Una delle funzioni universalmente riconosciute alla lingua scritta è quella di assicurare al messaggio verbale una durata nel tempo, cosa che – fino a tempi ancora relativamente recenti – era impossibile quando la comunicazione avveniva soltanto nella realtà parlata. Non a caso, come tutti sanno, alla nascita della scrittura si fa corrispondere l’inizio della storia umana. Il nesso che esiste tra scrittura, storia, memoria e trasmissione del sapere, in particolare per quanto riguarda la cultura umanistica, che trae continuamente linfa vitale dal passato, è dunque evidente e non può essere messo in discussione. Quella che viene a volte messa in discussione è la stessa importanza del sapere umanistico, considerato un ‘lusso’, specie in tempi di difficoltà economiche. Ma forse il problema non è tanto il costo economico del sapere umanistico – che dovrebbe comunque essere valutato in termini diversi da quelli strettamente ragionieristici dei bilanci annuali o semestrali, cercando nuovi parametri (che peraltro gli stessi esponenti della cultura umanistica dovrebbero sforzarsi di individuare, invece di rifiutare di porsi il problema oppure di accettare supinamente che vengano estesi anche al loro campo di studio modelli valutativi buoni per altri ambiti) – quanto la necessità dello stesso sapere umanistico. Qui, infatti, la tradizione, la storia, la diacronia, il ‘passato’ insomma, rivestono grande importanza, nel confronto sia con i saperi scientifici, proiettati verso il futuro e destinati a favorire il progresso e il miglioramento delle condizioni di vita, sia anche con la cultura dell’hic et nunc, con l’esclusivo interesse per il presente, anche nei suoi aspetti palesemente effimeri, proprio della comunicazione mediata dal computer e in genere di vecchi e nuovi media.
Ma non è mio compito in questa sede difendere la cultura umanistica, bensì di dire qualcosa a proposito della memoria (che al passato certamente si lega), con riferimento alla scrittura tradizionale e agli altri attuali strumenti di trasmissione del sapere. Da storico della lingua italiana, vorrei iniziare il mio breve discorso ripercorrendo l’etimologia e il significato del termine memoria e di altre parole italiane ad essa collegate sul piano semantico.
Come ci dice il nuovo Dizionario Etimologico della Lingua Italiana (deli), memoria è una voce dotta – che deriva dal latino memoria(m), di origine indoeuropea – documentata già nel Duecento (anzi, in verità, la prima attestazione è nel Ritmo su Sant’Alessio, della fine del sec. XII), nel senso sia di «facoltà della mente consistente nel ricordare l’esperienza passata», sia anche di «cosa degna di essere ricordata». A questi significati fondamentali si legano quelli, trecenteschi (il primo e il terzo documentati per la prima volta in Dante), di «rappresentazione di qualcosa che si conserva nella mente», di «cosa che ridesta il ricordo e lo fa rivivere» e di «avvenimento che, grazie al ricordo, rivive nella mente» e di «appunto, nota». Più recente è il valore, che la parola esprime soprattutto al plurale, di «opera autobiografica rievocante avvenimenti visti o vissuti». Uno slittamento semantico importante si è avuto nel secondo dopoguerra, come conseguenza delle nuove tecnologie che hanno esteso alle macchine voci in precedenza usate esclusivamente con riferimento all’uomo (e, nella fattispecie, agli animali: è proverbiale la memoria degli elefanti): come leggere e lettore sono stati riferiti anche a strumenti meccanici, così memoria è passato a significare tanto «organo meccanico il quale fa sì che una macchina esegua automaticamente un lavoro predeterminato», quanto soprattutto, «nei sistemi elettronici per l’elaborazione dei dati, organo destinato alla conservazione dei dati o dei programmi, in forma tale da consentirne, a richiesta, l’automatica disponibilità da parte del sistema». Al riguardo, il deli cita opportunamente un passo di un articolo di Costantino Ciampi: »Il linguaggio dell’informatica ha, in effetti, rispolverato parecchie parole già in uso, adoperandole in contesti nuovi, con nuovo significato [...]. È il caso dell’it. memoria (ingl. storage, memory [dal 1946]; fr. mémoire [1969]) che, in virtù di una metafora antropomorfica, ha visto estendere il suo significato fino a indicare, tra le varie parti d’un elaboratore, quei dispositivi sui quali si registrano i dati per conservarli, richiamarli, modificarli o distinguerli (memoria centrale; memorie periferiche; memoria a dischi, a nastri, ecc.)».
In ogni caso, fin dalle origini, la parola è polisemica, cioè ha una gamma di significati. È opportuno considerare altri termini strettamente correlati a memoria: oltre ai derivati (memoriale, memorialista, memorialistica, ecc.), sono da citare il verbo memorare (d’uso letterario, al pari del prefissato rimemorare, forse un po’ più diffuso) e l’aggettivo memore, la cui parentela con memoria è evidente anche sul piano formale. Ma deriva dalla stessa base latina, e propriamente dal latino ecclesiastico, rememorari, ‘ricordarsi di’, il verbo rimembrare ‘ricordare, richiamare alla mente’, entrato in italiano attraverso il provenzale, ben attestato nel linguaggio della poesia a partire già dal Duecento, col derivato nominale rimembranza, anch’esso di matrice occitanica e d’uso poetico, che è stato rilanciato dopo la Grande Guerra con i parchi (o viali) della rimembranza, «istituiti nel 1922 su proposta del sottosegretario alla pubblica istruzione Dario Lupi e basati sulla messa a dimora di alberi, ognuno dedicato (sul modello di un’analoga iniziativa realizzata in Canada, a Montreal) a un caduto del centro in cui si istituiva il parco o viale» (Domenico Proietti).
Ben più significative, ai fini del nostro discorso, sono altre voci verbali legate alla memoria, che fanno riferimento a due organi fondamentali dell’uomo: la mente e il cuore. Ora, che la mente sia considerata il ‘centro’ in cui la memoria si attiva (Dante stesso cita il libro della memoria accanto al libro della mente) può risultare anche intuitivamente ovvio, ma che il cuore fosse considerato dagli antichi Romani sede della memoria è meno scontato ed è opportuno segnalarlo. Alla mente si legano tanto il verbo rammentare, usato nel senso di «richiamare alla memoria propria e altrui», quanto il suo contrario dimenticare, che è d’uso assai più frequente (il Grande Dizionario Italiano dell’Uso [gradit] colloca questo nel vocabolario fondamentale, quello nel vocabolario comune) e ha vari derivati, tra cui l’aggettivo dimentico e i sostantivi dimenticanza (usato spesso, eufemisticamente, per riparare a qualche imbarazzante omissione: è stata una semplice dimenticanza…) e dimenticatoio (attestato pressoché esclusivamente nella locuzione finire nel dimenticatoio ‘non venire più ricordato da nessuno’, detto di cose o di persone). Al cuore (in latino classico cor, cordis) si collega invece il verbo ricordare, attestato già prima del Duecento (fuori di Toscana, nella forma con re-), dal latino recordari, che propriamente significa ‘rimettere nel cuore’, cioè nella sede della memoria (vale la pena di ricordare che all’espressione italiana a memoria corrisponde in francese par coeur); tra i derivati di ricordare sono da citare almeno ricordanza (letterario, ma vivo nella competenza passiva delle persone di cultura, se non altro grazie a Le ricordanze, uno dei più bei Canti leopardiani) e ricordo, termine quest’ultimo vivissimo e, al pari del verbo, usato in un’ampia gamma semantica, che sempre alla memoria fa, direttamente o indirettamente, riferimento. Alla stessa base si lega l’antonimo scordare, formato da ricordare con cambio di prefisso (s- ha qui valore negativo) e documentato anch’esso ab antiquo (il participio passato scordatu si trova nella duecentesca Elegia giudeo-italiana; il verbo, al riflessivo, è usato da Jacopone da Todi).
Per completare il campo semantico, va segnalato anche sovvenire, verbo e poi pure sostantivo, dal latino subvenire, ‘accorrere’ – documentato fin dal Duecento nel senso di ‘tornare a mente’ (si pensi anche al francese souvenir, entrato nell’Ottocento in italiano come sostantivo nel senso di ‘piccolo ricordo che si riporta da un viaggio’), oltre che in quello di ‘aiutare’ –, significativo sia perché, a rigore, si tratta dell’unica parola, tra quelle considerate, di tradizione diretta, popolare e non colta, sia perché documenta una visione della memoria come ‘aiuto’.
Infine, vanno ricordate almeno due parole dotte di matrice greca, entrate nel linguaggio scientifico (e poi anche in parte nel linguaggio comune) solo a partire dall’Ottocento: il sostantivo femminile anamnesi, usato nella liturgia, nella filosofia, ma soprattutto in medicina, per indicare, «nell’esame clinico di un malato: la raccolta di notizie relative alle malattie sofferte, alle abitudini di vita, al suo precedente stato di salute e a quello dei suoi familiari» (gradit), e l’aggettivo mnemonico, che significa, denotativamente, ‘della memoria, relativo alla memoria’, ma che viene spesso usato connotativamente in senso spregiativo, nel senso di «che si fonda unicamente o prevalentemente sulla capacità di ricordare, sull’uso meccanico della memoria» (pensiamo all’espressione studiare a memoria «senza preoccuparsi di capire il significato dei concetti appresi»).
Dopo questa rassegna, torno al tema centrale del rapporto tra scrittura e memoria, per accennare ad alcune questioni che a mio parere sono strettamente legate al problema del «futuro della memoria». Anzitutto, vorrei ricordare che la memoria è una facoltà i cui meccanismi sono, almeno per noi uomini comuni, misteriosi e affascinanti (e per ribadirlo basti fare qui, anche solo en passant, i nomi di sant’Agostino o di Marcel Proust); inoltre (ma si tratta di un’esperienza di tutti) il ricordo in quanto tale è un’operazione che avviene nel presente, anche se riguarda il tempo trascorso: è oggi infatti che ricordiamo i fatti del passato e, nel ricordarli, li possiamo interpretare. Come è noto, la psicoanalisi si basa proprio su questo meccanismo, alla ricerca di eventi talvolta rimossi, che hanno avuto conseguenze nella formazione della nostra personalità e spesso delle nostre attuali sofferenze.
Per legare più strettamente la memoria alla scrittura, segnalo la distinzione di Paul Ricoeur, riproposta da Raul Mordenti nel suo intervento alla VI Settimana di studi medievali, basata sulla differenza, in greco, tra μνήμη e á¼€νάμνησις: la scrittura può essere pura e semplice registrazione di fatti via via che avvengono, e quindi memoria del presente per una possibile utilizzazione futura, ma può essere anche ricerca e scrittura di eventi del passato, richiamati alla memoria perché considerati importanti per il presente (e, eventualmente, anche per il futuro). Nel primo caso, il testo scritto può essere continuato quasi ad infinitum (si pensi agli annali o alla tradizione mercantile tipicamente italiana dei libri di famiglia); nel secondo il rapporto con le scritture precedenti è piuttosto di carattere intertestuale. Inoltre, nel primo caso la scrittura ha in genere una dimensione autobiografica (lo scrivente è testimone dei fatti che racconta), nel secondo caso assume uno spessore storico e una funzione narrativa (e lo scrivente tende a spersonalizzarsi). Anche se ha la stessa dimensione personale del diario, il libro di memorie (lo «scriver la vita», per citare il titolo di un volume di Lorenzo Tomasin dedicato alle autobiografie settecentesche) è comunque diverso, perché più selettivo (non tutto si riesce a ricordare e del resto non tutto merita di essere ricordato) e al tempo stesso più ‘critico’. Tuttavia, anche restando nell’ambito della scrittura come registrazione del presente è possibile operare delle differenze: per esempio, gli studiosi di epigrafia e paleografia distinguono tra graffiti di memoria e graffiti commemorativi. Ha scritto Luisa Miglio: «I graffiti di memoria ricordano semplicemente la presenza di un individuo (lo stesso scrivente, il più delle volte) nel luogo in cui avviene l’azione di scrittura e, seppure non necessariamente, la data della visita. Sono graffiti di memoria quelli eseguiti da pellegrini presso luoghi di culto […]. Da non confondersi con i graffiti di memoria sono quelli che possiamo definire commemorativi, che tramandano il ricordo di avvenimenti storico-cronachistici – fatti attinenti alla storia locale (l’elezione di un vescovo, la presa di possesso di una chiesa) oppure alla ‘grande’ storia (l’elezione o la morte di re, papi, imperatori)». Non solo il paleografo, ma anche lo storico è capace di trarre profitto da entrambi i tipi di testimonianze, ma le implicazioni delle une e delle altre sono profondamente diverse.
Ma forse, per approfondire meglio il discorso del rapporto tra scrittura e memoria, anche con riferimento alle nuove tecnologie, è opportuno ripartire dalle origini: dal mito di Thamus e Theuth riportato nel Fedro platonico, che costituisce, tra l’altro, lo spunto per un tuttora fondamentale saggio di Tullio De Mauro sulle differenze tra il parlato e lo scritto e che è stato riesaminato più di recente da Giovanni Cerri. L’invenzione della scrittura, che l’ingegnoso dio egizio Theuth propone al re Thamus come mezzo per rendere i suoi sudditi «più sapienti e più capaci di ricordare», è vista dal re in modo ben diverso. Infatti Thamus replica al dio così:
Tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti.
Ed eccoci al punto chiave: affidare la memoria, la trasmissione del sapere a qualcosa di esterno, di materiale, può finire con l’indebolire la facoltà umana interiore. Sappiamo bene che non è così: se da un lato la «presenza della voce» (Zumthor) ha continuato a manifestarsi nella poesia, dall’altro la scrittura è stata ed è tuttora uno strumento fondamentale del progresso della scienza, della tecnica, della cultura in generale, compresa quella umanistica. Del resto, non è possibile contrapporre rigidamente la sfera dell’oralità e quella della scrittura; anzi, è stata individuata una «oralità secondaria» nelle più moderne «tecnologie della parola» (Ong). In ogni caso, la comunicazione mediata dal computer ha rilanciato la scrittura, se pure profondamente trasformata, dopo una fase in cui, soprattutto grazie alla televisione, l’oralità sembrava destinata a prevalere.
Ma l’avvertimento di Thamus sembra tuttora degno di attenzione, soprattutto nella sua parte finale, là dove opera una distinzione tra la conoscenza superficiale e il vero sapere, tra l’essere «portatori di opinioni» e l’essere sapienti. La Rete è un formidabile (e imprescindibile) strumento di comunicazione, e le sue enormi potenzialità, che le consentono di essere una straordinaria fonte di notizie ‘in diretta’ e al tempo stesso un illimitato ‘archivio della memoria’ (sia individuale sia collettiva), sono ormai evidenti a tutti e non possono essere messe in discussione. Ma si tratta appunto di uno strumento che può essere ancora potenziato ma che deve rimanere al servizio dell’uomo. La memoria del computer, quella della Rete, ecc. hanno certamente la capacità di raccogliere e conservare un gran numero di dati, ma non quella di selezionarli (se non in modo puramente meccanico) e tanto meno quella di interpretarli: questo compito spetta alla mente e al cuore umano, l’una e l’altro (direi) sedi della memoria. E la cultura umanistica può orgogliosamente rivendicare il compito di far interagire mente e cuore con le nuove tecnologie, di tenere vivo il ricordo del passato, il cui studio è imprescindibile non solo per interpretare il passato, ma anche per capire il presente e per costruire il futuro.
SAPERI UMANISTICI , SCRITTURA , CONOSCENZA
Filologia e linguistica
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