Rivoluzione digitale e studi umanistici
Le risposte del filologo Domenico Fiormonte 

di Lianna D''Amato

Oggi è noto quanto sia in crisi il mondo delle scienze umane e come le tecnologie  digitali abbiano cambiato profondamente il metodo di trasmissione e di produzione del sapere. Questo cambiamento comporta in particolare la trasformazione della nostra concezione di testualità e di scrittura, portando alla diffusione del concetto di testualità digitale. Quale pensa debba essere a livello didattico il ruolo dell’università in questo clima di grande cambiamento?

Da molti anni affermo che l’università, e soprattutto le facoltà umanistiche, potrebbero avere un ruolo trainante nella trasformazione dei formati della conoscenza. Purtroppo i programmi di insegnamento (corsi di laurea, master, ecc.), nonostante la grande tradizione italiana dell’informatica umanistica, sono pochi e concentrati nel Nord Europa e negli Stati Uniti. Questo squilibrio si riflette non solo a livello formativo, ma anche nella ricerca. Assistiamo così, soprattutto negli ultimi anni, a una tendenza ad assorbire applicazioni e metodologie pensate in (e per) contesti culturali diversi. L’effetto perverso della mancanza di investimenti e competenze adeguate in questo campo è la colonizzazione del nostro patrimonio culturale attraverso tecnologie cosiddette ‘standard’. Ma chi decide questi standard? Come sono composti i gruppi, i consorzi, le organizzazioni che li decidono? Spesso infatti essi rappresentano l’esatto opposto della diversità culturale, tendendo a livellare e universalizzare la rappresentazione digitale degli artefatti culturali secondo il modello anglofono. Per poter traghettare la nostra conoscenza abbiamo bisogno dunque di umanisti digitali formati in ciascuna comunità, ma anche di competenze interdisciplinari e multiculturali. Purtroppo però l’università – e non solo quella italiana – non riesce a innovarsi. Vorrei infine aggiungere che la crisi delle scienze umane ed umanistiche, alla quale lei accenna, non c’entra direttamente con la trasformazione digitale, ma viene da molto più lontano. Certo vi sono molti aspetti che vengono messi in crisi (come il concetto di testo e le pratiche di lettura-scrittura), ma il problema a monte è squisitamente ‘politico’, nel significato più alto di questa parola, cioè di governo della polis. Sono la società e i singoli individui che, in un determinato momento storico, si assumono la responsabilità di scegliere che cosa preservare, che cosa trasformare e che cosa lasciare andare. Negli ultimi venti anni la società occidentale, ovviamente sotto la spinta dei poteri dominanti, ha smesso di attribuire importanza all’istruzione, alla formazione e alla cultura. È stata una scelta della polis suicida quanto si vuole, ma a mio parere assolutamente consapevole. E le tecnologie digitali con questo suicidio c’entrano poco.

 

Il dibattito sulla rivoluzione digitale ha causato forti estremismi, ritiene che la scarsa capacità di accettare questa rivoluzione digitale in atto sia una paura in parte fondata o che dipenda soltanto dalla paura verso l’ignoto?

Da anni non seguo il dibattito mediatico, ma dodici anni fa, quando pubblicai Scrittura e filologia nell’era digitale, mi accorsi che era già allora difficile dividere il campo in due fazioni (i soliti apocalittici e integrati). Ma ancora prima di questo bisogna vedere che cosa si intende con ‘rivoluzione digitale’. La cosiddetta rivoluzione digitale, cioè la diffusione delle tecnologie digitali applicate alla comunicazione e all’informazione, a livello globale è un fenomeno relativo e ha prodotto, anche in Occidente, vaste aree di esclusi. Non voglio dilungarmi, ma esistono molti studi, scarsamente o per nulla citati dai media mainstream, che documentano il problema del cosiddetto digital divide, cioè l’esclusione di intere fasce di popolazione, quasi sempre le più povere e meno scolarizzate (adulti di classe bassa, donne, anziani, ecc.), dall’uso degli strumenti informatici. Quando dunque parliamo di resistenze o paure, di che cosa stiamo parlando? Non ho visto i dati del 2015, ma fino allo scorso anno due organizzazioni mondiali come l’ITU (agenzia ONU) e la Banca Mondiale stimavano che nel mondo gli utenti di internet sono poco più due miliardi e settecentocinquanta milioni. Insomma, la cosiddetta rivoluzione digitale riguarda meno del 40% della popolazione mondiale.

 

Dal punto di vista dell’archiviazione, secondo lei, i nuovi sistemi saranno in grado di conservare e mantenere accessibili tutti i dati a lungo termine nonostante il continuo progresso dei supporti?

Non è facile rispondere a questa domanda. Il problema come si sa è duplice: da un lato c’è il problema dell’obsolescenza delle macchine (l’hardware), dall’altro quello dei programmi (il software). Nel primo caso si può stare relativamente tranquilli, nel senso che diversificando i supporti di memorizzazione è possibile garantire una ragionevole trasportabilità dei dati. Più complessa la questione dei programmi con i quali ‘leggiamo’ i dati (per esempio un motore di ricerca), o anche dei linguaggi attraverso i quali codifichiamo i contenuti, per esempio XML-TEI nel caso dei testi della tradizione umanistica. In tali casi, anche quando ufficialmente viene detto l’opposto, non c’è nessuna garanzia che la nostra risorsa (ad esempio un archivio online) sarà ancora consultabile fra venti o trent’anni. Per la TEI si parla molto di possibilità di scambio dei dati, ma il fatto è che ciascun progetto adotta criteri propri che è difficile (e probabilmente sbagliato) eliminare in favore di una maggiore uniformità. Ecco perché a livello di agenzie governative, fin dagli anni ’70, si parla di necessità di continua ricodificazione dei dati per poter garantire l’accesso attraverso il tempo. Tuttavia questa ricodificazione richiede ingenti investimenti che le università, e soprattutto le istituzioni culturali e formative, non saranno mai in grado di affrontare. Alla fine il rischio è che a decidere che cosa sopravvivrà saranno Google, Microsoft o Facebook…

 

Era il 2010 quando Francesco M. Cataluccio in Che fine faranno i libri? presentava la descrizione e il successo dell’ebook, oggi invece si parla di un crollo delle vendite e di un potenziale ritorno alla carta. Cosa pensa riguardo il ribasso delle vendite dell’ebook soprattutto in America?

Francamente non conosco le statistiche di cui parla, ma recentemente ho letto uno studio ufficiale sui consumi culturali in Spagna secondo il quale nell’ultimo quadriennio il numero dei lettori su supporto digitale è triplicato (vedi http://www.universoabierto.com/23209/encuesta-de-habitos-y-practicas-culturales-en-espana-2015). Le statistiche si possono leggere in molti modi e non credo si possa parlare di crollo, tutt’al più di stabilizzazione, perché è ovvio che dopo quattro o cinque anni di crescita vi sia stato un rallentamento. Nell’inchiesta non si parla solo di ebook, ovvio, ma in ogni caso è evidente che il consumo di testualità elettronica, ci piaccia o meno, è destinato ad aumentare, non a diminuire.

 


Tags

RIVOLUZIONE DIGITALE , EDITORIA , SAPERI UMANISTICI


Categoria

Filologia e linguistica

Scarica il PDF

Siculorum Gymnasium

A Journal for the Humanites

ISSN: 2499-667X

info@siculorum.it