Attualità degli studi umanistici

di Fulvio Tessitore

Una pur breve e finalizzata riflessione sulla ‘memoria’ e sul ‘ricordo’, in vista di una rivendicazione rinnovata di un ambito glorioso, certo insostituibile, del sapere non può partire che dalla considerazione del significato di ‘memoria’ e di ‘ricordo’. Il che va fatto con consapevolezza storiografica, ossia ripercorrendo una lunga storia di coerenze e divergenze, di intese e di contrasti che coinvolgono numerosi, straordinari problemi: che significa oblio, qual è il significato del presente, quale l’idea di tempo. Questo non può essere fatto qui, dove occorre dare per scontato tutto quanto ora si è richiamato. Al limite, con l’ausilio di qualche buon dizionario della lingua italiana, si può soltanto richiamare il significato corrente di ‘memoria’ e di ‘ricordo’.
Memoria è una forza psichica complessa che permea la riproduzione mentale di impressioni, intuizioni, esperienze e comportamenti della vita passata, i quali, in quanto tali, denotano elementi interagenti e dinamici della personalità che rendono possibile l’attività psichica. Sembra una chiarificazione, ed invece è qualcosa che avrebbe bisogno di ben altri e numerosi chiarimenti. Diamo per scontato di aver capito tutto e passiamo al ‘ricordo’. Secondo dizionari sapienti, ricordo è un’esperienza mentale con cui si richiamano alla mente fatti e persone conservati nella memoria. 
Dunque, memoria e ricordo sembra che non solo si richiamino, ma rappresentino configurazioni di elementi interagenti, tanto più quando si sappia che ricordo deriva dal latino cor, cordis, giacché il cuore era ritenuto la sede della memoria.
Siamo al punto di partenza e non possiamo neppure confortarci col ricordo della sottile e relativistica convinzione da Lorenzo de’ Medici espressa in versi squillanti

Memoria, audacia e dell’ingegno acume
Sono strumenti buoni
o rei, secondo
Che li fa l’uso e il buono
o reo costume.

E allora, non per chiarire ma per aggiungere dubbio a dubbio, va domandato se siamo proprio certi che ‘memoria’ e ‘ricordo’ si richiamino fin quasi ad essere di due uno. Il presupposto di tutto questo elegante argomentare non è per caso una concezione lineare del tempo, quasi una specie di deposito enorme indefinibile (quantitativamente parlando), dove si accumula tutto, tutti i prodotti, nessuno escluso, dell’umano agire e gli stessi uomini che hanno agito? Ma come fare a restare a questa concezione lineare quando, se non prima, certo a metà dell’Ottocento e in tutto il Novecento venne messa in questione l’idea di progresso, il deterministico scorrere teleologico del tempo, evidentemente riportandolo all’idea di uno spazio quale condizione necessaria del conoscere e dell’agire? Negazione del progresso che, può sembrare paradossale, avveniva proprio grazie alle concezioni rigorosamente storicistiche (quelle dello storicismo critico e problematico, ossia quello che nega ogni ipotesi di metafisica e ogni forma di ontologia), non certo lo storicismo assoluto che è la sacralizzazione della più rigorosa idea di ontologia, l’ontologia della storia, quella cioè che ha la forza e la capacità di sistemare tutte le distinzioni e tutte le particolarità, ordinandole, tuttavia, in un sistema teologico, fino ad essere la più possente forma di teodicea, la teodicea della storia o la storia come teodicea.
Ancora, dunque, un’altra complicazione che lo storico della filosofia si compiace di provocare, osservando, con maligno compiacimento di complicatore, che neppure la rivendicazione della psicoanalisi è di aiuto, giacché nella concezione freudiana della storia si conservano una visione lineare, evolutiva e progressiva insieme a una concezione ciclica o circolare, perché in realtà con essa non si esce dal (ma soltanto si chiude il) lungo ciclo della ragione platonica. Dove l’inconscio non è il non-ancora-conscio (che può essere o non essere, secondo la rivoluzionaria, involontariamente storicistica idea dell’«utopia concreta» di Ernst Bloch), bensì il pre-conscio, che deve esplodere, come necessariamente esplode, nel conscio. E ciò si osserva non senza ricordare le tesi junghiane, secondo cui l’inconscio è il «sedimento dell’esperienza», «un apriori dell’esperire», dove «l’inconscio collettivo» è «il deposito dell’esperienza atavica di innumerevoli milioni di anni, l’eco della preistoria a cui ogni secolo non apporta che un piccolissimo contributo di variazioni e differenziazioni». Al che deve aggiungersi l’immagine del mondo ‘senza tempo’, un eterno contrapposto «alla momentanea immagine del mondo della nostra coscienza».
Persino in Vico, da tanti ritenuto il grande ‘precursore’ dello storicismo (e bisogna, bisognerebbe domandarsi almeno di quale storicismo si tratti da chi ha il gusto degli incasellamenti categoriali a danno delle evenienze epocali), persino in Vico s’è visto un sostenitore della necessaria convivenza di diacronia e sincronia, così interpretando la vichiana affermazione che la «storia in tempo» si muove sul piano della «storia ideale eterna», superando, in tal modo, ogni dualismo, che, al contrario, io ritengo ben presente in Vico, consapevolmente, e basti ricordare la sua idea del parallelo svolgersi di storia sacra e di storia profana. Rifiutandolo non si può se non sostenere che il certo delle cose della vita deve convertirsi necessariamente nel vero, in tal modo riduttivamente intendendo il circolo di un certo che si avvera e di un vero che si accerta, senza scarti. Questa è, invece, la scoperta del moderno lavorare degli storici e della moderna concezione della storia, come intende dichiarare la «Degnità», che

dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l’autorità de’ filologi, come i filologi che non curarono d’avverare le loro autorità con le ragioni de’ filosofi; che se lo avessero fatto […] ci avrebbero prevenuto nel meditare questa Scienza,

la Scienza  nuova, che era la fondazione di una nuova, del tutto moderna idea della filosofia e della storia. E ciò si dice, pur a costo di cedere un solo secondo al gusto non apprezzabile della attualizzazione, benché si tratti di sottolineare l’intuito nesso storia-storiografia, che è fondato sulla filologica conoscenza storica e fonda l’idea della «Filosofia del foro» (ossia pubblica) e non ‘monastica’, intendendo così la ricognizione della specificità e particolarità delle cose ordinande grazie a una conoscenza che di esse dia, sappia dare la ragione, il senso e il significato.
Non posso e non voglio andare oltre nel richiamare i problemi sottesi a questo discorso, anche a questo mio arruffato discorso. Mi limito, per semplificare, ad accettare la lucida interpretazione della ‘memoria’ come «il tempo dell’identità», così intendendo la consapevolezza di ciò che siamo stati (non nel senso della anamnesi come ‘ricordo’, bensì in quello dell’acquisizione di un ‘altro presente’) e di ciò che siamo e possiamo essere. In altre parole una traduzione storicistica dell’Augenblick come il solo ‘momento’ perennemente ripetentesi (in questo senso da definire eterno) dei processi cognitivi in cui passato e futuro si toccano nel presente, per poi distinguersi e rinnovarsi, grazie a quell’incontro ineluttabile.
Perché tutto questo accavallamento di problemi e di presuntuose affermazioni? Perché la consapevolezza di questi problemi è il solo modo per rispondere, senza inutili, strumentali e retoriche riproduzioni di vieti, inutili luoghi comuni, alla domanda sul significato del possibile ‘ritorno’ degli studi umanistici in un’età di tecnologia avanzata non nel senso di un tentativo, destinato al fallimento, di scongelamento del congelato, risoluzione di un processo di mummificazione. Il che si può soltanto affermando due princìpi da ritenere ineludibili in tal fatta di questione, pur avanzati qui con tutti i dubbi evocandi e con la consapevolezza di tutte le criticità possibili.
In primo luogo, l’idea del tempo non già come qualcosa che non passa, dentro cui si sistemano tutte le cose che divengono e in cui esse passano, bensì come qualcosa che passa esso stesso, che diviene nel divenire delle evenienze. In appena seconda posizione si devono ripetere le convergenti idee di Wilhelm von Humboldt e di Max Weber sul significato della ricerca e della scienza.
Humboldt ha scritto tra il 1809-1810, non a caso in quello che va ritenuto l’atto fondativo dell’Università di Berlino (modello delle università otto-novecentesche), che bisogna «trattare la scienza come un problema non ancora del tutto risolto e di restare pertanto costantemente su posizioni di ricerca», mantenendo saldo il principio di «considerare la scienza come qualcosa che non si è ancora del tutto conseguito, né mai si potrà del tutto conseguire, e come tale da ricercare incessantemente». Quasi a riprova, poco più di un secolo dopo, in piena età di trionfo dei processi di crescente intellettualizzazione, razionalizzazione e specializzazione, Weber diceva, con la solenne semplicità della costatazione indiscutibile, che ogni ricercatore «sa che, nella scienza, tutto ciò che egli ha fatto sarà invecchiato dopo 10, 20, 50 anni». «Ogni ‘rinascita’ scientifica comporta nuove questioni e vuol essere ‘superata’ e ‘invecchia’». «Essere superati scientificamente è non soltanto il destino di tutti i ricercatori, ma anche il loro scopo».
Che significano questi princìpi dichiarati prima e dopo l’affermarsi del presunto o reale primato della scienza, depositaria del ‘conoscere’ certo e sicuro in quanto dotata di razionali criteri di verificazione ad essa intrinseci, a danno degli studia umanistici ritenuti destinati ad accontentarsi della ‘comprensione’ senza verifica razionale perché coinvolgente nelloggetto del suo ‘sapere’ il soggetto stesso di quell’oggetto? Si vuole forse, come tuttavia talvolta si è voluto, stabilire un primato tra i saperi, di quelli scientifici su quelli umanistici? Si deve forse scadere, ancora, nello sciocchezzaio delle ‘due culture’, nostalgica fantasia di qualche scienziato ‘duro’ (si potrebbe dire, scostumatamente, ‘duro di testa’), infilandosi nel guazzabuglio delle distinzioni tra metodo e oggetto del sapere, che è un’autentica sciocchezza ipotizzante la distinzione tra il che e il come, per capire finalmente dov’è la consistenza del sapere? Possono pensarlo soltanto i presuntuosi ‘acquafrescai’, i quali, per paura dell’incerto, del dubbio, del non compiuto, si rifugiano nel ‘duro’ di ipotetiche e ipotizzate rappresentazioni tecnologiche del primato della ragione. Chi lo dice, quantomeno a livello d’intenzionalità, è rimasto inesorabilmente indietro rispetto al conseguito livello attuale (in vero per me anziano di più di un secolo) della ricerca scientifica. Questa, oggi più che mai, proprio in connessione con il processo di intellettualizzazione, razionalizzazione e specializzazione, è fatta dalla interazione dei saperi positivi sia geistlich sia natürlich, in vista della loro funzione, la quale è ciò che li caratterizza e distingue. Già nel 1883 Wilhelm Dilthey sapeva e diceva che il vero problema della ‘distinzione’ tra i saperi positivi, tra scienze particolari (egli le chiamava Einzelwissenschaften) fossero spirituali o naturali, era riposto nella loro specifica fondazione gnoseologica, dunque, nella capacità di conseguire la definizione della conoscenza non già come riconoscimento del già dato, bensì come creazione del non-ancora-dato, del nuovo che era appunto lo scopo, il significato della ricerca, la quale si consegue soltanto quando si sappia che nihil humanum a me alienum puto.
L’interazione dei saperi positivi è lo strumento nuovo per la risoluzione di un problema vecchio, ossia rispettare le distinzioni senza cadere nella parcellizzazione, grazie al riconoscimento dell’unità del sapere che non va intesa come negazione della molteplicità nel monismo totalistico, vecchio, invecchiato, ormai logicamente insostenibile. Questo, per altro, è il solo modo rigoroso oggi possibile per conseguire, finché si è ancora in tempo, la rigorosa riforma dell’università, necessaria, indispensabile, urgente. Ne ha bisogno vitale, perché ne va, ormai, della sopravvivenza, l’università italiana, vittima di una sciagurata ‘riforma’ che ha preteso di democratizzare senza programmi. E mi riferisco alla stupida segmentazione dei corsi, operata senza intervenire (senza chiedere agli atenei di intervenire) sui contenuti e sui metodi (tra loro in stretta, ineludibile connessione) della didattica. Da questa sono conseguite non meno sciagurate ‘riforme’, stupidamente, quindi pericolosamente, ideologiche, interessate alle strutture formali, senza attenzione, per consapevole ignoranza, ai contenuti sostanziali. In tale drammatica situazione va assecondato il grande progetto dell’Accademia Nazionale dei Lincei «Per la nuova didattica», che significa inventare la nuova figura del Docente e la nuova figura dello Studente all’altezza delle dimensioni cognitive della ricerca e della formazione di oggi. Si tratta di un progetto di valenza europea capace di riportare la ‘riforma’ della scuola e dell’università al grande tema delle discussioni attuali sul significato della ricerca, quella praticata, non quella predicata. E ritorna l’interazione dei saperi.
La disumanizzazione del sapere, infatti, specie in età di alta tecnologia, che sembra essere idonea perfino a conseguire la copia artificiale dell’uomo, ridotto a soggetto senz’anima (preciso che uso la parola ‘artificiale’ per un difetto di espressione dei nuovi processi di concettualizzazione non riportabili nelle tradizionali gloriose forme categoricizzanti), può essere evitata solo grazie al contemperamento di un perverso sinolo scienza-tecnica conseguibile attraverso la collaborazione dei diversi saperi, spirituali e materiali. Nel che peraltro la scienza (mai compiuta definitivamente) trova la propria eticità, che è l’eticità della conoscenza, quello che non chiede nessuna necessaria, ineludibile opzione tra «l’etica della convinzione» e «l’etica della responsabilità». L’eticità è, infatti, la connessione (altra cosa dalla convergente assimilazione) dell’una e dell’altra nella definizione del significato della ragione, che sta nel destino della responsabilità: la responsabilità dell’obbligazione (non l’obbligazione della responsabilità) su cui fonda la libertà dell’uomo nel suo perenne bisogno di ricerca. È in questa connessione che sta il significato e il senso della storia, la quale non è un gioco di «nascondimenti» e «svelamenti», di «dimenticanze» dell’Essere e di «superamenti» di tale «dimenticanza». Queste sentenze di apparente sacertà sono soltanto la comoda ambiguità di una misticheggiante filosofia della storia, che ha l’intento di normalizzare la storia effettiva dell’uomo, tutt’altro dalla «deriva» e «dall’oblio dell’Essere», un modo come un altro per nascondere, questa volta davvero sì, il ghigno tragico del totalitarismo più spietato, retto da una vera e propria «ontologia della guerra», rivolta a travolgere non a risolvere le anfractuosa vitae, che alimentano il senso etico della responsabilità, anche la responsabilità della storia, senza mistificatorie lamentazioni sul destino della tecnica.
Alla vigenza della responsabilità un contributo determinante, anche per razionalizzare umanamente le grandi conquiste della scienza e della tecnica, è garantito dagli Studia humanitatis, quelli che sono il criterio dell’umanesimo della nuova dignità non di atomi ma di uomini di carne e sangue, negati da ogni invocazione dello svelamento dell’Essere, da ogni distendersi o adagiarsi dell’«esserci nel destino dell’Essere», come suona il più cupo anti-umanismo predicato nel Novecento da una camuffata metafisica dell’Essere, subdolamente utilizzante tutti gli esercizi di una ermeneutica oppositiva di ogni rigorosa, storicistica filologia come scienza storica.
Per tutto quanto s’è tentato di dire, pur rapidamente, la ripresa di una antica, gloriosa rivista quale «Siculorum Gymnasium» mi sembra che vada nella direzione giusta. Ai suoi promotori va dunque rivolto un plauso e un augurio. Il plauso di una rinascita necessaria incipit vita nova, l’augurio di favorire la rinascita dell’Università, non solo di quella di Catania.

 


Tags

MEMORIA , STORICISMO , SAPERI UMANISTICI , SAPERE , TEMPO


Categoria

Filosofia

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Siculorum Gymnasium

A Journal for the Humanites

ISSN: 2499-667X

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