Al suo celebre quanto enigmatico D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? Paul Gauguin affidava nel 1897 il suo testamento artistico e spirituale. Secondo l’artista, questo quadro dalle insolite dimensioni (139.1 × 374.6 cm), apparente celebrazione della vita radiosa nelle lontane isole polinesiane, superava tutte le sue opere precedenti: mai ne avrebbe realizzata, affermava, una migliore o simile. Gauguin tentava in seguito di darsi la morte, ma la morte l’avrebbe raggiunto soltanto sei anni dopo, all’età di soli cinquantacinque anni. E altre opere si sarebbero aggiunte a questa: tra le altre l’allucinante Cheval blanc (1898), Et l’or de leur corps (1901), Aux îles Marquises (1902), opere dal cromatismo gravido ed esotico.
La scena è calata in una sorta di atmosfera blu, appena corretta, negli angoli superiori, dal giallo vivo, supporto, a sinistra, del titolo del quadro e, a destra, della firma dell’autore. Seppur naturale, l’ambiente è chiuso: mancano prospettive e aperture d’orizzonti. Non è dato sapere se il quadro costituisca una risposta alle tre domande del titolo, o se esse scaturiscano dal quadro stesso. Domande fondamentali e angosciose sull’uomo e sui suoi orizzonti, e non solo riflessione su una razza maori che sta scomparendo. Gauguin dava qualche indizio, indicando che il quadro doveva essere letto da destra a sinistra. I tre principali gruppi di persone abbozzano una risposta: le tre giovani donne con un bambino illustrerebbero l’inizio della vita, due di esse guardano in direzione dello spettatore; il gruppo centrale rappresenterebbe la vita di giovani adulti colta nella sua quotidianità, mentre nel gruppo di sinistra, illuminato tenuemente da una fonte luminosa che si colloca fuori del quadro, la vecchia accoccolata, avatar dell’Ève Bretonne (1889), sembra avvicinarsi, non certo serena, ma forse rassegnata, alla morte. Anche lei guarda in direzione dello spettatore. Lo strano uccello bianco che si trova ai piedi della vecchia rappresenterebbe, secondo Gauguin «la futilità delle parole». E non è escluso che l’idolo blu che appare sullo sfondo rimandi a quel che il pittore descriveva come «l’aldilà». La nudità delle figure femminili che appaiono in primo piano rinvia ad un’epoca mitica o arcaica. Il quadro proporrebbe quindi una visione panoramica del ciclo della vita, con una commistione di aspetti gioiosi e tristi. Gli accenni alla vita e alla morte non sciolgono comunque il mistero della domanda centrale: Que sommes-nous? E la pace e l’armonia del quadro sembrano insidiate da presenze inquietanti.

Non è difficile ravvisare nel quadro la tematica dell’Eden, seppur ribaltata. Il giovane che coglie il frutto, al centro dell’opera, può figurare Adamo, e non Eva, che coglie il frutto proibito dall’albero della scienza del bene e del male, mentre Eva sarebbe rappresentata dall’ignuda figura femminile, ritratta di spalle, che sembra nascondersi. Ma l’uomo può apparire come colui che procura cibo alla sua famiglia – si veda la bambina che mangia un frutto – e comunque, stilisticamente, una ripresa di altre figure maschili di Gauguin, da Le Christ jaune (1889) a L’homme à la hache (1891). Le braccia della divinità blu dello sfondo, così diversa cromaticamente dalla figura maschile che coglie il frutto, sembrano disegnare una croce.
D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? va letto alla luce di Noa-Noa, lo scritto autobiografico di Gauguin uscito proprio nel 1897 sulla prestigiosa «Revue Blanche». L’idea gli era stata suggerita da Charles Morice nel corso del suo soggiorno parigino (1893-1895). Gauguin aveva abbandonato nel 1891 la Francia per rispondere all’appello segreto verso il «selvaggio», il «primitivo», e verso nuove forme di ispirazione pittorica e dopo il 1895 tornerà definitivamente in Polinesia.
Noa-Noa non affronta nessun problema artistico: pittura e scrittura coesistono solo attraverso la compresenza di testo, schizzi e disegni sul manoscritto originale. Lo scopo del libro è diverso: stendere il resoconto di un viaggio iniziatico, rielaborando, in funzione di una tesi ben precisa e di un pubblico da contentare, le note e gli appunti presi durante gli anni 1891-1893. Il libro si apre con una citazione di Baudelaire, tratta da Le Voyage, l’ultima lirica delle Fleurs du Mal: «[…] Dites, qu’avez-vous vu?». Riferimento carico di allusioni, giacché nel Voyage si intrecciano vari temi: il viaggio immaginario, propiziato dalle carte geografiche e dalle stampe, la fuga da una «patrie infâme», l’esotismo, la ricerca, in altri cieli, «de vastes voluptés». In definitiva, un viaggio «Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau». Il riferimento a Baudelaire, al viaggio e all’esotismo funge da cornice a Noa-Noa, ma il racconto poggia su un altro topos, rivisitato nei suoi risvolti letterari e ideologici: la scoperta di un mondo in cui la Natura domina incontrastata, appena scalfita dalla Storia e dalla civiltà coloniale. Voltando le spalle a una società affaristica, Gauguin muove alla ricerca del buon selvaggio, caro a Jean-Jacques Rousseau.
I capitoli di Noa-Noa scandiscono quindi un viaggio a ritroso nel tempo, per risalire dalla civiltà e dalla storia alla natura. Gauguin orchestra abilmente il racconto della scoperta di un nuovo Eden. Come una formula magica, la parola natura propizia inebrianti scoperte: l’albero della scienza, appena intravisto, la superiorità del «selvaggio» sull’uomo «civile», corrotto dal denaro. Matura così l’urgenza di abbandonare una «civiltà pervertita», fonte di male e di ipocrisia, per vivere al ritmo della vita animale. La sensualità sfrenata delle vahiné è riscattata da una naturalezza che dovrebbe escludere ogni senso di colpa. Eccoci allora al centro dei misteri iniziatici di Noa-Noa.
La cancellazione della storia e della memoria sono simboleggiati, in Noa-Noa, dal progredire del narratore nella foresta. L’acqua lustrale di un ruscello segna la nuova nascita alla vita paradisiaca, l’abbandono di ogni senso di trasgressione. In questo paradiso riconquistato non manca l’apparizione fuggitiva di una Eva ignuda. La vita a Mataneia, con Tehura, una vahiné di tredici anni, pura espressione della razza maori, è l’immagine di una felicità paradisiaca, di un’estasi amorosa che sembra aver abolito il tempo:
E l’Eva di questo Paradiso si abbandona ognor più docile, amorosa. Il suo profumo penetra in me: Noa Noa! […] E non ho più coscienza dei giorni e delle ore, del male e del bene. La felicità è così estranea al tempo che ne sopprime la nozione, e tutto è bene quando tutto è bello.
Noa-Noa appare in definitiva come un’abile, utopica ma deludente riscrittura del «Luxe, calme et volupté» di Baudelaire, giocata sul doppio filo di un esotismo/erotismo (il primo elemento sdogana il secondo, contenuto entro i limiti della bienséance imposta dal pubblico cui il libro è destinato). Un viaggio in una lontana isola incantata, giardino di delizie per immaginazioni occidentali. Le incertezze, le angosce, i dubbi di Gauguin sono ignorati in Noa-Noa. Per aver un ritratto più persuasivo dell’artista bisognerà allora rifarsi alle lettere. Nel 1902 il pittore insiste per tornare in Francia: la salute non può migliorare in Polinesia. Gli rispondono gli amici parigini, condannandolo all’esilio:
Voi siete attualmente quell’artista inaudito, leggendario che, dal fondo dell’Oceania, invia le sue opere sconcertanti, inimitabili, opere definitive di un grand’uomo per così dire scomparso dal mondo […]. Insomma, godete dell’immunità dei grandi morti. Siete passato nella storia dell’arte […].
Gauguin morirà in effetti nella Maison du jouir, schiantato dall’alcol, dalle malattie veneree, dalla droga: le ineludibili compagne dei paradisi artificiali, le litanie dell’«artiste maudit» che si sgranano implacabilmente anche sotto i cieli di Polinesia.
A che pro questa lunga digressione? Il viaggio e il soggiorno di Gauguin in Polinesia, prima a Tahiti poi nelle isole Marchesi, si configura come un viaggio nello spazio e nel tempo: un viaggio nel passato, verso l’origine del mondo, per ritrovare, in un presente apparentemente immobile, l’Eden. Per accedere a questo paradiso perduto l’uomo occidentale deve spogliarsi della propria identità e rinunciare alla memoria, per dare inizio a una nuova esistenza, all’insegna dell’‘imbarbarimento’. La cancellazione della memoria, individuale e collettiva, è indispensabile alla nascita del mito, inevitabilmente incrinato dalla realtà e declassato a semplice esotismo. Situazione speculare nel romanzo Les immémoriaux (1907) di Victor Segalen, giunto nelle isole Marchesi alla ricerca di Gauguin, poche settimane dopo la morte dell’artista. Obliterando dalla sua memoria i miti di Tahiti e le genealogie dei re, per non inimicarsi i bianchi e i missionari protestanti, Térii, il protagonista maori del romanzo, tradisce i suoi compatriotti destinati a diventare degli immémoraux: uomini sradicati e privi di memoria, e quindi vittime della civiltà europea.
La perdita della memoria non è una prerogativa riservata alla Polinesia. Torniamo in Europa. Fondazione e Manifesto del Futurismo esce il 20 febbraio 1909, in stesura francese, sul «Figaro». La distruzione dei luoghi di memoria (biblioteche, città d’arte), accesamente propugnata da Marinetti – e mai realizzata dal letteratissimo poeta de La conquête des étoiles (1902) o di Destruction (1904) –, fa parte della costante propaganda antipassatista dalla quale muove l’avanguardia marinettiana, votata all’azione. Ma non si tratta soltanto di provocazioni destinate a épater le bourgeois. Il progetto di dare inizio a una nuova umanità, inizio segnato dai vari riti di una nuova nascita, di un nuovo battesimo, è già ravvisabile nel manifesto di fondazione:
Oh! materno fossato, quasi pieno di un’acqua fangosa! Bel fossato d’officina! Io gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese […]. Allora, col volto coperto della buona melma delle officine, di sudori inutili, di fuliggini celesti – noi, contusi e fasciate le braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra.
Battesimo speculare rispetto a quello di cui ci parla Gauguin in Noa-Noa. Una delle prime attuazioni del progetto futurista è l’amputazione della memoria.
Una delle più inquietanti formulazioni di questo progetto si trova nel manifesto Noi rinneghiamo i nostri maestri simbolisti ultimi amanti della luna (in Guerra sola igiene del mondo, 1915). «Con noi comincia il regno dell’uomo dalle radici tagliate, dell’uomo moltiplicato che si mescola col ferro, si nutre di elettricità e non comprende più altro che la voluttà del pericolo e l’eroismo quotidiano». Emilio Gentile, in un suo intervento di qualche anno fa («Il regno dell’uomo dalle radici tagliate». Disumanismo e anticristianesimo nella rivoluzione futurista (1909-1920), in G. Manghetti (a cura di) Firenze futurista, 1909-1920, Firenze, Polistampa, 2010), ha convincentemente mostrato come le radici da tagliare per creare l’uomo futurista fossero per Marinetti l’umanesimo e il cristianesimo. In effetti il «regno dell’uomo dalle radici tagliate» di cui parla profeticamente il fondatore del Futurismo
presupponeva non soltanto l’abolizione del culto del passato, dei classici, della tradizione e della storia, ma lo sradicamento integrale dell’uomo nuovo futurista dall’idea e dall’ideale di essere umano, che la civiltà occidentale aveva sviluppato nel corso dei millenni, dal cristianesimo fino all’umanitarismo contemporaneo, consacrandolo quale concezione universale dell’umanità nell’epoca della modernità trionfante.
Emilio Gentile ha perfettamente ragione quando parla di «disumanismo» e non semplicemente di «antiumanesimo». L’uomo moltiplicato «che si mescola con ferro» intende cancellare la nozione di natura umana, sostituendole quella dell’uomo-macchina, dovrebbe forse debellare la morte (ma di chi?). Come taluni si adoperano oggi di cancellare le frontiere tra uomo e animale.
Utopie caldeggiate dalle avanguardie e ormai archiviate? Non solo, giacché l’uomo amnesiaco – lasciamo da parte l’uomo-robot – è da sempre senza difese, e quindi facile preda delle ideologie. Pensiamo, un secolo dopo il fiorire delle avanguardie storiche, allo stato attuale della scuola in vari paesi dell’Europa occidentale, dalle profonde tradizioni culturali, e in particolare all’insegnamento di materie come la storia – un tempo chiamata magistra vitae – e la letteratura. Qualche anno fa George Steiner, che cito nella traduzione francese, scriveva:
L’éducation moderne rassemble de plus en plus à une amnésie institutionnalisée. Elle laisse vide l’esprit de l’enfant de tout le poids de la référence vécue. Elle substitue au savoir par cœur, qui est aussi un savoir de cœur, ce kaléidoscope transitoire de savoirs toujours éphémères (G. Steiner, Le silence des livres suivi de Ce vice encore impuni par Michel Crépu, “Arléa-Poche”, Paris, Arléa, 2007).
Un polemista francese definiva pochi giorni fa, forse con eccessiva severità, la scuola come una «fabbrica di analfabeti». La perdita della memoria collettiva, delle tradizioni, delle opere e degli eventi fondanti di una nazione, del dialogo con altre tradizioni e civiltà, è una vera e propria mutilazione. Si creano – involontariamente, senza dubbio – generazioni décérébrées, incapaci di uno sguardo critico sulla realtà, indifese nella loro apparente libertà assoluta, in realtà pronte a obbedire come un robot ai diktat imposti dalla moda o dall’ideologia dominante, che sarà eventualmente anche in grado di «inventare la memoria».
Che la trasmissione dei saperi umanistici, secondo modalità ovviamente variabili in funzione delle circostanze, sia vitale per salvaguardare la memoria individuale e collettiva, è una prima evidenza. Questi saperi consentono di formulare qualche ipotesi sulla prima domanda posta dal quadro di Gauguin: D’où venons-nous? Che non tutti i dati consegnatici dal passato possano o debbano essere trasmessi alla generazione presente o a quelle future, è un’altra evidenza. La memoria, individuale o collettiva, non è il disco rigido di un computer, nel quale accumulare dati senza alcuna cernita. Rileggendo la celeberrima Paideia di Werner Jaeger, si avvertirà la necessità di una trasmissione culturale che sia innanzitutto pedagogica, ossia formativa (paideia) nei confronti delle generazioni che stanno costruendo il futuro, e che sia quindi capace di raccogliere ciò che di sempre valido e fecondo sta nel nostro passato (memoria storico-valoriale).
Sul rapporto tra cultura scritta, cultura orale e memoria nella trasmissione dei saperi umanistici, rimando volentieri al già citato Le silence des livres. George Steiner mette perfettamente in luce l’insostituibile funzione della cultura orale:
Ce qui est écrit, ce qui est ainsi stocké – comme dans la “banque de données” de notre ordinateur – ne nécessite plus d’être confié à la mémoire. Une culture orale est celle du souvenir toujours réactualisé; un texte, ou une culture du livre, autorise (encore ce terme délicat) toutes les formes d’oubli. La distinction touche au cœur même de l’identité humaine et de la civilitas. Là où la mémoire est dynamique, là où elle sert d’instrument à une transmission psychologique et commune, l’héritage se transforme en présent. […] Savoir «par cœur» – que d’informations, ici, dans cette locution – suppose de prendre possession de quelque chose, d’être possédé par le contenu du savoir en question. Cela signifie qu’on autorise le mythe, la prière, le poème à venir se greffer et à fleurir à l’intérieur de nous-mêmes, enrichissant et modifiant notre propre paysage intérieur, comme chacune de nos incursions au travers de la vie modifie et enrichit notre existence. Pour la philosophie et l’esthétique antiques, la mère des muses était bien la mémoire.
Libri e cultura orale sono chiaramente complementari. Importa peraltro, e sarà già molto, evitare di nutrire, mediante discorsi vani, quello strano uccello bianco che in D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous rappresenta, come abbiamo visto, »la futilità delle parole».
PAUL GAUGIN , PITTURA , VIAGGIO , ESOTISMO , MEMORIA
Letteratura
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