Intervista a Stefano Benni, Maria Attanasio, Tommaso Di Dio e Gian Mario Villalta

di Pietro Russo e Federico Salvo

In base alla sua esperienza personale, cosa intende lei per sapere umanistico? O preferirebbe declinare al plurale il concetto (saperi umanistici)?

Attanasio – Per ‘sapere umanistico’ non intendo un pensare, un astratto concetto – irrelato, per esempio, rispetto al quotidiano calcolo dei migranti che, cercando di sfuggire a guerra e fame, diventano prelibato cibo per gli squali tra le onde nel Mediterraneo –, ma un sapere che dia senso e forma al fare, congiungendo bellezza e giustizia.  Uno o tanti, nome e forma di questo sapere, non mi interessa.

Benni – Ogni forma di intelligenza.

Di Dio – L’espressione ‘sapere umanistico’ è frutto di una lunga storia, da cui discendono il suo significato e il suo valore. È un’idea intrinseca allo sviluppo europeo, dotata della tipica prepotenza universalistica che ha connotato tutta la cultura occidentale. Sapere umanistico è quel sapere che continuamente interroga le proprie origini, cercando ogni volta di chiedersi cosa sia il ‘sapere’ e cosa sia ‘umano’; questa ricerca, se da un lato ricapitola ogni volta l’intera storia dell’Occidente, dall’altro non può non costatare i propri limiti, la propria pluralità: questo è oggi il suo valore più attivo, che è un’attitudine, una pratica di vita.

Villalta – Credo che la nozione di ‘sapere umanistico’ oggi, se usata sensatamente, abbia a ricollegarsi alla tradizione dell’Umanesimo e alle ragioni del suo sviluppo, perciò necessariamente debba riguardare tutti i saperi nell’approfondimento e nell’applicazione dei quali sia da mettere al centro l’uomo. Oggi, però, consiste in una diversa considerazione di tutto il mondo vivente e della diversa conoscenza del suo rapporto con la materia.

 

Nel recente e fortunato volume di Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2011), il rapporto tra umanesimo e forme di governo democratiche sembra, nonostante tutto, un binomio indispensabile. Cosa ne pensa?

Attanasio – Inscindibili, non solo umanesimo e democrazia, ma anche umanesimo e giustizia sociale. Che deve riporre al centro l’uomo, lottando contro la dittatura della finanza; contro questo disumanizzante ritorno a un liberismo barbaro e senza regole, che sta cancellando più di due secoli di storia, di lotte sociali e politiche per dare diritti e dignità all’uomo. Dobbiamo opporci, ribellarci, dire no. Assolutamente no, a tutto questo.

Benni – No, il rapporto tra forma democratica e sapere umanistico si è scisso, ora la democrazia non dialoga col sapere ma con il potere economico.

Di Dio – Non ho letto il testo della Nussbaum a cui fai riferimento. Ma credo che sul termine ‘democrazia’ vi sia una grande confusione e una sovrapposizione di falsità storiche e di incrostazioni ideologiche su cui sarebbe necessario lavorare. Oggi più che di «un binomio indispensabile», parlerei di ‘un binomio da reinventare’: e questo potrà farlo soltanto un sapere che torni a comprendersi e a dirsi, ancor prima che umanistico, umano.

Villalta – Non posso non essere d’accordo, perché la relazione degli attuali saperi con il vivente e la materia, come li conosciamo oggi, mette in evidenza le questioni della cosiddetta biopolitica, le biotecnologie, un’etica dell’impiego delle risorse del pianeta e delle finalità della coesistenza dei viventi. Un’azione politica il più possibile relazionale (preferisco parlare più di relazione che di inclusione) non può trascurare queste esigenze.

Secondo lei è ancora ipotizzabile un pensiero ‘forte’ per i saperi umanistici all’interno dell’attuale configurazione globale?

Attanasio – Omologazione, pensiero unico, dittatura di borse e mercati e marginalizzazione dell’uomo: una terra desolata questa contemporaneità in cui viviamo, dove non sembra esserci più alcuno spazio per un sapere e un fare umanistici. Ma gli spazi di libertà e di democrazia non sono un dono degli dei, bensì una conquista – dura, faticosa – che va ostinatamente perseguita. Resistendo, ostinatamente resistendo: alla logica del profitto, o della rassegnazione. E, in questo senso, il sapere umanistico è insostituibile guida di metodo e senso nella lettura del mondo. E nella possibilità di progettarne un altro.

Benni – Sì, se non rinunciamo ad applicare un po’ di ironia e di dubbio a parole come ‘forte’ e ‘globale’.

Di Dio – Un pensiero ‘forte’ non è un pensiero, ma un’ideologia. Il pensiero è intrinsecamente dialettico, aperto, in movimento fluido e pronto a scattare altrove e ad approfondire le proprie contraddizioni. Il pensiero è fatto di radure, vertigini, incontri. Di quest’ultimo pensiero c’è un immenso bisogno nel nostro tempo. Io penso che vi siano molte occasioni perché il sapere umanistico torni al centro della nostra società, a patto che si smetta di considerarlo un’eredità inerte e torni ad essere uno stile di vita, una pratica di apertura e di ricerca: un sapere necessario all’incontro con l’umano di ogni giorno, non un paradigma scolastico.

Villalta – Nell’emergere di questa diversa posizione dell’uomo nell’universo dei saperi attuali, è proprio la definizione di ‘uomo’, come individuo, collettività, moltitudine, a diventare l’interrogazione forte, dalla quale può emergere un nuovo impulso per i saperi umanistici tradizionali, come per una responsabilità umanistica della conoscenza in generale.

 

Secondo lei c’è un fondo utopico o anacronistico nel parlare, oggi, di saperi umanistici? E soprattutto: quanto sono ancora necessarie le utopie o gli anacronismi?

Attanasio – Comunismo, etica, lotta di classe, ma anche libertà, giustizia, utopia: parole tabù, accuratamente cancellate dallo striminzito vocabolario morale e politico della contemporaneità. La parola utopia, soprattutto. Non importa che essa sia religiosa, politica, umanitaria: va cancellata. Per non distrarre l’uomo – visto esclusivamente come consumatore – da un rutilante presente di borse, consumi, mercati. Assolutamente necessaria però per poter immaginare il futuro, l’utopia. Che forse non sarà l’Occidente a elaborare, ma quei terzi, quarti mondi, che lottano per essere protagonisti nella storia. Da queste masse erranti, pronte anche a morire pur di cambiare la loro condizione, di raggiungere il futuro: da loro, io ritengo, verrà scritta nella storia l’utopia del terzo millennio.

Benni – Come lo sono sempre state nella storia del mondo.

Di Dio – Il sapere è utopico per definizione; accade infatti nel non-luogo della mente e rovescia una storia dei fatti in un fatto da farsi: il termine ‘anacronia’ è forse la descrizione più precisa del suo muoversi. Fin quando avremo del sapere umanistico una concezione meccanica mutuata dalla tecnica, una concezione applicativa e catalogatoria, non potremo che scontarne l’inutilità.

Villalta – Non parlerei di utopia o di anacronismo. Preferirei indicare una necessità: l’accelerazione delle tecnologie della comunicazione e la globalizzazione dei mercati rendono anzi oggetto di riflessione le nozioni di utopia e di anacronismo. La comunicazione, la parola da un lato, dall’altro il lavoro, la costituzione del ‘valore’ dell’agire umano, chiedono di essere di nuovo compresi nel loro ‘tempo’ e nel loro ‘luogo’ reali ed effettuali.

In questo scenario di incontrastata ‘tecnocrazia’ che porta inesorabilmente a una ridefinizione gnoseologica e antropologica del concetto di umanesimo, la poesia può svolgere un ruolo decisivo?

Attanasio – Non solo la poesia. Ma tutta la scrittura: se è tale. Cioè: esperienza di verità e parola di libertà. E in quanto verità e libertà promuove una visione del mondo a carattere antropocentrico. Non esiste un poeta – ma nemmeno un narratore – che non ponga al centro della scrittura l’uomo. La scrittura è tout court angolazione antropocentrica sul mondo e sul linguaggio del proprio mondo. E non c’è, fortunatamente, tecnocrazia che tenga.

Benni – È una delle poche speranze a cui non rinuncio.

Di Dio – La brevità della poesia, la sua strutturale densità e stratificazione storica la rendono il medium più adatto a rappresentare i mutamenti antropologici della nostra società e ad essere oggetto di comprensibile indagine e insegnamento di un sapere che si dica umano; tra l’altro, la poesia è capace di abitare da perfetto parassita e meglio di altre forme artistiche gli interstizi dei social media e degli scambi economici tradizionali. È necessario, da un lato, abituarci all’idea di una poesia diffusa (anche di basso valore) e, dall’altro, saper captare le maggiori forze espressive e concentrarle: mi sembra ci sia un gran lavoro da fare.

Villalta – Come sempre, sì, poiché la sua radice si ramifica là dove il corpo diventa parola, creazione di senso e comunicazione, costituzione del valore simbolico della vita (con la v minuscola). L’attuale situazione di occultamento della poesia non deve ingannare sulla sua importanza e sulla sua potenza, per quanto sia difficile oggi rilevare i tempi e i luoghi privilegiati in cui l’operare della poesia stessa è in atto.

 


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MARIA ATTANASIO , TOMMASO DI DIO , STEFANO BENNI , SAPERI UMANISTICI


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Letteratura

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