Gli amici di Catania mi hanno dato una prova, una delle tante, di amicizia e di considerazione quant’anche di grande difficoltà, che s’immerge nel dolore per la consapevolezza di essere, questa volta davvero, inferiore al compito, pur esile, che mi viene affidato: sostituire Giuseppe Giarrizzo nell’annuncio della ripresa della Rivista che fu sua e che Giancarlo Magnano San Lio, con squisitezza di giovane amico, ha deciso di riprendere proprio in omaggio a Giarrizzo, di cui si è fatto allievo, allievo vero per quanto non abbia seduto ai piedi della sua cattedra.
Tenterò di farlo – e chiedo scusa per la forma prescelta, ma in questo momento non saprei fare altro, come pure farò appena la conseguita oggettivazione avrà destato in me la sua forza interpretativa – dando l’immagine che, nell’immediato, mi viene innanzi dell’Amico antico, tra lo scuotimento dei sentimenti e dei ricordi, che sono tanti, tantissimi, infiniti, quanti ne conta l’amicizia durata esattamente cinquant’anni. E che ha coinvolto, con noi, altre due persone, le quali, diversamente ed egualmente, sono state per noi due determinanti, Libera e Mary, non a caso divenute amiche fraterne, a completare l’amicizia fraterna di Pippo e mia.
Mi si lasci iniziare proprio con la citazione di una lettera di Mary del 2002, indirizzata a un altro comune amico, in occasione della morte della moglie di lui: «Dopo Libera, Aida. La sera in cui, guidati da Fulvio, potemmo visitare la tomba di Libera, giurai che non sarei più tornata a Napoli: lo ripetei piangendo a Pippo la sera stessa in albergo». «Napoli era diventata negli anni un luogo dedicato agli affetti, Posillipo e il Vomero stazioni di un viaggio circolare che non aveva perciò partenze o capolinea. Era così facile e semplice svestirsi, nella confidenza, dell’abito che sotto la pioggia aveva perduto forma e colore: per sentirselo riconsegnare, al momento del congedo, più saldo e aderente della prima volta». E fu vero, Mary non venne più a Napoli. La incontravo solo a Catania o altrove, dove i comuni impegni scientifici di Pippo e miei ci portavano.
Perché ho iniziato con questa citazione? Perché io non posso essere capito da chi non ha conosciuto la costante dissacrazione che Libera usava con me, realizzando, con intelligenza acutissima e affettuosa, il difficile esercizio di partecipare, senza condizionarlo, al mio lavoro di Preside o di Rettore. Perché non capisce davvero compiutamente Pippo chi non ha conosciuto la correzione continua che, con gentilezza e affetto finissimo, Mary praticava delle irruenze di Pippo. E Pippo lo sapeva e ne profittava, come tante volte mi ha detto. Già questo offre ancora una ragione del ricordo e apre uno spiraglio per entrare nella complessa personalità di Pippo. Poche volte ho incontrato un uomo tanto compattamente consapevole di sé, delle sue grandi doti e insieme dei suoi limiti. Una consapevolezza che gli dettava la continua interrogazione di sé e degli interlocutori privilegiati nelle discussioni alluvionali che non stancavano, perché incantavano.
Pippo era un uomo impaziente, impazientissimo per la straordinaria forza della sua intelligenza, intellettualmente aggressiva. Una volta, aprendo il dibattito, dopo una sua lezione a Napoli, il mio maestro (che molto stimava Pippo, il quale lo riteneva uno dei suoi maestri, così come egli concepiva i maestri), Pietro Piovani, ricordò che per comune convinzione pochi spettacoli al mondo sono più entusiasmanti, paurosi e attraenti di un’eruzione dell’Etna in una notte d’estate. E completò l’immagine aggiungendo: «Allo stesso modo, poco fa, abbiamo assistito allo spettacolo superbo di una intelligenza eruttiva». L’intelligenza di Pippo era spietatamente aggressiva, perfino ‘cattiva’ nel contestare pensieri che non lo convincevano, ed anche qui potrei citare a lungo uomini e cose. Però questa intelligenza era temperata e insieme rafforzata dalla gentilezza nascosta e dalla bontà nascosta di Pippo, mai esibite entrambe. E tuttavia usate sempre con generosità. Chi l’ha conosciuto davvero deve dire che anche le sue critiche ‘cattive’ erano sempre rispettose, pronte all’autocritica. La polivalenza della intelligenza di Pippo, aggressiva e gentile, dura e buona, era l’espressione della sua personalità anche di storico.
Certo egli fu, volle essere e dichiarava di essere uno ‘storico moderno’. Ma come? Come fare a definirlo nella sua straordinaria eccezionalità? Certo egli fu un esponente di una stagione che può esser messa sotto il segno dell’interesse per i nessi reciproci: ‘storia antica e storiografia moderna’, o ‘storia moderna e storiografia antica’. In tanti storici egregi, di cui è inutile qui ricordare i nomi, questo nesso era la connessione di interessi diversi, molteplici e convergenti grazie alla perizia delle ricerche praticate. In Pippo era altra cosa: non era connessione, era identità, l’identità della sua personalità di storico. Fu allievo diretto di Santo Mazzarino e qualche volta vorrò ricordare il suo racconto straordinario di quando, studente universitario, scriveva al professore osservazioni e obiezioni circa le lezioni che ascoltava, tanto acute che fu scambiato dal maestro per un professore, come lo chiamava rispondendogli, sempre per lettera, fino a quando, per conoscerlo, lo invitò a colazione a casa sua. Ed egli andò e confessò il suo essere uno scolaro. Il che Mazzarino ascoltò quasi con indifferenza e lo portò a pranzare, anche se Pippo diceva divertito che fu un banchetto storico, non culinario. Fu allievo indiretto di Arnaldo Momigliano, di Gaetano Salvemini, di Federico Chabod, come egli diceva. Fu interprete del ‘moderno’ grazie all’‘antico’ non solo per i suoi interessi di studio, bensì per il suo modo di intendere il ‘moderno’, incomprensibile senza l’‘antico’, non però per ragioni di ereditarietà culturale. In ciò si rivela l’identità di Pippo, la filologia, devo dire la ‘filosofia della filologia’ intesa come ‘nuova arte critica’. Da qui una delle presenze non solo costanti, ma di quelle senza cui non si intende il suo fare storia, la sua idea della storiografia: Giovambattista Vico.
Se la sua prima grande monografia su Gibbon (1954), che bisogna definire giovanile solo per convenzionalità cronologica, non si capisce se non si sa vederla come una grande narrazione di tardo antico, cristianesimo e modernità illuministica attraverso gli interessi e le idee del grande storico inglese, gli scritti su Vico del 1962 e del 1968, fino al 1982 e poi in avanti, sono davvero quelli nei quali egli ha riversato tutto se stesso. Almeno per due ragioni. Vichianamente, anche grazie al suo essere filologo nel senso che ho sopra detto, Pippo non era interessato al vero ma al certo. Senza dubbio vichianamente anche per lui verum et certum convertuntur. E però egli capì, come non hanno capito tanti ‘filosofi’, che per Vico non è il certum pars veri, bensì il verum pars certi, come per altro aveva inteso un altro grande filologo, Erich Auerbach. Ed è in questa intelligente lettura di Vico che si rivela lo storicismo di Pippo. Che era dato dall’intendere la filologia, come a me piace dire (e Pippo condivideva), quale «scienza etica della storia». Ossia, nella versione di Pippo la chiave per intendere la «storia ideale eterna su cui corrono in tempo le storie delle nazioni», ossia la chiave per capire la tendenzialità della ‘storia universale’ attraverso le ‘storie particolari’, vale a dire la ‘totalità’ della storia, che Pippo cercava, tentando di non smarrire il crociano «momento del particolare».
Ed è da questo storicismo vichiano che si capisce la nostra vicinanza, in colloquio continuo, costante, che egli ha voluto suggellare con la dedica affettuosa a me di un libro che, poco prima di morire, mi ha consegnato, perché fosse pubblicato.
Un’ultima osservazione. Pippo aveva fondato come pochi il nesso storicistico storia/storiografia, convinto di ciò con Croce, ma anche, come diceva, grazie allo Historismus tedesco, avvicinato attraverso i miei studi. Egli fu perciò un grande storico della storiografia. Lo mostrano, ad esempio, i saggi raccolti nel volume che volli curare per i suoi settant’anni e ne fu felice, come mi disse in una lettera affettuosa, La scienza della storia, edito a Napoli nel 1998. Ma soprattutto lo mostra il suo splendido, complesso e difficile disegno di una Storia della storiografia italiana dall’Ottocento al Novecento. Vi ha lavorato costantemente almeno dagli anni ’80. Ne conservo due redazioni, che mi inviò perché le leggessi. E pure non l’ha mai completata e pubblicata. Bisognerà farlo, ora che egli non è più, perché questo lavoro, pur forse incompleto, pur forse complicato dal suo continuo scriverlo e riscriverlo, credo sia indispensabile per conoscerlo compiutamente. Per finire devo aggiungere due altre osservazioni. Credo che Pippo non pubblicò questa storia della storiografia perché non era solo un lavoro scientifico di ricostruzione originale. Era la sua autobiografia intellettuale e morale, la testimonianza scritta del suo continuo ricercare maestri e compagni di viaggio, interrogandoli per interrogare se stesso. Come si sa è sempre difficile, difficilissimo pubblicare la propria autobiografia, almeno per chi non è vanitoso e stupidamente ambizioso, come Pippo assolutamente non fu. Questo libro va pubblicato anche per altro, che oggi posso rendere pubblico, come tante volte gli ho detto in privato. Nella mattinata che mestamente trascorsi con lui, accanto al letto di morte di Mary, quando non volle vedere altri che me, mi disse piangendo che Mary gli aveva contestato di non averle mai dedicato un lavoro. Aggiunse che non lo aveva fatto (ma che ormai riteneva di poterlo fare) perché voleva dedicarle la Storia della storiografia italiana, che sentiva come il suo libro. Credo che i figliuoli e noi suoi amici abbiamo il compito di pubblicare queste pagine, anche perché esse vanno collocate accanto alla nobile iniziativa di Giancarlo Magnano San Lio e dell’Università di Catania di riprendere «Siculorum Gymnasium», la rivista di Pippo.
So bene di avere scritto pagine squilibrate, incerte, presuntuosamente costrette al cattivo gusto dell’autocitazione. Sono le note di una amicizia durata una vita, nel corso della quale Pippo è stato per me e per i miei allievi un riferimento costante. Tante volte, moltissime volte quando ho scritto o scrivo mi sono sorpreso a pensare che facendolo, consapevolmente o meno, pensavo a lui, al suo giudizio scrutatore, rigoroso e severo di maestro e di amico insostituibile. Questi poveri pensieri, intrisi di nostalgia, di malinconia, di dolore nascono da qui, e perciò sono ricordi indissociabili da Libera, da Mary. Mi siano perdonati per la loro pochezza in ragione della loro autenticità.
UNIVERSITÃ DI CATANIA , FACOLTÃ DI LETTERE E FILOSOFIA , GIUSEPPE GIARRIZZO
Nessuna
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