Ognuno di noi ne può fare esperienza diretta. Il mondo è cambiato e continua a cambiare a un ritmo accelerato. E i suoi cambiamenti hanno fatto esplodere i limiti, i contenuti e l’organizzazione interna dei saperi: non solo quelli delle conoscenze e delle scienze cosiddette ‘naturali’, ma anche, e forse ancor di più, quelli dei saperi sull’uomo nella sua duplice dimensione di individuo, allo stesso tempo singolare e sociale. Basta confrontare la quantità e i limiti dei saperi che ci sono stati trasmessi ed inculcati durante i venti-venticinque anni che abbiamo passato fra scuola e università con quelli che dobbiamo padroneggiare per far fronte, giorno dopo giorno, alle esigenze della ricerca e dell’insegnamento delle nostre singole discipline. Possiamo riconoscere, talvolta idealizzandolo, il mondo da cui veniamo. Molto più difficile, invece, è definire quello verso cui, senza avere altra scelta, andiamo. Cos’è, oggi, infatti, il ‘sapere umanistico’? La risposta a questa domanda non può che essere personale e individuale, strettamente legata a un’esperienza e a un percorso di vita, l’una e l’altro del tutto singolari.
Per me, nel contesto della Francia del dopoguerra, la svolta è giunta alla fine degli anni ’50. Per dirla in breve, alla formazione ultra classica (latino, greco, letteratura francese, filosofia e storia europea), che aveva caratterizzato i miei studi e che costituiva la via d’accesso all’École Normale Supérieure di Parigi (1957), corrispondevano i dibattiti intellettuali dell’epoca, centrati sul rapporto fra filosofia e politica: la scelta, per i giovani che non si volevano accontentare delle risposte liberali e liberiste e che ritenevano indispensabile una qualche forma di impegno politico, era fra le due formule che identificavano l’umanesimo della metà dell’ultimo secolo o col marxismo o con l’esistenzialismo. Tale visione rassicurante e confortevole non ha resistito all’incontro col mondo della ricerca nelle scienze umane e sociali, allora in piena espansione, il cui polo dinamico era, a Parigi, la VI Sezione dell’École Pratique des Hautes Études (EPHE), fondata da Lucien Febvre e Fernand Braudel nel 1948 e diventata oggi l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS). Quel mondo apriva nuovi orizzonti, ma richiedeva, a chi vi volesse entrare, una revisione completa delle proprie vecchie certezze, una forma di rottura col passato, l’acquisizione di nuove conoscenze, la familiarità con nuove discipline, la padronanza di nuovi metodi e concetti e la volontà di superare i limiti dell’eurocentrismo inculcato durante gli studi precedenti, che modellava la propria visione e comprensione del mondo e dei suoi problemi. Lo «humani nihil a me alienum puto» stava cambiando significato: la lotta contro il «nihil» si espandeva in tutte le direzioni.
Più di sessant’anni sono passati da quel momento, e oggi possiamo avere una più giusta misura dei cambiamenti intervenuti nelle culture dei vari paesi. In molti, la barriera fra scienze umane e scienze sociali ha resistito a lungo, con maggiore o minore successo. Così, per esempio, fra Humanities e Social Sciences negli Stati Uniti, dove soltanto una parte degli storici, intorno al 1968, ha scelto di abbandonare il campo delle prime per affermare apertamente la propria appartenenza alle seconde, ma dove, come in tutti paesi anglosassoni, l’espressione Human Sciences viene vista, ancora oggi, come una importazione dal francese. Lo stesso vale per la Germania, dove rimane vivace il dibattito sull’opposizione fra Geisteswissenschaften e Sozialwissenschaften (classificate come ‘empiriche’): un dibattito che ha prolungato quello, iniziato da Dilthey alla fine dell’Ottocento, sull’opposizione fra le prime, centrate sull’individuale e il particolare (‘idiografiche’), e le Naturwissenschaften (‘nomotetiche’). In Francia, invece, almeno dal 1940 in poi, le parole ‘umane’ e ‘sociali’ sono state utilizzate spesso in maniera indifferente, oppure insieme (‘scienze umane e sociali’ o ‘scienze dell’uomo e della società’).
Le rivalità fra le istituzioni accademiche, alle quali era stato affidato il controllo della produzione, dell’approvazione e della trasmissione dei saperi e anche delle carriere accademiche, hanno contribuito quasi dappertutto a mantenere e rinforzare delle frontiere fra aree disciplinari percepite da una percentuale crescente di studiosi come superate, inutili e anacronistiche, e come un appello alla trasgressione. Il risultato è oggi evidente: non soltanto gli studiosi si sono abituati ad andare a cercare fuori dalla loro disciplina esempi, modelli, concetti, interrogazioni da formulare, senza chiedere il permesso di nessuno e senza sentire la necessità di giustificarsi, ma il limite che separava lo studio dei contenuti culturali e quello delle pratiche sociali viene considerato come un ostacolo da ignorare: per limitarci ad un solo esempio, una storia sociale della cultura, o delle culture, ha come complemento necessario una storia culturale della società o delle società. Sono due facce della stessa medaglia. Lo stesso vale per l’antropologia sociale e per quella definita come ‘culturale’. In modo parallelo, la riflessione critica sulla natura stessa dei documenti utilizzati ha abolito la pretesa d’oggettività di tutte le discipline coinvolte, mettendo in evidenza il fatto che sono o delle scoperte casuali o delle costruzioni culturali – delle rappresentazioni – che devono essere trasformate in dati scientifici da inserire in una dimostrazione, così come si fa in un’esperienza di laboratorio.
Questo allargamento del campo stesso delle ricerche sulle società umane, iniziato dalla fine dell’Ottocento, ma intensificato e accelerato dalla metà del Novecento, si è accompagnato ad altri due ampliamenti: il primo cronologico, il secondo spaziale.
Quello cronologico è stato reso possibile dal mutamento scientifico dell’archeologia dopo gli anni ’50. Il metodo stratigrafico è stato fondato su una rivoluzione concettuale che tratta alla pari tutti gli oggetti ritrovati nello scavo – che si tratti di un oggetto d’arte prezioso o di un frammento osseo, di ceramica o di metallo – e che li trasforma in documenti scientifici definiti dalla loro localizzazione in tre dimensioni e dai loro rapporti con tutti gli altri oggetti ritrovati allo stesso livello che ne permettono l’interpretazione. Si è così potuta creare una documentazione del tutto nuova, che rimette in causa il ruolo centrale e quasi esclusivo attribuito all’invenzione della scrittura nella storia delle società umane. I testi scritti hanno perduto il loro monopolio di documenti indispensabili alla scrittura della storia, fondato sul principio, presentato come un’evidenza non discutibile, «senza testi scritti, niente storia». Si è dovuto accettare il fatto che la storia non comincia più intorno al 3300 a.C. a Sumer in Mesopotamia (infatti è a Uruk la prima città-stato), come ci aveva insegnato Samuel Noah Kramer in un celebre libro nel 1956, ma parecchi millenni prima, ovvero intorno al decimo millennio a.C., se si ritiene che l’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento rappresenti una rivoluzione così importante, forse ancor più di quella della scrittura. O parecchie decine di millenni prima, con le prime società di cacciatori raccoglitori, che ci hanno lasciato i primi oggetti e le prime rappresentazioni figurate, chiavi di accesso alle loro credenze e ai loro modi di pensare il mondo, la vita e il tempo. In cinquant’anni il tempo della storia è stato moltiplicato almeno per due (includendo la cosiddetta protostoria); di fatto per molto di più (includendo periodi sempre più lunghi, tradizionalmente abbandonati alla preistoria). Archeologi, antropologi e storici hanno preso l’abitudine di lavorare e riflettere insieme.
Il secondo allargamento, questa volta spaziale, alla totalità della terra, va collegato sia con la tappa più recente del processo di mondializzazione che viviamo adesso, sia anche con le due ‘uscite fuori dall’Africa’, che sono state il punto di partenza della diffusione della specie umana in (quasi) tutte le terre abitabili del mondo. Da molto tempo lo specialista della preistoria non può non pensare e non portare avanti la sua ricerca se non su scala intercontinentale, ragionando su una documentazione molto sparsa e, allo stesso tempo, limitata, che va dai primi frammenti di ossa di origine umana alle pitture rupestri. Ma le conseguenze del cambio di scala spaziale sono particolarmente evidenti per il periodo più recente, dove l’Europa sta perdendo a poco a poco il monopolio della storia. Una storia che aveva concepito e scritto dal suo punto di vista e a suo vantaggio, fin dalle scoperte marittime dell’inizio dell’età moderna e fino alla sua grande espansione coloniale dell’Ottocento. La seconda metà del secolo scorso ha visto succedersi e accumularsi gli effetti: il declino della dominazione europea, la decolonizzazione politica, l’affermarsi del grande dibattito mondiale sul sottosviluppo e, più recentemente, l’emergenza, soprattutto in Asia, di nuove potenze economiche nelle quali si identificavano i grandi attori del secolo attuale. Nel 1979, Fernand Braudel, nel secondo dei suoi tre volumi dedicati alla storia lunga del capitalismo europeo, sottolineava la permanenza di «una diseguaglianza storiografica fra l’Europa e il resto del mondo», sostenendo che «l’Europa ha inventato il mestiere di storico, e l’ha utilizzato a suo vantaggio […]. Siamo appena all’inizio della scrittura della storia della non-Europa». E auspicava, fra essa e l’Europa, il ristabilimento «dell’equilibrio delle conoscenze e delle interpretazioni» (F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVe-XVIIIe siècles, t. 2, Les Jeux de l’échange, Parigi, Armand Colin, 1979, p. 110).
Sarei tentato di dire, oggi, che il processo auspicato da Braudel ha fatto negli ultimi anni dei progressi importanti, ma che gli storici europei (e americani) non hanno fatto ancora lo sforzo indispensabile per appropriarsi dei risultati raggiunti. E si potrebbe fare la stessa osservazione per la letteratura, la sociologia, la linguistica o l’antropologia. Nuove comunità scientifiche sono nate e si sono affermate in molte regioni del mondo. Troppo spesso, tuttavia, non ci prendiamo la briga di leggere i loro lavori. Abbiamo invece molto da imparare, accettando come un fatto positivo ciò che Wolf Lepennies aveva chiamato la «diseuropeizzazione del mondo». È la sola strada che ci permetterebbe di raccogliere gli esiti delle dinamiche in corso: accettare, anzi ricercare un dialogo alla pari è oggi la migliore delle difese contro quella «provincializzazione dell’Europa» di cui parla Dipesh Chakrabarty.
I cambiamenti intervenuti durante gli ultimi sessant’anni hanno profondamente trasformato i contenuti e i programmi delle scienze umane, che si trovano oggi di fronte a nuove sfide che non possono eludere: tocca a loro trovare e dare alle nostre società delle risposte che siano all’altezza della posta in gioco. Se le élites intellettuali e le loro istituzioni accademiche si ritrovano esposte in prima linea, non devono dimenticare che le loro risposte dovranno essere accolte, capite ed accettate dalle società per le quali lavorano, nelle quali vivono e delle quali condividono il destino. Questo significa creare le condizioni di un dialogo e di uno scambio permanenti. Non c’è più nessuna torre d’avorio dove trovare rifugio. Sono mobilitate su tutti i fronti. Da dove veniamo? Dal passato. Dove ci troviamo? Nel presente. Verso dove andiamo? Verso il futuro, quel futuro che oggi è al centro delle maggiori inquietudini e incertezze circa la capacità della specie umana di organizzare la propria sopravvivenza e quella del pianeta Terra, cioè una forma nuova di convivenza con tutte le forme della vita. Non a caso l’antropologia attuale definisce il non-umano come nuovo orizzonte di studio: una sfida di fronte alla quale tutte le scienze umane, o almeno molte di loro, dovranno prendere posizione.
SAPERI UMANISTICI , SCIENZE UMANE
Storia
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