Scienza, disincantamento, chiarezza: rileggere Wissenschaft als Beruf nel tempo della pandemia

di Edoardo Massimilla

 

 

Vorrei tentare in questa sede una rilettura di alcune categorie centrali della celebre conferenza weberiana sulla scienza come professione da una prospettiva che si potrebbe definire “attualizzante”. D’altra parte, che cosa è un “grande classico” posto che non sia – come scriveva ironicamente Gilbert Keith Chesterton – «un uomo che si può lodare senza averlo letto»?[1] Un grande classico, nel nostro caso un grande testo classico, è, dal mio punto di vista, un testo che, pur essendo profondamente radicato nel proprio tempo, anzi, proprio perché è profondamente radicato nel proprio tempo, è in grado di parlare anche a lettori di tempi diversi dal suo, e di farlo non coincidendo mai, come afferma Massimo Cacciari, con «ciò che attualmente» è «moda», con il «ritornello dellora», ma recando invece sempre al proprio interno «un timbro di battaglia, unesigenza di contra-dizione[2]

Partiamo dal primo dei tre termini che ho richiamato nel titolo del mio intervento: scienza. Nel corso del periodo drammatico che abbiamo trascorso, ma che non abbiamo ancora “dietro di noi”, una domanda sulla scienza se la sono di fatto e, per così dire, “praticamente” posta tutti, dalle più alte autorità politiche all’uomo della strada, e questa domanda ha avuto più o meno esplicitamente, più o meno consapevolmente, la seguente formulazione: «Oggi la scienza può dirci cosa dobbiamo fare.«? Una domanda weberiana quanto nessun’altra.

Dico “più o meno esplicitamente”, “più o meno consapevolmente”, perché è evidente che solo di rado la domanda in oggetto è stata posta in una forma così generale e astratta. Essa ha avuto, ed è ancora destinata ad avere, una formulazione ben più concreta, connessa a filo doppio con le urgenze dell’oggi. Di fronte alla crisi innescata dalla pandemia – che è al contempo crisi sanitaria, crisi economica e crisi dei legami sociali di ogni ordine e grado – è stata molto rapidamente smaltita, nel nostro paese, la lunga ubriacatura dell’“uno vale uno” secondo la quale chiunque era egualmente legittimato a parlare di qualsiasi cosa, e ci siamo tutti rivolti con fiducia agli “esperti”, ai “tecnici”, agli “scienziati” (virologi, infettivologi, clinici, psicologi, e poi ancora, economisti, studiosi di scienza delle finanze etc.) per chiedere loro: cosa dobbiamo fare? come dobbiamo comportarci nelle difficili circostanze dell’ora presente? Per non parlare della fede e della speranza – sostanzialmente ben riposte, s’intende! – con le quali l’opinione pubblica ha guardato nel corso del 2020 ai tanti “cavalieri del Santo Graal” alla ricerca del vaccino anti-Covid (la metafora soteriologica non è mia, ma è stata adoperata a piene mani dai mezzi di comunicazione di massa).

Dopo l’illusoria pausa estiva del 2020 e la dura recrudescenza della pandemia nell’autunno e nell’inverno 2020-2021, dopo i successi della campagna di vaccinazione senza dubbio enormi ma non tali da risolvere ogni problema come molti avevano sperato, abbiamo vissuto e in parte viviamo ancora come sospesi. È abbastanza difficile prevedere quando l’emergenza sanitaria sarà del tutto alle nostre spalle. È difficilissimo farsi un’idea realistica dell’onda lunga della crisi economica e dei suoi effetti, e specie dell’onda lunga e degli effetti della crisi sociale e di quella dei processi formativi delle generazioni più giovani (che sono tuttavia, occorre dirlo, potuti andare avanti, ancorché in forma sperimentale e dimidiata, attraverso gli “strumenti digitali” i quali nell’attuale frangente hanno, almeno per certi versi, svolto un ruolo formidabile ma, per l’appunto, eminentemente strumentale, il che, com’è noto, non sempre avviene). È enormemente complicato prefigurare modelli di sviluppo sostenibile all’altezza dei problemi posti dall’evento che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo, e da altri possibili eventi del medesimo ordine di scala, ai quasi otto miliardi di esseri umani che popolano il pianeta.

Per non limitarsi a rimanere sospesi, è forse possibile – sulla base delle nostre specifiche competenze – tentare un filosofico “passo indietro” rispetto al ritmo febbrile degli eventi quotidiani (e delle polemiche quotidiane), per elaborare qualche spunto di riflessione d’ordine generale, e per così dire “elementare”, sul senso in cui e sui limiti entro i quali è possibile rivolgersi alle discipline scientifiche positive e alla loro complessa interazione, per ottenere risposte adeguate alla costante e sempre (anche se diversamente) risorgente domanda della vita pratica e personale: che fare?

Premetto che cercherò di ragionare con un’immagine della scienza e degli scienziati che non è del tutto ideale, perché per nostra fortuna esistono uomini e istituzioni che sono i suoi “portatori reali”, ma che lascia fuori dal campo d’attenzione fenomeni, anch’essi reali, di cui abbiamo fatto spesso esperienza in questo periodo di intensa frequentazione dei mass media. Mi riferisco ad alcuni rappresentanti del mondo scientifico evidentemente affetti da manie di protagonismo e da forme particolarmente accentuate di “arroganza epistemica”, o, se si vuole, da quella peculiare patologia dello spirito che Giambattista Vico chiamava “la boria dei dotti”. In maniera eguale e contraria lascerò fuori dalle mie considerazioni l’atteggiamento di alcuni dei più importanti “decisori politici” della terra (inclusi alcuni leader del “mondo libero”) che per molti mesi hanno pensato bene di non tenere in nessun conto le indicazioni della comunità scientifica, salvo poi essere costretti dalle conseguenze delle loro scelte a compiere brusche e precipitose inversioni di marcia.

Essendo questo l’intento, è almeno per me naturale adoperare come canovaccio alcune pagine di Max Weber, un autore cui dedico le mie ricerche da decenni.[3] In particolare intendo soffermarmi, come accennato, su alcuni luoghi della conferenza Scienza come professione che Weber tenne a Monaco nel novembre del 1917 su invito di un’associazione studentesca (“La Lega degli Studenti Liberi”) e che venne poi pubblicata nel 1919, un anno prima della scomparsa del suo autore (14 giugno 1920), probabile vittima di un’altra e allo stato più terribile pandemia, quella dell’Influenzavirus A sottotipo H1N1, la cosiddetta “influenza spagnola”, la quale, tra il gennaio del 1918 e il dicembre del 1920, giunse a infettare circa cinquecento milioni di esseri umani in tutto il mondo (che allora contava “solo” due miliardi di abitanti), uccidendone cinquanta milioni. Allo stesso scopo prenderò anche in considerazione alcuni passi tratti da Il senso dell’“avalutatività” nelle scienze sociologiche ed economiche, un saggio strettamente connesso ai temi e ai problemi di Wissenschaft als Beruf che Weber scrisse in prima stesura nel 1913 per poi pubblicarlo con notevoli rimaneggiamenti nel 1917.

Il senso dell’“avalutatività” della scienza; la scienza come Beruf, ossia come vocazione professionale: già i titoli rivelano che al centro di questi due scritti c’è qualcosa che concerne la nostra domanda. E bisogna anche por mente alle date del loro processo di gestazione e poi della loro pubblicazione. Siamo tra la vigilia della Grande Guerra e il primissimo dopoguerra. Siamo cioè in un altro momento di crisi profonda e multidimensionale che gettava allora la sua ombra sulla Germania e sull’Europa intera. Si tratta di un’analogia importante, di un parallelismo euristicamente fecondo.

 

2. Nella serrata e complessa trama argomentativa del saggio sul senso della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche – che per il suo autore appartengono certamente alla schiera delle “scienze della cultura” le quali, rispetto alle “scienze della natura”, sono contrassegnate da specifiche finalità conoscitive e dunque anche da specifici presupposti concernenti il modo d’essere del loro “soggetto conoscente” – viene ciò nonostante posto in evidenza un aspetto che secondo Weber non può essere messo in discussione in «nessun procedimento conoscitivo (razionale o empirico)» e specialmente in nessuna «scienza rigorosamente empirica»,[4] sia essa appartenente al novero delle Naturwissenschaften oppure a quello delle Kulturwissenschaften.

Weber evidenzia in modo efficace questo punto irrinunziabile affinché si possa parlare di “scienza” in genere e di “scienza empirica” in particolare. Lo fa costruendo delle «coppie antitetiche»[5] di questioni che sono in tutto e per tutto differenti fra loro, di questioni, cioè, che non solo possono sempre essere separate l’una dall’altra, ma che, quanto al loro senso immanente, non presentano alcun genere di necessaria correlazione. Nel saggio sul senso della “avalutatività” – il quale in prima stesura (quella del 1913) era stato scritto come contributo al dibattito su scienze politico-sociali e giudizi di valore organizzato dal Verein für Sozialpolitik che si tenne nel gennaio del 1914 – queste coppie antitetiche composte da «specie di questioni» caratterizzate da una «assoluta eterogeneità»[6] vengono presentate mediante una sequela di interrogativi retorici ai quali Weber esige, quasi minacciosamente, dal lettore-ascoltatore una risposta negativa.

Debbo aspettarmi – egli difatti scrive – che si trovi realmente della gente capace di affermare che questioni come: un fatto concreto avviene così o altrimenti? perché lo stato di fatto concreto in esame si è configurato così e non altrimenti? a un determinato stato di fatto ne segue di solito un altro, secondo una regola dell’accadere effettivo, e con quale grado di probabilità? non sarebbero fondamentalmente diverse, per quanto riguarda il loro senso, da questioni come: che cosa si deve (solle) fare praticamente in una situazione concreta? da quali punti di vista quella situazione può apparire praticamente auspicabile oppure no? vi sono proposizioni (assiomi), in qualche modo formulabili in termini generali, ai quali si possano ricondurre questi punti di vista?[7]

E subito dopo continua:

Debbo inoltre aspettarmi che si possa sostenere che la questione della direzione in cui una situazione di fatto concretamente data (o in generale una situazione di un dato tipo abbastanza determinato) si svilupperà con probabilità e con quale misura di probabilità (cioè la questione di come suole svilupparsi in modo tipico) non sarebbe fondamentalmente diversa dall’altra questione, se cioè si debba contribuire affinché una determinata situazione si sviluppi in una determinata direzione, sia quella di per sé probabile, oppure quella contraria o un’altra qualsiasi?[8]

La domanda conclusiva è comprensibilmente rivolta al campo delle scienze sociologiche ed economiche, che Weber intende, dicevamo prima, come Kulturwissenschaften o, se si vuole aderire alla terminologia da lui adoperata nel secondo decennio del novecento, come scienze il cui oggetto specifico (non unico, ma caratterizzante) è l’agire, inteso come quella porzione del fare, subire o tralasciare umano al quale chi fa, subisce o tralascia di fare attribuisce soggettivamente un senso.[9] Questo comporta che il soggetto conoscente delle scienze dell’agire sia al contempo un soggetto in grado di agire, ossia di attribuire soggettivamente un senso a una porzione del suo fare, subire o tralasciare: comporta, cioè, che il soggetto delle scienze della cultura sia un Kulturmensch, dotato della capacità e della volontà di attribuire un senso a una porzione del divenire privo di senso che lo circonda e lo attraversa.[10] Ma riconoscere tale innegabile presupposto non equivale certo a schiacciare le proposizioni delle scienze della cultura (o delle scienze dell’agire) come scienze empiriche sui giudizi di valore e sulle prese di posizione pratiche del soggetto conoscente.

Debbo aspettarmi infine – Weber difatti scrive – che si possa sostenere che la questione dell’opinione che determinate persone in certe circostanze concrete, o un numero indeterminato di persone nelle medesime circostanze, si formeranno con probabilità (o perfino con certezza) su un problema di qualsiasi specie [il tema del senso soggettivamente intenzionato dall’agente come oggetto specifico della sociologia], non sarebbe fondamentalmente diversa dall’altra questione, se cioè questa opinione, formatasi con probabilità o sicurezza, sia corretta [quale che sia il modo di intendere quest’ultimo termine, quale che sia cioè il parametro adottato]?[11]

Avvertiamo senza dubbio alcuno la forza di queste ingiunzioni. E tuttavia dobbiamo essere consapevoli, come Weber senz’altro era, che la loro capacità persuasiva non è atemporale e astorica. Basti, ad esempio, pensare che i filosofi antichi avrebbero risposto senza esitazione alcuna che una scienza (e in particolare una “scienza dell’uomo”) la quale non dicesse all’uomo come vivere e comportarsi per corrispondere alla sua essenza più profonda sarebbe perfettamente inutile. Proprio in questo senso per Platone l’oggetto dell’episteme sono le idee e l’idea delle idee è l’idea del Bene. La potenza degli interrogativi retorici weberiani, la cogenza delle risposte negative che essi pretendono, è legata a filo doppio, come Weber stesso ci dice in Wissenschaft als Beruf, a «un dato di fatto imprescindibile della nostra situazione storica, al quale, se vogliamo restare fedeli a noi stessi, non possiamo sfuggire».[12] Esso consiste in ciò che «la scienza» è «oggi»: «una professione esercitata in modo specialistico al servizio dell’autoconsapevolezza [letteralmente, “riflessione su di sé”: Selbstbesinnung][13] e della conoscenza di connessioni fattuali, e non un dono grazioso di visionari e di profeti dispensatore di beni di salvezza [un sapere religiosamente rivelato e dotato di valenza soteriologica]» e nemmeno «un elemento della meditazione di saggi e filosofi sul senso del mondo»,[14] meditazione che Weber esemplifica lungo una successione che va dalla  scienza come «via al vero essere» dei greci fino alla scienza come «via alla vera felicità» e alla vera umanità del positivismo ottocentesco.[15]

Così si configura la scienza per chi voglia fissare «il volto severo del destino del tempo»,[16] un tempo, il nostro, in cui è giunto in qualche modo alle sue estreme conseguenze – dapprima «nella cultura occidentale»[17] e poi per suo tramite al livello planetario – un processo molto complicato e multifattoriale di cui la scienza stessa, e specie la scienza moderna, ha costituito «una frazione, e invero la frazione più importante»,[18] «un elemento e una forza motrice»:[19] si tratta, come Weber dice, del processo di «intellettualizzazione», di «razionalizzazione intellettualistica», congiunto a filo doppio e in ultima istanza indistinguibile dal «processo di disincantamento».[20] Incontriamo dunque il secondo termine presente nel titolo di questo intervento. Mi soffermerò qui molto rapidamente, e solo “funzionalmente”, sull’ampio tema del “processo di disincantamento” in Weber, saltando a piè pari il problema enorme delle diverse e diversamente interagenti forme di razionalità che ad esso cooperano, e limitandomi a mettere in rilievo due cose.

In primo luogo, voglio porre in evidenza che il “punto zero” del processo in questione è rappresentato secondo Weber non già dal mondo appena evocato delle religioni profetiche e della filosofia, ma dal “mondo magico” (per adoperare, in maniera del tutto libera, il titolo della celebre monografia di Ernesto De Martino del 1948), un mondo rispetto al quale le religioni profetiche e la filosofia “laica” (laddove si sviluppa) operano una prima e importantissima forma di disincantamento. In Scienza come professione, dopo aver notato che i cosiddetti selvaggi hanno mediamente una conoscenza attuale delle loro condizioni di vita quotidiane (ossia del funzionamento degli utensili che adoperano e delle istituzioni entro cui vivono) superiore a quella degli uomini civilizzati, i quali (posto che non siano ingegneri o economisti) non saprebbero rispondere a chi chiedesse come funziona il tram che prendono ogni giorno o perché il denaro che spendono ogni giorno consente loro di comprare qualcosa, Weber difatti scrive:

La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa […] una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita alle quali si sottostà. Essa significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza, cioè che non sono in gioco, in linea di principio, delle forze misteriose e imprevedibili, ma che si può invece – in linea di principio – dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare gli spiriti o per ingraziarseli, come fa il selvaggio per il quale esistono potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e il calcolo razionale.[21]

In secondo luogo, voglio rilevare – procedendo, lo ribadisco, per titoli – che il disincantamento radicale del nostro tempo si è ormai lasciato alle spalle il frutto più maturo del disincantamento originario del mondo magico che la religione profetica e la filosofia hanno innescato facendo entrambe perno, tra le altre cose, su alcuni processi già presenti in svariate forme d’intellettualismo sacerdotale. Si è cioè lasciato alle spalle l’idea di una struttura di senso unitaria oggettivamente iscritta nella vita e nel mondo, negli avvenimenti sociali e in quelli cosmici, cui l’uomo e i gruppi umani debbono conformare la loro condotta di vita se vogliono, per esprimerci in termini religiosi, ottenere la “salvezza”.[22] Questa situazione, e nessun’altra, sta dietro la famosa metafora del nuovo «politeismo»,[23] nel cui orizzonte nessuna forma di sapere può dare una risposta all’enorme «problema di vita»[24] che ciascuno deve affrontare se non vuole semplicemente e inconsapevolmente lasciarsi vivere: «la necessità di decidere» tra «punti di vista ultimi possibili in generale di fronte alla vita», posta «l’inconciliabilità e quindi l’insolubilità della [loro] lotta».[25] A tale questione non è oggi possibile trovare risposte in un’aula universitaria che voglia rimanere tale, con buona pace di quell’uomo di scienza che si ritiene «di spirito profetico dotato»,[26] dimenticando tuttavia che ai profeti è stato detto «“esci per le strade e parla pubblicamente”»,[27] parla cioè dove le parole sono in primo luogo azioni e strumenti di lotta. Proprio questo è il motivo per il quale la scienza del nostro tempo non è più «un dono grazioso di visionari e di profeti dispensatore di beni di salvezza», e nemmeno «un elemento della meditazione di saggi e filosofi sul senso del mondo».[28]

 

3. Tutto ciò non vuol dire però – è questa la convinzione di Weber – che la scienza, così come oggi si configura, non abbia nulla da offrire «di positivo alla “vita” pratica e personale».[29] Anzitutto, proprio perché si configura così come oggi si configura, separando, per dirla alla buona, ciò che è da ciò che, in qualsiasi senso, dovrebbe essere o che vorremmo che fosse, «la scienza offre conoscenze relative alla tecnica per dominare razionalmente la vita, gli oggetti esterni al pari dell’agire dell’uomo» [dominare relativamente, s’intende, e nella misura sempre mobile della conoscenza delle connessioni fattuali a sua disposizione: Weber lo sapeva bene, ed è il caso di ribadirlo sempre di nuovo, e in particolare oggi, dato che, a quanto sembra, il salto di specie evolutivamente fortunato di un virus da un pipistrello a un pangolino e da un pangolino a un frequentatore del mercato di Wuhan, ha messo in scacco l’umanità intera] e offre anche «l’attrezzatura e la formazione in vista di questo scopo», vale a dire i cosiddetti «metodi del pensiero».[30] Non a caso già Francesco Bacone riteneva che è possibile comandare alla natura solo se le si obbedisce, ossia solo se si individuano freddamente le sue leggi per orientarsi nel mondo sulla loro base. È ad esempio innegabile che le conoscenze scientifiche abbiano nel complesso offerto, nelle drammatiche circostanze attuali, strumenti insostituibili per contrastare e contenere la pandemia, almeno a chi ha ritenuto opportuno prenderle in adeguata considerazione.

In altri termini la scienza, nella sua configurazione attuale, può fornire alla vita pratica indicazioni straordinariamente utili sui mezzi da mettere in campo per raggiungere un determinato scopo quale che sia. Tali indicazioni sono naturalmente legate allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, per loro natura sottoposte a un continuo e mai compiuto progredire (e dunque, singolarmente prese, anche a una continua e mai eludibile obsolescenza).[31] Ma non c’è dubbio che esse presentino, nonostante ciò, o forse proprio perciò, un grado formidabile di correttezza tecnico-oggettiva, testimoniato dall’inestricabile e fecondissima connessione tra la scienza moderna e la tecnica moderna.

Ciò che però la scienza, nella sua attuale configurazione, non può fornire alla vita pratica e personale è un’indicazione sugli scopi ai quali tendere. A questo proposito Weber precisa in un passo di Der Sinn der “Wertfreiheit”:

Ci si può naturalmente mettere d’accordo, prima di una discussione [d’ordine pratico condotta con argomenti scientifici] sul fatto che una determinata misura pratica – per esempio  la copertura delle spese di un aumento dell’esercito attingendo soltanto alle tasche dei possidenti [Weber scrive in tempi di guerra, ma potremmo oggi avanzare un altro esempio: il contrasto alla diffusione della pandemia nel nostro paese e in Europa] – debba essere il “presupposto” della discussione stessa, e che si debba quindi discutere semplicemente dei mezzi necessari per attuarla. Ciò è anzi spesso opportuno. Ma una siffatta intenzione pratica, presupposta di comune accordo, non la si chiama un “fatto” [scientificamente attestato o attestabile], bensì “uno scopo stabilito a priori” [non certo dalla scienza].[32]

Tuttavia, sempre nel saggio sul senso della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche, Weber prosegue il proprio ragionamento aprendo a guardar bene il discorso su un possibile apporto della scienza alla vita pratica e personale che eccede quello stricto sensu “tecnico”.

Che si tratti di cose diverse anche nella sostanza – egli scrive con acume – risulterebbe ben presto nella discussione sui “mezzi” – salvo che lo “scopo presupposto” come indiscutibile fosse tanto concreto come accendersi un sigaro. In tal caso anche i mezzi hanno di rado bisogno di discussione. In quasi ogni caso di un’intenzione formulata in termini generali, come in quello prima scelto come esempio [ma poniamo mente al nostro esempio che ci sta drammaticamente vivido davanti agli occhi: la generale intenzione di contenere e contrastare la diffusione del Covid-19 nel nostro paese e in Europa], si farà invece l’esperienza che nella discussione sui mezzi non soltanto appare chiaro che i vari individui hanno inteso, sotto quello scopo che si riteneva preciso, qualcosa di completamente [o almeno in una certa misura] diverso, ma in particolare risulta che proprio il medesimo scopo è voluto per motivi ultimi differenti, e che ciò influenza la discussione sui mezzi.[33]

Weber afferma quindi due cose. La prima è che molto spesso nella discussione sui mezzi che è condotta con argomenti scientifici emerge che i parlanti hanno inteso, sotto lo scopo assunto fin dall’inizio come presupposto comune, qualcosa di diverso, e che questa diversità incide nella discussione stessa. Si pensi all’intenzione formulata in termini generali, ma anche generici, del contenimento e del contrasto del Covid-19 in Italia e in Europa su cui apparentemente tutti concordano. Quando si discute (con l’aiuto degli “esperti”) sugli strumenti da mettere in campo per attuarla, è facile trovarsi di fronte a preferenze tra loro molto diverse a seconda che tale intenzione generica sia specificamente declinata dal punto di vista di chi è eminentemente preoccupato della salute propria e dei propri cari, o dal punto di vista dell’imprenditore che deve e vuole assicurare la prosecuzione dell’attività della propria impresa, o dal punto di vista del lavoratore del settore privato preoccupato di perdere il proprio posto di lavoro, o dal punto di vista dell’uomo politico attento al consenso del proprio specifico bacino di elettori, e ciò per i motivi più vari, nel caso migliore al fine di conseguire il potere che gli è necessario per realizzare il “bene” della società nel suo complesso, determinato (naturalmente) a partire da quelle che sono le sue peculiari convinzioni di fondo, e così via, in un elenco che potrebbe allungarsi a dismisura.

Weber nota però anche un’altra cosa. Nota cioè che, nel corso della discussione sui mezzi condotta con argomenti scientifici, emerge pure che i parlanti hanno voluto lo scopo assunto fin dall’inizio come presupposto comune per motivazioni ultime differenti e che anche questa diversità incide sulla discussione in questione. Si pensi ancora all’intenzione formulata in termini generali, ma anche generici, del contenimento e del contrasto del Covid-19 in Italia e in Europa su cui apparentemente tutti concordano. Nel corso della discussione “scientifica” sugli strumenti da mettere in campo, tale intenzione si configura di nuovo in maniera considerevolmente diversa, riverberandosi sulle decisioni da prendere, se essa è concepita, in base a convinzioni religiose o filantropiche o sociali, come il coerente portato di un legame di solidarietà che lega l’umanità intera, oppure se ciò che essa ha in ultima istanza di mira è la salvaguardia della propria nazione e dello spazio geopolitico in cui la propria nazione è inserita di fronte ad altre nazioni e ad altri spazi geopolitici (si pensi alla “guerra dei vaccini”, la quale concerne la loro scoperta, la loro produzione e la loro distribuzione), oppure se la sua motivazione ultima è quella di scongiurare la minaccia di una violenta recessione economica, minaccia che a sua volta è valutata in modo diverso a seconda che si punti al consolidamento e alla riforma dell’assetto economico mondiale oppure che si ritenga possibile e auspicabile una sua radicale trasformazione, e così via, in un elenco che anche in questo caso potrebbe essere molto lungo.

 

4. Come prima ho accennato, in queste ultime considerazioni di Weber è racchiuso, e per così dire, presupposto un passo in avanti. Esse risultano difatti comprensibili solo se si assume che la scienza nella sua attuale configurazione, la scienza del nostro mondo razionalizzato e disincantato, possa offrire alla vita pratica e personale qualcosa che eccede le conoscenze relative alla tecnica per dominare mediante il calcolo il mondo naturale e sociale. Con ciò, dice non a caso Weber in Wissenschaft als Beruf, «la funzione della scienza non è ancora finita; noi siamo in condizione di aiutarvi a conseguire un ulteriore risultato: la chiarezza. Naturalmente a patto di possederla noi stessi».[34] Ecco, dunque, il terzo dei termini, tra loro connessi, presenti nel titolo di questo intervento. Per cercare di comprendere ciò che Weber intenda, è utile ricordare che già molti anni prima, in un saggio del 1904 intitolato L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, egli aveva affermato che la scienza (allora, a dire il vero, scriveva «la scienza empirica»), pur non potendo «insegnare a nessuno ciò che egli deve [soll]», è in grado di insegnare a chi scelga di ascoltarla «ciò che egli può [le conoscenze relative alla tecnica per dominare gli oggetti esterni al pari dell’agire umano], ma anche – in determinate circostanze – ciò che egli vuole».[35]

Cosa significa? Si tratta anzitutto di qualcosa di connesso a filo doppio con la situazione in cui si trova chi, dovendo decidere in proprio cosa deve fare, tiene conto delle conoscenze scientifiche relative alla tecnica per dominare attraverso il calcolo razionale gli oggetti esterni al pari dell’agire umano. O meglio: si tratta dell’altra faccia della medaglia di questo “tener conto”, che non di rado rimane nascosta e trascurata, e che tuttavia è sempre presente e in linea di principio disponibile. Chi tiene conto delle conoscenze scientifiche in questione, così ragiona Weber, ha mangiato «il frutto dell’albero della conoscenza»[36] e dunque – che lo voglia ammettere o no – si trova in una condizione ben determinata rispetto alla scelta fra le diverse finalità e le diverse prese di posizione che gli stanno di fronte.

«Se si assume tale e tal altra posizione – dice Weber in Scienza come professione – occorre impiegare, secondo le esperienze della scienza, tali e tal altri mezzi per realizzarla praticamente».[37] Semplificando brutalmente: se la scienza accerta metodicamente che, a certe condizioni, il fenomeno A segue in maniera davvero uniforme al fenomeno B, allora, qualora si diano tali condizioni, B è un mezzo tecnicamente corretto per ottenere A.

Ora [ed è questo il punto] questi mezzi possono essere di per sé tali che voi crederete di doverli respingere. Si deve allora scegliere appunto tra lo scopo e i mezzi indispensabili. Lo scopo “giustifica” i mezzi oppure no? Il docente [come uomo di scienza] può mettervi davanti alla necessità di questa scelta [può cioè aiutare chi sceglie a essere “chiaro” anzitutto con se stesso, ossia “consapevole” di ciò che egli stesso vuole veramente],[38] ma non può fare di più, finché vuole rimanere un docente [un uomo di scienza] e non diventare un demagogo [termine che Weber utilizza nel senso etimologico-denotativo di “guida del popolo”, ossia di politico con funzioni direttive autonome].[39]

Nel nostro esempio: assumiamo che i dispositivi di tracciabilità individuale, che sono il portato tecnologico di certe conoscenze scientifiche, debbano in determinate circostanze essere considerate il mezzo assolutamente più efficace per contenere e contrastare la pandemia, come sembra mostrare la loro proficua applicazione in alcuni paesi dell’Estremo Oriente; ciò non toglie che il figlio dell’Occidente moderno, preoccupato di salvaguardare nella misura maggiore possibile la “libertà di movimento” dell’individuo (intesa in senso traslato e al contempo letterale), potrebbe ritenere di doverlo respingere; in ogni caso, posto davanti a una simile opzione e al problema di un’eventuale gradazione dell’impiego dei mezzi in questione, è costretto a determinare e delimitare con chiarezza ciò che dice di volere allorché afferma a gran voce di perseguire lo scopo del contrasto e del contenimento della pandemia in Europa.

Analogamente il docente/uomo di scienza «può naturalmente ancora dirvi: se volete tale e tal altro scopo, allora dovete mettere in conto tale o tal altra conseguenza concomitante che si verificherà in base all’esperienza [scientifica]: è di nuovo la medesima situazione».[40] Si deve scegliere tra lo scopo che si dice di volere e le conseguenze concomitati non volute, inevitabili e non di rado assai sgradevoli. Lo scopo giustifica queste conseguenze concomitanti oppure no? La scienza non può sollevare nessuno dalla scelta, ma può chiarirne lucidamente i termini. Nel nostro esempio: assumiamo che i virologi e gli epidemiologi ci dicano concordemente che l’assoluta cessazione delle attività produttive e di distribuzione (escluse quelle indispensabili) siano in determinate circostanze il mezzo di contenimento e di contrasto più efficace di fronte all’avanzata della pandemia; ma la conseguenza concomitante non voluta di una scelta di questo tipo sulla vita economica (sui lavoratori e sulle imprese) può essere tale, anche a lungo termine, da spingere il decisore politico a ricusarla con fermezza; in ogni caso, posto davanti a una simile opzione e a una sua eventuale gradazione (le zone gialle, arancioni e rosse e il rigore a geometria variabile con le quali si procede a farle rispettare), egli è costretto a determinare e delimitare con chiarezza ciò che dice di volere quando afferma che persegue lo scopo del contenimento e del contrasto della pandemia nel paese.

Già a questo primo livello Weber evidenzia dunque come la chiarezza e l’autoconsapevolezza che la scienza può donare a chi deve scegliere, e anzitutto al decisore politico, non lo sollevino punto dalla responsabilità personale della scelta. Nel saggio sul senso della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche egli difatti scrive: «Già questioni molto semplici – per esempio in quale misura uno scopo debba giustificare i mezzi a esso indispensabili; oppure in quale misura debbano venir messe in conto le conseguenze concomitanti non volute; oppure come si debbano appianare i conflitti tra più scopi voluti o che si devono perseguire, che in concreto contrastano tra di loro – sono in tutto o per tutto oggetto di scelta o di compromesso. Non c’è nessun procedimento scientifico (razionale o empirico) di qualsiasi specie, che possa qui fornire una decisione» e «pretendere di risparmiare all’individuo questa scelta; e non dovrebbe quindi neppure suscitare l’apparenza di poterlo fare».[41] Un monito severo ma importante, che dovrebbe essere tenuto presente da quegli uomini di scienza che oggi ritengono (o mostrano di ritenere) di potersi assumere le responsabilità proprie del decisore politico, ma anche da quei politici che non si limitano a rivolgersi con attenzione alla scienza nello spirito del “conoscere per deliberare” di Luigi Einaudi, ma ritengono (o mostrano di ritenere) di potere scaricare sulle spalle della scienza il peso della responsabilità storica delle scelte da compiere che invece grava interamente sulle loro spalle.

 

5. C’è però un altro punto sul quale Weber insiste con forza. Egli si preoccupa di dissipare la parvenza che le questioni fin qui poste siano, tutto sommato, riconducibili anch’esse a problemi d’ordine tecnico. Potrebbe difatti sembrare a chi considera la questione del rapporto tra gli scopi voluti e i mezzi da mettere in campo per conseguirli o quella del rapporto tra gli scopi voluti e le conseguenze concomitanti non volute da mettere in conto nel processo del loro effettivo conseguimento, che «questi sono pur sempre problemi del genere di quelli che possono presentarsi anche a ogni tecnico, il quale deve decidere in innumerevoli casi secondo il principio del minor male o del meglio relativo».[42] Un esempio classico. Per guarire un paziente da un male molto serio al quale sarebbe rapidamente destinato a soccombere, è necessario sottoporlo a un’operazione lunga e invasiva le cui conseguenze potrebbero metterne a rischio la vita: occorre dunque rendere l’operazione il meno lunga e invasiva possibile senza porne in forse l’efficacia, in modo da rendere il più bassa possibile la probabilità di infauste complicanze post-operatorie.

Tuttavia chi ragiona così dimentica del tutto che per ogni tecnico «una cosa, quella principale, è di solito data: lo scopo».[43] Weber intende dire uno scopo ben definito o almeno sufficientemente definito. Nell’esempio: salvare la vita del paziente. «Non è questo però – Weber scrive – il nostro caso».[44] E ha ragione fin da subito. Difatti in tutte le esemplificazioni prima illustrate il nostro soppesare i mezzi indispensabili e le conseguenze non volute erano sempre volte a una chiara determinazione e delimitazione dello scopo che diciamo (spesso con avventata leggerezza) di volere, per vagliare quale veramente sia lo scopo che vogliamo, se veramente lo vogliamo e in quale misura lo vogliamo.

A tale proposito Weber ritiene però che ogni confusione si dissipi del tutto solo quando giungiamo «di fronte a problemi veramente ultimi», e dunque «alla funzione ultima che la scienza in quanto tale può assolvere al servizio della chiarezza e al tempo stesso ai suoi confini», funzione ultima, egli specifica poco dopo, che è «assolta dalla disciplina speciale [Fachdisziplin] della filosofia e dalle discussioni di principio, per loro essenza filosofiche, delle disciplini particolari [Einzeldisziplinen]».[45] Qui viene direttamente in primo piano il problema dell’effettiva compatibilità di una determinata presa di posizione pratica (e dei mezzi e delle conseguenze non volute che essa comporta) con i punti di vista ultimi che diciamo essere i nostri (spesso, anche in questo caso, con eccessiva leggerezza). Per intenderci bene. Prima abbiamo visto come la scienza empirica, mettendoci davanti ai mezzi necessari e agli effetti collaterali inevitabili di uno scopo che diciamo di volere, può aiutare a chiarire a noi stessi se veramente lo vogliamo ed entro quali limiti lo vogliamo. Ora invece si tratta di concentrare l’attenzione sulla circostanza che la filosofia come disciplina scientifica speciale e le discussioni di principio per loro essenza filosofiche delle discipline scientifiche particolari, considerato uno scopo che diciamo di volere e di fatto vogliamo (assieme ai mezzi indispensabili e agli effetti collaterali non voluti che sono connessi al fatto di volerlo davvero) possono aiutare a chiarire a noi stessi se esso sia effettivamente compatibile con i punti di vista ultimi in generale possibili sulla vita e sul mondo che diciamo essere i nostri. Weber porta a espressione le proprie considerazioni a riguardo in un passaggio giustamente celebre del tessuto argomentativo di Wissenschaft als Beruf.

Noi possiamo, e dobbiamo, anche dirvi – egli afferma – che tale e tal altra posizione pratica può essere derivata con coerenza interna e quindi con serietà, per quanto riguarda il suo senso, da questa e da quest’altra posizione fondamentale ultima conforme a una concezione del mondo – magari da una soltanto, o forse anche da più – ma mai da quella e da quell’altra. Se vi risolvete per questa presa di posizione, voi servite questo dio – per parlare metaforicamente – e offendete quell’altro.[46]

Riprendiamo, da tale punto di vista, un’esemplificazione già adoperata in precedenza: un uso indiscriminato dei mezzi di tracciabilità individuale come strumento per contenere e contrastare la pandemia è compatibile con una “concezione confuciana” (mi sia concessa questa rozza formulazione semplificatoria) della vita umana associata tutta centrata sulla priorità dell’“armonia sociale” rispetto alla libertà individuale, una concezione secondo la quale l’insubordinazione è peggio della crudeltà d’animo, e magari anche con altre concezioni della vita e del mondo, ma “offende” irrimediabilmente una divinità del moderno Occidente, la sacertà della “libertà di movimento” dell’individuo.

Come uomini di scienza, continua Weber, «possiamo quindi, se comprendiamo bene il nostro compito (il che deve essere qui presupposto) costringere l’individuo, o per lo meno aiutarlo, a rendersi conto del senso ultimo del suo agire», e aggiunge:

Questo non mi sembra poco, anche per la vita pratica e personale. Se un docente [in quanto uomo di scienza] riesce in questo compito, sono tentato di dire che si è messo a servizio di potenze “etiche”: del dovere di promuovere la chiarezza e il senso di responsabilità; e credo che sarà tanto più capace di assolvere tale funzione quanto più coscienziosamente evita da parte sua di imporre o di suggerire all’ascoltatore una presa di posizione.[47]

Ich bin versucht zu sagen (sono tentato di dire): è molto importante registrare questa esitazione, questo “moto di pudore” nel dire quello che sta per dire tirando in ballo la nozione di “potenze etiche”. Difatti Weber sa bene che, se la scienza non può dirci cosa dobbiamo fare, allora essa non può nemmeno dirci se dobbiamo ascoltarla affinché ci aiuti a chiarire a noi stessi ciò che vogliamo veramente fare. Tuttavia è probabile che, posto di fronte a un simile dilemma, ogni uomo di scienza che miri a conferire un senso interiore complessivo alla propria attività professionale (presupposto, questo, che oggi mi sembra tutt’altro che scontato) potrà dire con Weber: «personalmente io rispondo in modo affermativo, già col mio proprio lavoro».[48]

 

 

[1]* Il testo riproduce, con alcune modifiche e con un titolo lievemente variato, quello redatto in origine per il volume collettaneo G. Sgro’ - F. Vinci (a cura di), Con Weber oltre Weber. L’opera di Max Weber a cento anni dalla morte, Napoli - Salerno, Orthotes (collana «Germanica», 39), 2022.

 G.K. Chesterton, Tom Jones and Morality (pezzo scritto in occasione del bicentenario della nascita di Henry Fielding), in Id., All Things Considered, London, Methuen & co., 1908, pp. 259-266, p. 259. Secondo Chesterton «questo genere di oblio è solo un altro nome per la gloria» (ibidem).

[2] M. Cacciari, Di fronte ai classici, Milano, Rizzoli, 2002, p. 23.

[3] Mi sembra che un intento analogo, e ancor prima un moto interiore simile, sia alla base del saggio di H. Bruhns, The Pandemic and Max Weber, «Max Weber Studies», 20/2, 2020, pp. 209-218.

[4] M. Weber, Der Sinn der “Wertfreiheit” der soziologischen und ökonomischen Wissenschaften, in Max Weber Gesamtausgabe (d’ora in poi: MWG), I/12: Verstehende Soziologie und Werturteilsfreiheit. Schriften und Reden 1908-1917, hrsg. von J. Weiß in Zusammenarbeit mit S. Frommer, Tübingen, Mohr, 2018, pp. 441-512 (d’ora in poi: SW), p. 471; tr. it. Il senso della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche, in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, pp. 541-598: p. 582.

[5] SW, p. 472; tr. it. cit., p. 565.

[6] SW, p. 472; tr. it. cit., p. 566.

[7] SW, pp. 471-472; tr. it. cit., p. 565.

[8] SW, p. 472; tr. it. cit., p. 565.

[9] Cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Soziologie. Unvollendet 1919-1920, MWG, I/23, hrsg. von K. Borchardt, E. Hanke und W. Schluchter, Tübingen, Mohr, 2013, p. 149 e p. 175; tr. it. Economia e società, 5 voll., a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1995, vol. I, p. 4 e p. 21.

[10] Cfr. M. Weber, Die “Objektivität” sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis (1904), in MWG, I/7: Zur Logik und Methodik der Sozialwissenschaften. Schriften 1900–1907, hrsg. von G. Wagner in Zusammenarbeit mit C. Härpfer, T. Kaden, K. Müller und A. Zahn, Tübingen, Mohr, 2018, pp. 135-239, pp. 188-189; tr. it. L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in Id., Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, cit., pp. 147-208: p. 179.

[11] SW, p. 472; tr. it. cit., p. 565.

[12] A tale proposito cfr. M. Weber, Wissenschaft als Beruf, in MWG, I/17: Wissenschaft als Beruf 1917/1919 – Politik als Beruf, 1919, hrsg. von W. J. Mommsen und W. Schluchter in Zusammenarbeit mit B. Morgenbrod, Tübingen, Mohr, 1992, pp. 49-111 (d’ora in poi: WaB), p. 105; tr. it. La scienza come professione, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, a cura di P. Rossi e F. Tuccari, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, pp. 1-40: p. 35.

[13] Faremo ritorno in modo approfondito su questa potenziale e importantissima prerogativa della scienza quale oggi si configura.

[14] WaB, p. 105; tr. it. cit., p. 35.

[15] WaB, p. 93; tr. it. cit., p. 22.

[16] WaB, p. 101; tr. it. cit., p. 31.

[17] WaB, p. 87; tr. it. cit., p. 17.

[18] WaB, p. 86; tr. it. cit., p. 16.

[19] WaB, p. 87; tr. it. cit., p. 17.

[20] WaB, pp. 86-87; tr. it. cit., pp. 16-17.

[21] WaB, pp. 86-87; tr. it. cit., p. 17.

[22] Cfr. M. Weber, Religiöse Gemeinschaften, MWG, I/22 (Wirtschaft und Gesellschaft. Die Wirtschaft und die gesellschaftlichen Ordnungen und Mächte. Nachlaß), Teilband 2, hrsg. von H.G. Kippenberg in Zusammenarbeit mit P. Schilm, Tübingen, Mohr, 2001, pp. 193-194; tr. it. Economia e Società. Comunità religiose, a cura di M. Palma, Roma, Donzelli, 2006, pp. 81-82.

[23] WaB, p. 97; tr. it. cit., p. 27.

[24] WaB, p. 100; tr. it. cit., p. 30.

[25] WaB, pp. 104-105; tr. it. cit., p. 34.

[26] Al pari del «calavrese abate Giovacchino» del canto XII del Paradiso dantesco (vv. 140-141).

[27] WaB, p. 97; tr. it. cit., p. 27. Weber cita liberamente Geremia 2, 2 ove il Signore dice al suo inviato: «Va’ e predica pubblicamente a Gerusalemme» («Gehe hin und predige öffentlich zu Jerusalem»). In una traduzione diversa da quella luterana: «Va e grida alle orecchie di Gerusalemme».

[28] Cfr. supra, nota 14.

[29] WaB, p. 103; tr. it. cit., p. 33.

[30] Ibidem.

[31] Cfr. WaB, p. 85; tr. it. cit., pp. 15-16.

[32] SW, p. 461; tr. it. cit., p. 556.

[33] SW, p. 461; tr. it. cit., pp. 556-557.

[34] WaB, p. 103; tr. it. cit., p. 33.

[35] M. Weber, Die “Objektivität” sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, cit., p. 149; tr. it. cit., p. 153.

[36] SW, p. 470; tr. it. cit., p. 563.

[37] WaB, p. 103; tr. it. cit., p. 33.

[38] Cfr. supra, nota 13.

[39] WaB, p. 103; tr. it. cit., p. 33. A proposito dell’impiego weberiano del termine Demagoge cfr. ad esempio M. Weber, Politik als Beruf, in MWG, I/17, cit., pp. 113-252: p. 191; tr. it. La politica come professione, in Id., La scienza come professione. La politica come professione, cit., pp. 41-113: p. 68: «Dall’epoca dello stato costituzionale e soprattutto della democrazia il “demagogo” rappresenta in Occidente il tipo del capo politico. Lo sgradevole sapore evocato da questo termine non deve farci dimenticare che non Cleone, bensì Pericle fu il primo a portare questo nome. Privo di cariche, oppure insignito dell’unica carica elettiva di supremo stratega in contrasto con le cariche assegnate per sorteggio dell’antica democrazia, egli guidò l’ecclesia sovrana del demos di Atene».

[40] WaB, pp. 103-104; tr. it. cit., p. 33.

[41] SW, p. 471; tr. it. cit., p. 564.

[42] WaB, p. 104; tr. it. cit., p. 33.

[43] WaB, p. 104; tr. it. cit., pp. 33-34.

[44] WaB, p. 104; tr. it. cit., p. 34.

[45] Ibidem.

[46] Ibidem.

[47] Ibidem.

[48] WaB, p. 105; tr. it. cit., p. 35.

 

 


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SCIENZA , DISINCANTAMENTO , CHIAREZZA , WEBER


Categoria

Filosofia

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