALI


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Musicologia

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