Studiare a Piazza Lanza

di Pietro Cagni

Inizia un reportage della nostra redazione all’interno del carcere catanese di Piazza Lanza, in cerca dei luoghi di frontiera in cui oggi si tenta di trasmettere le forme essenziali della cultura.

Il caldo a Catania è impietoso. Ancora a metà settembre non si respira. Attraverso la città per raggiungere Piazza Lanza. A guardare bene, ci sono tutti i segni dell’inizio dell’anno: il traffico di nuovo colma di macchine le strade, i ragazzini in giro con gli zaini sulle spalle, i genitori ancora una volta in fila nelle anguste librerie. Le code per i libri di testo arrivano fino in strada.
Piazza Lanza è una piazza come tante altre a Catania: c’è il bar all’angolo, l’edicola, il chiosco di sciroppi e bevande tipiche. Per chi la sera, finita la giornata di lavoro, lascia la città e fa ritorno nei paesi dell’hinterland etneo, Piazza Lanza è un passaggio spesso obbligato che porta alla circonvallazione. Di mattina, poi, tutta la zona è in fermento, per le scuole, gli ospedali, l’università non lontani. Anche qui vedo un’ordinata folla che arriva fino in strada. Oggi è giorno di colloqui: i parenti dei detenuti portano i pacchi con generi alimentari, medicinali, vestiti. Perché Piazza Lanza è anche, e soprattutto, il carcere, posto nel cuore della città. La presenza di questa ‘casa circondariale’ (occorre cominciare a essere precisi, perché questo è il termine corretto) passa in genere del tutto inosservata, eccetto che nei giorni di visita come questo. Eppure, anche in questo luogo di detenzione, pur dietro innumerevoli porte che lo separano dal ‘mondo di fuori’ (il nostro), si prepara un nuovo inizio: anche a Piazza Lanza sta per ricominciare l’anno scolastico.
Sono in ritardo. L’appuntato all’ingresso consulta l’autorizzazione con i nominativi: tutto è in ordine. Occorre lasciare borse, chiavi, cellulari, ed entrare. Per il primo incontro non bisogna fare molta strada: restando negli ambienti della direzione e dell’amministrazione, incontro la dott.ssa Zito, direttrice della struttura di Piazza Lanza, e il dott. Avelli, responsabile delle attività educative, poi la preside e i docenti della scuola. Non ci troviamo ancora nella zona detentiva dove sono allestite le aule scolastiche. Qui ho l’occasione di assistere al primo consiglio di classe dell’anno: è il primo contatto con  la scuola carceraria di Piazza Lanza.
Il tono del dialogo è molto concreto: i docenti sono felici di poter raccontare la loro esperienza, di poter uscire dall’invisibilità in cui la realtà scolastica del carcere è relegata rispetto al territorio. Sapere che la scuola di Piazza Lanza verrà raccontata ‘all’esterno’ accende l’interesse di tutti, e così il dialogo non stenta a partire. Un’insegnante in servizio da 19 anni nelle carceri italiane (ha cambiato sede nove volte) prende la parola e mi racconta delle difficoltà più grandi, dell’ostacolo linguistico che spesso rende pressoché impossibile il rapporto con il detenuto straniero. La comunità straniera, a Piazza Lanza, è quasi interamente formata da uomini provenienti dai paesi arabi che inoltre, nella maggior parte dei casi, non hanno mai avuto esperienze di scolarizzazione. In un tale contesto non basta saper masticare un po’ di francese o di inglese. Spicca drammaticamente l’assenza di specifici mediatori culturali: il loro supporto potrebbe superare una barriera linguistica (quella della lingua araba) che, altrimenti, è destinata a restare invalicabile.
Il responsabile degli educatori allarga lo sguardo alle dinamiche interne alla vita in carcere: «Non credere che la scelta di frequentare la scuola sia ‘pura’. Al contrario, è ‘viziata’», mi spiega il dott. Avelli, «perché la cosa più importante per un detenuto è poter uscire dalla propria cella, spezzare la routine quotidiana». C’è anche un altro elemento che potrebbe suggerire, alle menti più ciniche, che la dinamica educativa della scuola carceraria sia irrimediabilmente ‘falsata’ nei suoi presupposti: per chi partecipa con costanza alle attività scolastiche, infatti, è prevista una minima indennità mensile. Inutile dire quanto, al contrario, sia comprensibile questa situazione, e quanto sia encomiabile il tentativo dell’amministrazione di assicurare la copertura finanziaria necessaria, pur in una situazione economica sempre più difficile: il Ministero della Giustizia, infatti, chiede agli istituti carcerari sempre più tagli e sacrifici, sia in termini economici che di personale di polizia penitenziaria (sceso, negli ultimi mesi, da 400 a 360 unità).
Mi limito ad ascoltare e a prendere appunti: comincio a capire la gravità dei problemi che questi insegnanti si trovano a fronteggiare ogni giorno, e quanto sia complessa la declinazione del compito educativo della scuola nel contesto carcerario. Tutte le asserzioni teoriche sull’educazione, sulla trasmissione del sapere, qui chiedono di essere riformulate e applicate in una situazione di estrema emergenza, non già culturale ma umana. Non a caso, interviene nel dialogo un’altra docente, che sottolinea il collegamento tra il ‘suo’ mondo del carcere e il ‘nostro’ mondo dei quartieri e dei contesti poveri e degradati della città, dove i ragazzini, traditi dalle famiglie, dall’istituzione scolastica e dalle altre cosiddette ‘agenzie educative’, sono privati di ogni occasione e divengono una facile preda della criminalità.
Tuttavia, sin da questa prima visita, emerge con forza che qualcosa si oppone a tutto questo: come nei contesti più a rischio di Catania numerosi enti caritativi continuano a lavorare per rispondere al bisogno della gente (non solo di natura materiale), anche nel carcere c’è chi lavora per colmare i vuoti e le emergenze, spendendosi con sacrificio. La scuola, e questo è un fatto, sta per iniziare anche qui, anche se probabilmente i quaderni e le penne per i detenuti (un quaderno e una penna ciascuno, da tenere cari) non basteranno per l’intero anno scolastico, la piccola retribuzione promessa non potrà essere erogata nei tempi stabiliti, le barriere linguistiche e culturali e i continui trasferimenti dei detenuti in altre sedi (Piazza Lanza è un carcere ‘di passaggio’, in cui solo pochi detenuti scontano per intero la propria pena, mentre la maggior parte della popolazione reclusa è composta da chi è in attesa del processo) renderanno impossibile lo svolgimento di un percorso scolastico continuativo e regolare.
Basta poco per sentirsi del tutto impotenti, e per rendersi conto che i problemi sono strutturali e la loro gravità non diminuirà col tempo ma, anzi, sembra destinata ad allargarsi drammaticamente (la recente condanna delle carceri italiane da parte della Corte di Strasburgo per aver praticato «trattamenti disumani e degradanti»[1] è una ferita aperta). Basta ancora meno per perdere ogni fiducia in un miglioramento. Ma occorre smarcarsi dall’astrazione ed essere concreti, dando il massimo rilievo al buono che c’è. Nella casa circondariale di Piazza Lanza la direttrice, i docenti, il personale penitenziario, i numerosi volontari che, durante la settimana, danno vita ai laboratori e alle attività extra-scolastiche (teatro, taglio e cucito, pittura, liuteria) tentano senza sosta di trovare l’impossibile equilibrio tra ‘la sicurezza’ e ‘il trattamento’, tra la detenzione e la rieducazione, tra la gestione di uomini e donne che hanno perduto la propria libertà e la necessità di offrire loro un trattamento degno, una possibilità per cui ripartire.
Esco tramortito da questo primo incontro: dovrò attendere qualche giorno per trovare le parole e poterlo raccontare. Attendo adesso che si costituiscano le classi, poi conoscerò meglio i detenuti.

 

[1] Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, n. 49169/09 del 16 settembre 2014, § 29 e 54.

 


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CARCERE , CATANIA , COMUNICAZIONE , INSEGNAMENTO , DETENUTO


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Educazione e società

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