Emozioni e sensi spirituali in musica per viam pulchritudinis. Con una proposta laboratoriale

di Valerio Ciarocchi

 
 
 
Premessa
 
L’emozione è componente fondamentale in musica: per chi compone, esegue e ascolta. Ernst Kurth parla di spazio emotivo della musica,[1] fondato sull’espressione emotiva della musica assoluta (Wellek).[2] Oltre il piano dell’emozione sta quello dei sensi spirituali, che permettono di contemplare un’opera musicale con una chiave di lettura quasi trascendente, intendendo la musica come tratto specifico della via pulchritudinis. Oltre, ma non in opposizione, considerando i sensi spirituali complanari all’emozione. Un ascolto consapevole può favorire una più completa esperienza di fruizione e contemplazione estetica di un’opera musicale. I sensi corporei e spirituali vi sono tutti coinvolti. Infine si potrà proporre un percorso integrato tra un’opera musicale ed una pittorica, legate da un tema, che portino il fruitore da un piano emotivo ad un livello performativo.
 
 
1. Emozioni e musica
 
È comunemente inteso che nessuno resta totalmente insensibile alla musica ed è altrettanto comune averla, in ogni suo genere, “a fianco” nella quotidianità. «Potrebbe essere un’affermazione banale dire che la musica suscita emozioni, che l’ascolto o la pratica musicale attivano in noi stati d’animo particolari, o anche che cantando e suonando si esprimono, si manifestano e si comunicano anche i nostri sentimenti».[3] Tuttavia quanto riportato da Mario Piatti non è banale per nulla. Richiamandoci a John A. Sloboda, possiamo dire con lui che
 
il motivo per cui la maggior parte di noi prende parte ad attività musicali, componendo, eseguendo, o semplicemente ascoltando, è dato dal fatto che la musica è capace di suscitare in noi stessi delle emozioni profonde e significative […]. Se i fattori emotivi sono fondamentali per l’esistenza della musica, diventa allora sul piano della ricerca psicologica fondamentale chiedersi come la musica riesce a influire sulle persone.[4]
 
Non compete a noi indagare ed approfondire tali aspetti psicologici, per i quali l’approccio cognitivista è uno dei tanti, ma non l’unico. Desideriamo piuttosto richiamare il dato per cui gli stati emotivi ed i loro processi sono caratterizzati da uno stretto legame tra stimoli esterni ed elaborazione mentale e cognitiva. Il rapporto tra musica ed emozioni si dispiega su un duplice livello, ossia: la musica può rappresentare emozioni e, d’altra parte, può indurle. L’aspetto rappresentativo in sostanza limita la musica a delineare le emozioni, senza che essa possa provocarle.[5] L’altro ritiene che possa invece suscitare emozioni, in base alle sue qualità sonore.[6] La musica favorisce anche l’autoregolazione delle emozioni. Come autoregolatore, essa può essere intesa e adoperata per cambiare, o mantenere e rinforzare, le emozioni e gli stati d’animo di un soggetto. Gli studi in tal senso sono vari e numerosi.[7] Noi tuttavia vogliamo incentrare la nostra attenzione su un altro piano, quello dei sensi spirituali da considerarsi, come anticipato in premessa, complanari alle emozioni.
 
 
2. Sensi spirituali e Via Pulchritudinis in musica
 
L’esperienza millenaria della Chiesa in fatto di arte, musica e letteratura, si esprime in modo speciale in quella che è la Via Pulchritudinis, la Via della Bellezza. Anche se negli ultimi anni è tornata prepotentemente in prima linea sia nella riflessione magisteriale ed accademica, sia nella pratica ecclesiastica, essa non è un’assoluta novità.[8] Già sant’Agostino si esprimeva in questi termini: «Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, sero te amavi».[9] San Tommaso d’Aquino dedicò parte della sua ricerca alla via aesthetica.[10] Tuttavia va riconsiderata nel contesto contemporaneo. La Chiesa ha avuto nelle arti figurative e nella musica una via privilegiata per veicolare più efficacemente la sua dottrina. Alla parola viva essa ha affiancato le immagini ed i suoni, specialmente in periodi in cui l’istruzione e l’alfabetizzazione non erano così diffuse, il latino era noto solo ad una cerchia ristretta di persone, e la cultura, anche quella antica, era custodita e tramandata negli scriptoria delle abbazie e nelle scuole palatine. La Chiesa, anche dopo i vari scismi che l’hanno scossa nel tempo, ha mantenuto questo uso di “servirsi” delle belle arti e le sue committenze sono oggi un patrimonio universale. Arte e musica ritenute capaci di farsi strumento. Esigenza avvertita ancora oggi viva e pressante e come elemento irrinunciabile dell’impegno della Chiesa nel dialogo con arte e cultura, sottolineando l’importanza della via artistica e musicale.[11]
La Via Pulchritudinis si caratterizza per questo suo essere mezzo efficace di educazione religiosa, ma anche, allargando lo spettro di osservazione, di istruzione, di introduzione all’estetica ed alla contemplazione del bello artistico e musicale, anche in assenza di spiccate competenze tecniche ed estetiche.[12] Essa non è tuttavia qualcosa di leggiadro o disincarnato: «Non siamo qui nel regno dell’astrattezza, in una mistica fuori dal tempo e dallo spazio, né veniamo dirottati su una specie di “via lattea” […]. La “via della bellezza” è una via molto aderente alla realtà concreta della vita, perché le “pietre” che la asfaltano sono le persone, i singoli e le comunità»[13] che entrano in contatto con l’opera d’arte. A fondamento di ciò troviamo la cosiddetta trasfigurazione dei sensi dell’uomo.[14] «La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza».[15] La Via Pulchritudinis coinvolge tutte le nostre dimensioni, ma in particolar modo quella sensoriale, fino a portarci a quelli che la teologia spirituale chiama sensi spirituali.[16] Il nostro apparato sensoriale è tutto coinvolto in questa esperienza estetica ed i sensi raggiungono una sorta di trasfigurazione, che appunto fa parlare di sensi spirituali.[17]
 
Con l’olfatto sentiamo il profumo di una presenza dopo averla “interiorizzata” […]. Con il gusto sentiamo la bontà o la sgradevolezza di ciò che mangiamo. Anche il gusto, attraverso il mangiare e il bere, è facoltà che interiorizza. […]. Con il tatto le nostre mani stabiliscono una relazione positiva o negativa […]. Anche il bacio, che è una forma di tatto, stabilisce una relazione: può significare amore o tradimento. […]. Anche con la vista noi entriamo in relazione con gli altri, con il mondo e con il creato […]. C’è un guardare superficiale e c’è un guardare in profondità che chiamiamo contemplazione.[18]
 
Per quanto attiene l’udito, che è strettamente legato al discorso musicale, va detto che
 
con l’udito le nostre orecchie entrano in comunicazione con la realtà. E anche l’ascolto è esperienza di interiorizzazione delle parole e dei suoni. Ma anche l’ascolto può essere profondo o superficiale, a seconda della nostra predisposizione […]. Ed è interessante che l’esperienza dell’ascolto cresce e si affina in un particolare dinamismo di circolarità, tanto evidente, quanto spesso dimenticato.[19]
 
Aggiungiamo anzi, con Massimo Cacciari, che c’è un presupposto comune su pensiero ed immaginazione evocati dalle arti e particolarmente dalla musica:
 
Non si dà pensare che non sia immaginare; l’aspetto immaginativo, e dunque poetico, nell’accezione più ampia del termine, non rappresenta un’attività “speciale” della mente, ma è intrinseco in ogni sua espressione […]. Questo evidentemente non può esser fatto valere soltanto nell’ambito strettamente iconologico. L’immagine non è soltanto quella dipinta, l’icona! La relazione è ancora più cogente forse col suono. Come il pensare accade “per” immagini, così anche “per” suoni. E non soltanto, forse, per suoni armonizzati o musica, ma anche per singoli suoni. Quel suono “produce” quell’idea, e da quell’idea può prodursi una “frase”, che di quel primo “colpo” custodisce la traccia.[20]
 
Se questo è il fondamento teologico-spirituale della Via Pulchritudinis, quale è il percorso metodologico? È essenziale, dinanzi ad un’opera d’arte che si vuole interpretare spiritualmente e mistagogicamente, fare l’esperienza dell’incanto:
 
Ovvero, si acquisisce una conoscenza intuitiva e sensitiva, attraverso uno “sguardo curvo” che contempla l’opera non “frontalmente” bensì, per così dire, “aggirandola alle spalle”. Nell’esperienza dell’incanto lo sguardo penetrante contempla umilmente […] l’Invisibile che cela “dietro” e “dentro” il visibile […]. L’arte diviene così esperienza dell’incanto, esperienza contemplativa, esperienza di percezione e di conoscenza amativa.[21]
 
La Via Pulchritudinis ci offre la chiave interpretativa per leggere un’opera d’arte come opera teologico-spirituale e mistagogica che passando dal piano emotivo perviene alla comprensione sul piano superiore dei sensi spirituali:
 
Non si tratta di una bellezza effimera ed esteriore che mira all’apparenza di ciò che non è nella realtà dei fatti. Si tratta, invece […] di una bellezza esistenziale e interiore, fondata su un’esperienza di fede cristiana ben radicata e profonda, una fede non alienante ma appassionante, interpellante, coinvolgente, lacerante fino nel profondo, impegnativa e spesso scomoda, in primo luogo per chi la vive.[22]
 
Siamo quindi in presenza di una vera e propria via estetica e teologica, con pari valore rispetto alla Via Veritatis ed alla Via Bonitatis. A differenza di esse, la Via Pulchritudinis intende interpretare un’opera d’arte come un’opera teologico-spirituale. Le tre vie non sono in opposizione tra di esse, né si escludono a vicenda. Sono piuttosto complementari o, meglio, complanari l’una all’altra. Risulta evidente che la forza evocativa dell’immagine e del suono come simboli, è espressa in modo speciale nelle opere d’arte.[23] Va da sé che l’altra finalità, complementare anch’essa, è quella mistagogica e catechetica, ossia, l’opera d’arte, così intesa, può accompagnare il fruitore in un cammino interiore di riscoperta di sé e della sua spiritualità.[24] Entro tale triplice orizzonte, ovvero contemplativo, mistagogico e catechetico, va collocato il metodo della Via Pulchritudinis, sintetizzabile in due passaggi ermeneutici: lettura/interpretazione iconografica ed iconologica dell’opera d’arte. La prima si sofferma sui dati strettamente storici ed estetici di un’opera d’arte, la seconda mette in rilievo il retroterra teologico, spirituale, biblico che ispira e supporta l’opera d’arte medesima e la «costituisce come vera opera teologico-spirituale e mistagogica, capace cioè di mostrare uno squarcio della Bellezza del Dio Vivente e di accompagnare a “gustare” esperienzialmente tale Bellezza».[25] E tuttavia desideriamo aggiungere che, nonostante l’intenzione “didattica”, pur sempre qualcosa della musica, come tratto di questa Via di Bellezza, “sfugge”, in questo percorso che è di contemplazione e di pensiero, di emozioni e di sensi spirituali. Dante Alighieri offre una precisa spiegazione di cosa sia la musica che egli ascolta nel suo Paradiso letterario:
 
«E come giga e arpa, in tempra tesa
Di molte corde, fa dolce tintinno
A tal da cui la nota non è intesa,
così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.
Ben m’accors’io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa “Resurgi” e “Vinci”
come a colui che non intende e ode».[26]
 
Richiamandoci a Riccardo Muti, possiamo dire che essa è “rapimento” di chi ascolta:
 
Qui Dante non si riferisce soltanto a coloro che non sanno “tecnicamente” distinguere le note prodotte dagli strumenti musicali, ma intende esprimere l’emozione oltre ogni comprensione che rapisce chiunque ascolta la melodia, pur essendo questa perfettamente composta sulla base della propria sintassi. La musica è un mondo finito e infinito insieme.[27]
 
Bisogna intendersi su cosa significhi questo “rapimento”, per chi suona e per chi ascolta tali sonorità:
 
Sono questi suoni a prendermi, a rapirmi. Essi creano in interiore una reazione mentale o spirituale, uno stato d’animo irriducibile a significati precisi. Per quanto definita sia la forma musicale che lo origina. Direi, anzi, che mi
sprofondo nell’analisi puntuale, microscopica della forma, più imprevedibile è l’emozione che essa mi suscita ascoltandola.[28]
 
In questa prospettiva possiamo anche vedere l’agostiniano «cantare amantis est»,[29] perché chi canta non può non essere amante: «Ma deve amare anzitutto proprio quel suono interiore che è inudibile all’esterno, perché la sua materia musicale possa poi davvero commuoverci, agitarci, darci da pensare».[30] Così Ennio Morricone: «L’uso del canto come ponte […] permette un’armonia […] fra corpo e spirito. Senso e sentimento non sono in contrapposizione, ma in sintesi».[31]
Per esplicitare meglio quanto esposto, facciamo un esempio di lettura di un’opera musicale, raffrontandola con un’opera pittorica, legate da un tema comune:  “Il sì di Maria nell’arte e nella musica”. Esso lega l’Annunciazione alla Vergine Maria[32] con il canto di lode e ringraziamento che ella eleva nella sua visita alla cugina Elisabetta: il Magnificat.[33] La nostra scelta cade su due opere non coeve, né legate: l’Annunciata di Antonello da Messina, ed il Magnificat in re maggiore bwv 243 di Johann Sebastian Bach. Partendo da una breve analisi estetica dell’Annunciata Antonelliana e da una sintetica guida all’ascolto del Magnificat bachiano, proporremo delle idee, rappresentate da alcuni verbi, che facciano da stimolo e da guida per il fruitore delle due opere d’arte, che voglia contemplarle su un piano spirituale oltre che emozionale.
 
 
3. L’Annunciata di Palermo di Antonello da Messina
 
L’Annunciata è opera della maturità artistica del pittore. «Forse in assoluto la più nota immagine della pittura siciliana, esprime in modo suggestivo sentimenti di candore, di pudicizia, di partecipazione emotiva pur nel controllo dei gesti e dell’espressione. Antonello presenta qui la personalissima interpretazione del rigore geometrico di Piero della Francesca, semplificando al massimo i colori e i volumi».[34] L’autore ci consente di meditare sull’Annunciazione in modo inedito, profondo, originale e per nulla distante dal dato della Scrittura. Anzi, Antonello ci vuol parlare più della Vergine Annunciata che dell’Annunciazione come evento:
 
Quest’opera d’arte è unica nella sua rappresentazione. Non c’è l’angelo, non c’è l’aureola sul capo della Vergine, non c’è la colomba dello Spirito, non ci sono raffigurazioni paesaggistiche o che ritraggono l’interno della stanza. Qui si guarda all’essenziale, messo in risalto dallo sfondo nero: la Vergine Maria, la Bibbia sul leggio da tavolo, la luce che viene da fuori, ovvero dalla stessa direzione della mano destra della Vergine. Tutta l’attenzione è concentrata su Maria, su ciò che avviene in lei al momento dell’evento dell’annunciazione. Ecco perché il quadro ci parla dell’Annunciata e non dell’Annunciazione.[35]
 
In essa il pittore recupera l’idea prettamente spirituale dell’Annunciazione, priva dell’angelo. Nel vuoto lasciato dall’angelo trova spazio la nostra umanità, chiamata ad interloquire con la Madre di Dio, mettendo in campo la capacità di meditare, interpretare e perfino immaginare, propria dell’uomo. Nell’apparente staticità del ritratto, la leggera torsione della figura ed il moto in avanti della mano danno movimento all’opera. Ci soffermiamo su tre elementi: il volto e le mani di Maria, il leggio dinanzi alla Vergine.
 
 
3.1. Il volto di Maria
 
Il volto della Vergine è ammantato da un velo di colore blu cobalto, evidenziato dallo sfondo scuro e per la luce penetrante da una nicchia, solo immaginabile. Verso quella luce ella si rivolge.[36] In questo dialogo profondo con l’angelo, che si immagina nella stessa posizione dello spettatore, la Madre di Dio assume un’espressione pensosa, ma non grave né seriosa.[37] Le labbra ne evidenziano la serenità e la serietà del suo fiat.
 
3.2. Le mani di Maria
 
L’azione è rappresentata dal movimento delle mani della Vergine: la destra sollevata a mezz’aria è quasi l’eco del suo fiat rivolto all’angelo. Variamente interpretato, il gesto rivela una significativa intenzione: la mano sembra volere in qualche modo “frenare” l’angelo, prendere tempo per capire. La mano sinistra compie un gesto altrettanto significativo. Su un piano spirituale, Maria tira il velo e lo stringe per unire delicatamente i suoi lembi sul petto, per dare l’idea del raccoglimento. Notiamo due movimenti:
 
Il movimento che parte dall’esterno è dato dalla luce che illumina tutta la scena: il tavolo, il leggio, il libro, la Vergine. È Dio che entra nella vita della Vergine Maria; è Dio che le parla. Maria, attraverso la Luce di Dio, il soffio dello Spirito che muove i fogli della S. Scrittura, comprende che quella profezia è rivolta a lei. E infatti, la mano sinistra posta all’altezza del cuore - ecco il movimento che avviene all’interno - sembra dire: “Sono io quella Vergine” […]. La mano destra aperta e il palmo proteso in avanti – ecco ora il movimento che dall’interno va verso l’esterno - è gesto che inizialmente comunica stupore, ma poi dice l’accoglienza e l’assenso. Anche gli occhi, comunicano il della Vergine.[38]
 
3.3. Il leggio dinanzi a Maria
 
Cosa legge Maria? Ella ha dinanzi un Magnificat, il foglio in movimento rappresenta lo Spirito Santo sotto forma di vento.[39] In merito al movimento del foglio, si nota che le pagine sono sollevate come da un soffio, una nuova rappresentazione dello Spirito Santo in forma di vento. «Quel vento rappresenta il soffio dello Spirito Santo. Tra le spiegazioni spicca quella etimologica».[40]
 
4. Il Magnificat in re maggiore bwv 243 di Johann Sebastian Bach
 
Dai carteggi bachiani si desume che questa composizione è stata più volte musicata da Bach. Tuttavia ne rimane una sola realizzazione in due varianti. Questo cantico, ammesso nella liturgia luterana, era ordinariamente eseguito in tedesco, a quattro voci. Ma nelle solennità veniva cantato in latino, con uno stile musicale figurato. Della prima versione sappiamo che era in mi bemolle maggiore e che la prima esecuzione avvenne a Lipsia, per il Vespro di Natale del 1723. La seconda versione, quella a tutti nota e che soppiantò la prima, fu riveduta dall’autore tra il 1728 ed il 1731. Bach rivide la tonalità, preferendo il re maggiore, riordinò la strumentazione (due flauti traversi e due oboi d’amore al posto di due flauti diritti), divise il brano in dodici sezioni, estromettendo quattro brani interpolati, con testi estranei al Magnificat vero e proprio.
 
Il principio che domina il Magnificat è quello della varietà. In apertura, al centro e in chiusura troviamo tre pagine a pieno organico, con coro a cinque parti e un’orchestra potenziata dalla presenza di trombe e timpani. Ognuna delle cinque voci soliste esegue un’aria sostenuta da organici strumentali più scarni  ma che in un caso, Quia respexit, introducono un inatteso ed efficacissimo intervento del coro. La stessa ricerca di varietà si rispecchia anche nell’impostazione delle quattro interpolazioni: le prime tre sono in stile mottettistico, e la prima con solo coro a quattro voci “a cappella”, cioè senza strumenti, mentre la terza prevede anche la presenza di un violino solista in rapporto con il coro; l’ultimo è un duo per soprano, voce di basso e basso continuo. L’elemento della varietà, tipico dell’estetica barocca, è anche quello che Bach prediligeva ogni volta che attribuiva a una sua opera il compito di presentare ed esibire le sue doti inventive e tecniche di elaborazione musicale.[41]
 
Egli quindi
 
traduce i versetti in una serie di Cori e pagine vocali solistiche, ma la potenza drammatica, l’organizzazione capillare della forma, il simbolismo immaginoso, lo splendore delle voci e dell’orchestra arricchita da trombe e timpani, proiettano il suo capolavoro in una dimensione assoluta, che trascende il genere stesso e i limiti impostigli dalla destinazione liturgica.[42]
 
Bach intuì la portata educativa della musica e pose la sua arte a servizio dell’insegnamento luterano. Alla luce di ciò, osserviamo da vicino le dodici sezioni del Magnificat bachiano.
 
 
5. Magnificat
 
Si pone dinanzi all’ascoltatore un brano composto soltanto da quattro parole ma che si apre in modo grandioso, regale, eppure non trionfalistico. Bach non vuole una pompa magna fine a se stessa, quanto piuttosto vuole mettere in musica «l’esultare incontenibile e mozzafiato di una fanciulla su cui Dio si è chinato per esaltarla».[43] L’introduzione orchestrale apre il cantico dando rilievo al timbro brillante e solenne delle trombe, che introducono il coro dei soprani, a rappresentare Maria. I vocalizzi delle voci femminili hanno un movimento ascendente su Magnificat, invece melodie discendenti ed intreccio di voci contrassegnano anima mea.
 
5.1. Et exultavit
 
Il secondo brano è un’aria di netta pacatezza, quasi tenera. La coralità cede il passo alla confidenzialità del contralto, sostenuto dai soli archi. Qui Bach si attiene ad un monotematismo rigoroso, da cui però scaturisce una lunga varietà di soluzioni compositive, legate da un unico pensiero musicale, sostenuto dal ritmo dattilico dei violini.
 
5.2. Quia respexit
 
La voce malinconica dell’oboe d’amore presenta un tema discendente, con numerosi cromatismi. La condizione dell’umile ancella è sostanziata attraverso il dialogo tra soprano ed oboe, dialogo basato su un basso continuo, quasi una constatazione della caducità della condizione umana che Maria però non vede disperatamente: «Maria, pur libera dal peccato e dalla morte, si sente tuttavia parte di questa umanità dolente; lei […] si sente già madre dell’umanità».[44]
 
5.3. Omnes generationes
 
Tra questo ed il brano precedente non c’è interruzione. Qui Bach rivela di nuovo la sua abilità nella scrittura corale, in cui le voci si intrecciano «con un immaginoso fugato che dispiega tutto il potere evocativo della parola: il soggetto prolifera con entrate molto serrate da un capo all’altro del coro e dell’orchestra, a somiglianza del volgersi di infinite generazioni».[45]
 
5.4. Quia fecit
 
Al brano corale segue un’aria affidata al basso, con organo e basso continuo. I vocalizzi e l’andamento leggero mitigano la profonda gravità associata al timbro del basso, solitamente meno incline a tali virtuosismi. In questo caso Bach tratta il tema come un «ostinato dialogico tra voce e strumenti a guisa di ciaccona, originando alcune variazioni contrappuntistiche in cui “potens”, “magna” e “sanctus”, in riferimento al nome venerando di Dio, sono abbelliti da melismi».[46]
 
5.5. Et misericordia
 
La ricerca timbrica bachiana giunge qui a risultati raffinati. Gli archi suonano in sordina, e li unisce a due flauti, legati a contralto e tenore, voci cioè simili per estensione ma diverse per timbrica. Si ritrova un passo di danza lenta, in un’atmosfera quasi bucolica: «La poesia del dolore è qui connessa con l’azione di misericordia sentita come necessaria e invocata da coloro che hanno coscienza dei propri peccati».[47]
 
5.6. Fecit potentiam
 
Il contraltare al brano precedente è sostenuto da tutto il coro e tutta l’orchestra in modo radioso, che ricorda il brano d’apertura. Quattro voci in omoritmia e con melodia ascendente ripetono “fecit potentiam”, mentre una quinta voce, a turno, vocalizza in modo complesso, come simbolizzare la potenza divina, non distruttrice. Tuttavia la parola “dispersit” è cantata tumultuosamente, a rendere l’idea del disperdersi dei superbi nel loro cuore: Bach «sembra ricordarci che non è Dio a condannare i superbi, ma sono loro ad essere troppo occupati da se stessi per accorgersi di Lui».[48] A riprova di ciò, la tumultuosa progressione di “dispersit” «approda a una pausa di stupore dopo “superbos” e quindi alla solenne modulazione finale in tempo di Adagio».[49]
 
5.7. Deposuit potentes
 
Il piglio drammatico del linguaggio figurato, che Bach usa in questo brano, mostra la sicurezza e la boria dei potenti. Bach l’affida alla “aria di furore” tenorile, in un madrigalismo segnato da scale discendenti, a mostrare sonoramente il cadere del superbo dal trono. “Potentes” ha un andamento quasi ansimante, zoppicante. In contrasto con “exaltavit”, resa con moto ascendente, in uno con “humiles” che è sì musicato in modo discendente ma con altri toni rispetto al trattamento riservato ai superbi. Il basso continuo, a sua volta, «è un interlocutore attivo della voce e dei violini in unisono, che a metà del pezzo ne assumono il motivo».[50]
 
5.8. Esurientes implevit bonis
 
Si ripresenta la freschezza di Maria in questo brano del contralto, associato in un duetto con flauti, in contrappunto con gli archi. Come sempre, “implevit” ha una melodia ascendente, mentre “divites dimisit” ne ha una discendente, e “inanes” è addirittura resa da tre note soltanto, e poi reiterata senza accompagnamento strumentale: «Sincopi anelanti, trilli di gioia, la melodia dei flauti che zampilla come placido getto di fontana sopra un pizzicato raffigurano […] un desiderio perfettamente appagato, il raggiungimento di una piena beatitudine spirituale».[51]
 
5.9. Suscepit Israel
 
Due soprani ed un contralto si imitano e si intrecciano, salvo cambiare melodia a metà del brano, mutando in una declamazione più netta, in un richiamo a melodie gregoriane ed ebraiche:
 
Il richiamo del testo a remote memorie scritturali potrebbe motivare l’adozione sul piano musicale, dell’antica forma di mottetto su tema liturgico a note lunghe o “canto fermo”; mentre quest’ultimo è sostenuto dagli oboi in unisono, il coro a tre voci femminili compone un mosaico sonoro le cui tessere sono abbinate a corrispondenti parole.[52]
 
5.10. Sicut locutus est
 
Questo brano prepara la conclusione della composizione, e costituisce l’occasione per Bach di proporre una fuga, le cui voci entrano una dopo l’altra, in un rincorrersi degno di questo architetto della musica, che offre all’uditorio un perfetto slanciarsi di colonne e guglie di note musicali. Proprio l’ambiente veterotestamentario qui evocato giustificherebbe questo stile severo:
 
La Fuga come genere non ha di per sé un carattere arcaizzante, e tantomeno in Bach che la piega ai più vari fini espressivi. In questo caso però il tono assertorio del soggetto, la simmetria costruttiva con duplice esposizione senza “stretti”, e soprattutto l’assenza di strumento all’infuori del basso continuo, conferiscono al brano un sapore un po’ ecclesiastico e antiquario.[53]
 
5.11. Gloria
 
Il brano conclusivo rivela la conoscenza teologica di Bach che riveste in musica la dossologia alla Trinità. “Gloria”, che si ripete quattro volte, è caratterizzato da terzine, che passano da una voce all’altra, in un movimento circolare e curvilineo, all’unisono perché sia chiaramente inteso, senza però rinunciare a slancio ed eleganza stilistica. Senza soluzione di continuità si sfocia nel Sicut erat, che dopo la severa solennità del “Gloria” riporta l’ascoltatore alla festosità del brano iniziale, cosicché «il ritorno del movimento d’inizio imprime alla partitura un sigillo di perfetta circolarità».[54] Questa musica, all’inizio, aveva come aperto il sipario su una scena gioiosa e grandiosa, «così la conclusione appare davvero imponente, ravvivata dai colori brillanti dell’orchestra e dai vocalizzi del coro».[55]
 
6. «Beatam me dicent»: riflessioni conclusive per una proposta laboratoriale
 
Immaginando una proposta di laboratorio, ricapitoliamo con qualche riflessione, suddividendo il percorso come di seguito: vedere, ascoltare, dialogare e condividere. Anzitutto “vedere”: contemplare l’Annunciata di Antonello da Messina, osservando la pacatezza e la misura dell’opera, la circolarità del dipinto, la geometria dei dettagli, i colori utilizzati, lo sguardo di Maria, cosa fanno le mani, lo scrittoio ed il suo spigolo, il chiaro/scuro del dipinto, il movimento “immobile” del dipinto. L’opera trasmette l’idea di un’Annunciazione già data dall’angelo. Non si vede stupore attonito nello sguardo della Vergine, piuttosto si osserva la netta percezione di quel fiat già detto all’angelo e fatto proprio da Maria. La mano che tiene stretto il velo sembra dire l’importanza dell’annuncio, del “sì” di Maria, quasi ad essere custodito nell’animo della Madre di Dio. La mano protesa a chi guarda può essere intesa come un contatto tra la Vergine che accetta il suo compito e noi stessi, chiamati a dire il nostro fiat. Le labbra chiuse della Vergine non sono mutismo sopraffatto dall’evento, ma custodia dell’inno che ella canterà e che è ben interpretato da Bach nel suo Magnificat. Quindi “ascoltare”: porsi in ascolto, con un’analisi guidata, del brano musicato da Bach, raffrontandolo con il dipinto di Antonello da Messina, sottolineando similitudini, peculiarità ed originalità delle due creazioni artistiche. Anche in questo caso si potrà cogliere qualche elemento: la complessità nel trattare la scrittura corale e solistica delle sezioni, la geometria architettonica dei brani, specialmente quelli corali, la policromia sonora offerta dalle voci e dagli strumenti e l’intreccio tra le parti coinvolte, infine la circolarità perfetta del brano, dato comune con il dipinto dell’Annunciata di Palermo.
Dunque “dialogare” e “condividere”. Anzitutto dialogare interiormente sia nella contemplazione del dipinto che nell’ascolto del brano, per poi confrontarsi in un dialogo tra pari. Le due opere rappresentano un momento “alto” di contemplazione, certamente artistica, tale da attrarre anche un non credente. Contempliamo idealmente la scena guardando anche all’angelo che, tuttavia, non è raffigurato. L’angelo è al di là del dipinto. Antonello da Messina vuole forse dirci che al posto dell’angelo ci siamo noi, direttamente interpellati. Maria Annunciata guarda lo spettatore e lo interpella. Al pari di Antonello da Messina anche Bach invita l’ascoltatore ad unirsi all’esultanza mariana del Magnificat, che inneggia al Dio della Scrittura, poiché con Maria canta Elisabetta ma anche tutto Israele. L’inno del Magnificat include, nel canto di vittoria ed esultanza di Maria, tutta la storia della salvezza.
 
 
 
 
 
 
 

* Docente invitato di musicologia liturgica presso l’Istituto Teologico “San Tommaso d’Aquino” di Messina, Università Pontificia Salesiana. Coordinatore sezione “arte, musica e catechetica” presso il Centro di Pedagogia Religiosa “G. Cravotta” del medesimo Istituto. Già docente a contratto di musicologia e storia della musica, presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Messina, nell’ambito del Master di I livello in “Civiltà e turismo religioso nel Sud-Italia. Per un modello operativo euro-mediterraneo” (A.A. 2019-2020).
 
[1] E. Kurth, Musikpsychologie, Berlin, Max Hesses Verlag, 1931, citato in A. Wellek, Psicologia della musica, in Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, diretto da A. Basso, Il Lessico IV, Torino, UTET, 1989, p. 31. In seguito abbreviato in DEUMM. Cfr. A. Cecchi, La morfologia musicale di Ernst Kurth tra fondazione filosofica e differenzazione stilistica, «Studi Musicali», II, 2, Roma, 2011, pp. 413-446.
 
[2] A. Wellek, Psicologia della musica, cit., in DEUMM, p. 32.
 
[3] M. Piatti, Educazione, musica, emozioni. Quasi un’autobiografia, Milano, Franco Angeli, 2012, p. 11.
 
[4] J.A. Sloboda, La mente musicale. Psicologia cognitivista della musica, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 25-26.
 
[5] Cfr. S. Davies, Musical Meaning and Expression, Ithaca (NY), Cornell University Press, 1994; P. Kivy, Filosofia della musica, Torino, Einaudi, 2007.
 
[6] Per approfondimenti: P. Ball, L’istinto musicale. Come e perché abbiamo la musica dentro, Bari, Dedalo, 2011; D. Schön, L. Akiva-Kabiri, T. Vecchi, Psicologia della musica, Roma, Carocci, 2007.
 
[7] Cfr. S.H. Saarikallio, Music in mood regulation. Initial scale development, «Musicae Scientiae», XII, 2, 2008, Thousand Oaks (CA), pp. 291-309; A.J.M. Van de Tol, J. Edwards, Listening to sad music in adverse situations. How music selection relate to self-regulatory goals, listening effects and mood enhancement, «Psychology of Music», XLIII, 4, 2015, Thousand Oaks (CA), pp. 473-494.
 
[8] Pontificia Accademia di Teologia, Il cielo sulla terra. La via della bellezza luogo d’incontro tra cristianesimo e culture, «Path», 4, 2005, 2.
 
[9] Confessiones, 10, 27, in PL 32, 795.
 
[10] «Pulchra dicuntur quae visa placent» (Summa Theologiae, I, q. 5, a. 4, ad 1m); «Pulchrum dicatur id cuius ipsa apprehensio placet» (Summa Theologiae, I-II, q. 27, a. 1, ad 3m).
 
[11] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, «Acta Apostolicae Sedis», 91, 1999, Città del Vaticano, 1155-1172, n. 12; Benedetto XVI, Messaggio al Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura in occasione della XIII seduta pubblica delle pontificie accademie sul tema: “Universalità della bellezza. Estetica ed etica a confronto”, «Acta Apostolicae Sedis», 100, 2008, 12, Città del Vaticano, pp. 852-855; Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Direttorio per la catechesi, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2020, nr. 211; Paolo VI su l’arte e gli artisti. Discorsi, messaggi e scritti (1963-1978), a cura di P.V. Begni Redona, Brescia - Roma, Istituto Paolo VI - Studium, 2000; Chiesa e Arte. Documenti della Chiesa, testi canonici e commenti, a cura di G. Grasso, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2001; C. Chenis, Fondamenti teorici dell’arte sacra. Magistero post-conciliare, Roma, LAS, 1991; Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, La nobile forma. Chiesa e artisti sulla via della bellezza, a cura di G. Ravasi, P. Iacobone, E. Guerriero, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2009.
 
[12] Cfr. Arte e Teologia. Dire e fare la bellezza nella Chiesa. Un’antologia su estetica, architettura, arti figurative, musica e arredo sacro, a cura di N. Benazzi, Bologna, EDB, 2003; T. Verdon, L’arte nella vita della Chiesa, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2009.
 
[13] E. Palumbo, Le vie belle di Dio. Estetica spirituale in Santa Maria Maddalena De’ Pazzi, carmelitana fiorentina, «Carmelus», 4, Curinga (Cz), Il ginepro, 2017, pp. 20-21.
 
[14] Cfr. E. Palumbo, Spiritualità per via pulchritudinis, «Itinerarium», 24, 2016/3, 64, pp. 19-29.
 
[15] Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, p. 1168, n. 3.
 
[16] Indichiamo alcuni testi: M. Canevêt, Sens spirituel, in Dictionnaire de Spiritualité, XV, Paris, Beauchesne Éditeur, 2019, pp. 598-617; G. Zurra, «I nostri sensi illumina»: coscienza, affettività e intelligenza spirituale, Roma, Città Nuova, 2009. Sull’aspetto musicale: C. Cano, Simboli sonori. Fondamenti antropologici per una didattica dell’approccio semantico al linguaggio musicale, Milano, Franco Angeli, 1985; J.A. Piqué i Collado, Teologia e musica. Dialoghi di trascendenza, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2013; E. Saliers, Musica e Teologia, (Giornale di Teologia 398), Brescia, Queriniana, 2017; P.W. Scheele, Lob der Musik und der Musiker. Beiträge zu einer Theologie der Musik, Würzburg, Echter Verlag, 2005; P. Sequeri, Musica e mistica. Percorsi nella storia occidentale delle pratiche estetiche e religiose, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2005.
 
[17] «Ogni senso cerca con desiderio il proprio oggetto sensibile, lo trova con gioia, lo cerca di nuovo senza fastidio, perché l’occhio non si sazia di vedere, né l’orecchio si riempie di ciò che ode. In questo modo il senso del nostro cuore deve cercare con desiderio ciò che è bello, armonioso, odoroso, dolce, accarezzevole; e lo deve trovare con gioia; e riprendere a cercare incessantemente. Ecco come nella conoscenza sensibile è contenuta segretamente la sapienza divina, e quanto è meravigliosa la contemplazione dei cinque sensi spirituali nella loro conformità ai sensi corporei» (Bonaventura da Bagnoregio, Riconduzione delle arti alla teologia, (Biblioteca Grandi Autori 2), Roma, Città Nuova, 2012, p. 110). Cfr. Qo 1, 8.
 
[18] E. Palumbo, Spiritualità per via pulchritudinis, cit., pp. 25-26.
 
[19] Ivi, p. 26.
 
[20] M. Cacciari, Il suono dell’immagine, in R. Muti, Le sette parole di Cristo. Dialogo con Massimo Cacciari, (Icone. Pensare per immagini 10), Bologna, Il Mulino, 2020, pp. 16-17.
 
[21] E. Palumbo, Spiritualità per via pulchritudinis, cit., pp. 26-27.
 
[22] E. Palumbo, Le vie belle di Dio, cit., pp. 21-22. cfr. R. Bodei, Le forme del bello, Bologna, Il Mulino, 2017; Bellezza e tradizione. Un nuovo modo di vedere le cose, a cura di E. Centis, C. Ferrari, O. Sartore, A. Truttero, G. Zennaro, Castel Bolognese (Ra), Itaca, 2011; M. Fischer, Da berühren sich Himmel und Erde. Musik und Spiritualität. Eine Anthologie, Düsseldorf, Patmos Verlag, 1998; B. Forte, La porta della bellezza. Per un’estetica teologica, Brescia, Morcelliana, 2001; M.A. Spinosa, Per viam pulchritudinis. La contemplazione, opera della bellezza, «Ho theologos», 10, Roma, Città Nuova, 2017; C. Valenziano, Verso una epistemologia della Via Pulchritudinis. Tre lezioni dottorali h.c., Roma, CLV - Edizioni Liturgiche, 2009.
 
[23] Cfr. P. Martinelli, W. Block (a cura di), Arte e Spiritualità. Studi, riflessioni, testimonianze, Bologna, EDB, 2014; G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Bari, Dedalo, 2009; C. Greco, S. Muratore (a cura di), La conoscenza simbolica, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1998; P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Brescia, Morcelliana, 2002.
 
[24] Più laicamente, ma con altrettanta pregnanza, Vasilij Kandinskij, circa la performatività per l’artista e la gratuità dell’arte e dello stesso atto artistico, affermava che «l’artista deve cercare di modificare la situazione riconoscendo i doveri che ha verso l’arte e verso se stesso, considerandosi non il padrone, ma il servitore di ideali precisi, grandi e sacri. Deve educarsi e raccogliersi nella sua anima, curandola e arricchendola in modo che essa diventi il manto del suo talento esteriore, non sia come il guanto perduto di una mano sconosciuta, una vuota e inutile apparenza. L’artista deve avere qualcosa da dire, perché il suo compito non è quello di dominare la forma, ma di adattare la forma al contenuto» (V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, Milano, SE, 2005, p. 35).  
 
[25] E. Palumbo, Spiritualità per via pulchritudinis, cit., pp. 26-27.
 
[26] D. Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, canto XIV, vv. 118-126.
 
[27] R. Muti, Le sette parole di Cristo, cit., p. 25. Dell’infinito tra due note, lo stesso Muti scrive che «Mozart diceva che la musica più profonda è quella che si nasconde tra le note. È un’idea incredibile: tra una nota e l’altra, anche se strettamente legate, c’è l’infinito. Il mistero è lì, in quello spazio che racchiude l’universo. E il compito del musicista […] è proprio di riuscire a dar voce e a interpretare la musica che sta tra una nota e l’altra: insomma, tirar fuori ciò che non è scritto eseguendo rigorosamente quel che è scritto» (R. Muti, L’infinito tra le note. Il mio viaggio nella musica, Solferino, Milano, 2019, p. 6).
 
[28] R. Muti, L’infinito tra le note, cit., p. 33. D’altra parte, aggiunge Cacciari, «questo può valere per ogni forma dell’esperienza artistica […]. Ma il problema è ancora più specifico nel campo musicale, poiché qui si combinano paradossalmente il massimo di ingenium, ciò che non è generato o prodotto da studium, con il massimo di studium, ovvero […] “rapimento” con la ricerca della forma più astratta o autonoma rispetto all’esigenza di comunicare significati definiti […]. L’ingenium rimanda al suono interiore, arcaico e perfettamente “libero”, da cui si genera la frase» (M. Cacciari, Il suono dell’immagine, in R. Muti, Le sette parole di Cristo, cit., pp. 37-38).
 
[29] Agostino d’Ippona, Sermo 336, 1 (PL 38,1472).
 
[30] M. Cacciari, Il suono dell’immagine, cit., p. 51.
 
[31] E. Morricone, V. Morricone, Salmi. Scelti e letti, Milano, Piemme, 2020, p. 7.
 
[32] Lc 1, 26-38; Cfr. Mt 1, 18-24.
 
[33] Lc 1, 46-55.
 
[34] S. Zuffi, F. Castria, La pittura italiana. I maestri di ogni tempo e i loro capolavori, Milano, Mondadori, 1998, p. 91.
 
[35] E. Palumbo, L’Annunciata di Antonello da Messina. Lettura teologico-spirituale, Messina, Istituto Teologico “S. Tommaso”, 2016, p. 3. Cfr. P. Biscottini, Antonello da Messina: l’Annunciata, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2007; M. Naro, Le Vergini annunciate. La teologia dipinta di Antonello da Messina, Bologna, EDB, 2017.
 
[36] P. Chessa, V. Sgarbi, Antonello da Messina. Caduta e ascesa di un grande siciliano, L’Europeo, 16 novembre 1981.
 
[37] Scrive Mauro Lucco: «L’Annunciata è un’immagine rivoluzionaria. L’Annunciata di per sé sola presuppone l’angelo, vicariato nelle sue funzioni dallo spettatore stesso» (Antonello da Messina. Catalogo della mostra, a cura di M. Lucco, Scuderie del Quirinale, 18 marzo-25 giugno, Roma, Silvana Editoriale, 2006, p. 29).
 
[38] E. Palumbo, L’Annunciata di Antonello da Messina, cit., p. 4.
 
[39] Cfr. F. Bindi, Il mistero svelato. Gli ultimi ed inediti studi compiuti su “L’Annunciata” di Antonello da Messina, Istituto Italiano di Cultura, Bruxelles 12 giugno 2013, in: http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Comunicati/visualizza_asset.html (consultato il 26 settembre 2020).
 
[40] Ibidem.
 
[41] S. Catucci, Magnificat in Re maggiore BWV 243 per soli, coro e orchestra di J. S. Bach. Guida all’ascolto 2, 15, in www.amicidellamusicadesio.org (Consultato il 27 settembre 2020).
 
[42] O. Mula, Johann Sebastian Bach: Magnificat in re maggiore BWV 243, in La musica di Dio, Milano, RCS, 1995, p. 19.
 
[43] C. Bertoglio, Logos e musica. Ascoltare Cristo nel Bello dei suoni, Cantalupa (To), Effatà Editrice, 2014, p. 17.
 
[44] Ivi, p. 19.
 
[45] O. Mula, Johann Sebastian Bach: Magnificat in re maggiore BWV 243, cit., p. 21.
 
[46] Ivi, p. 22.
 
[47] Ibidem.
 
[48] C. Bertoglio, Logos e musica, cit., p. 21.
 
[49] O. Mula, Johann Sebastian Bach: Magnificat in re maggiore BWV 243, cit., p. 22.
 
[50] Ibidem.
 
[51] Ivi, p. 22-23.
 
[52] Ivi, p. 24.
 
[53] Ibidem.
 
[54] Ibidem.
 
[55] C. Bertoglio, Logos e musica, cit., p. 25.
 


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