Cesare deve morire, o del potere dell’arte

di Federico Salvo

«Quante volte per finta sanguinerà Cesare, che ora giace al piedistallo di Pompeo, e che vale quanto la polvere!». La frase è pronunciata dal cesaricida Bruto davanti al corpo esanime di Giulio Cesare nell’omonima tragedia shakespeariana, opera riadattata e messa in scena nel 2012 dalla Compagnia dell’Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia: un gruppo di attori-detenuti diretti dal regista Fabio Cavalli. E di questo spettacolo il film Cesare deve morire dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani racconta l’allestimento, partendo però dall’epilogo.
La fine come inizio quindi, quasi a voler fornire una traccia lungo un percorso che ha la forma di un esperimento ‘pirandelliano’; tra cinema e metateatro.
A metà tra gioco degli specchi e scatole cinesi i due livelli finzionali, filmico e teatrale, si sovrappongono, si confondono, si intrecciano e si scontrano, lasciando che la realtà con le sue verità emerga in improvvisi squarci fugaci, nella profondità di emozioni rivelate da movimenti ed espressioni. La macchina da presa scruta e mostra con delicatezza un non-luogo in cui il tempo sembra sospeso, e dove, tra bianco e nero, tra luci ed ombre, prende vita un teatro essenziale, fatto solo di corpi, gesti e sonorità dialettali nobilitate dalla parola poetica. Gli attori-detenuti, poiché legati dalle radici stesse del loro vissuto a temi universali quali potere, giustizia, fratellanza, violenza, tradimento, onore, non solo danno loro voce, ma ne sono incarnazione, e proprio da tale intensità corporea scaturisce un pathos travolgente e continuo. Recitare per trovare e mostrare se stessi, recitare per soddisfare il primigenio bisogno espressivo dell’essere umano: è una catartica ri-significazione dell’esperienza carceraria ed insieme di quella teatrale. Ma è anche di più, e infatti a conclusione del percorso si ritorna al finale, che solo adesso svela tutto il suo valore: «Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione».
Finzione e realtà si incontrano: la libertà della patria difesa da Bruto e Cassio è la stessa che larte sprigiona e dona a chi è disposto a conoscerla. Cesare deve morire così come, una volta calato il sipario, i teatranti devono tornare alla spietata quotidianità della cella: sono due sacrifici che coincidono e suggellano un unico prezioso inno all’arte. L’arte come unica forza capace di dare voce alla nostra anima, di liberarla e di elevarla, sì da farci comprendere ed esprimere l’essenza della nostra umanità.

 

 


Tags

REBBIBIA , CARCERE , TEATRO , CINEMA , PAOLO TAVIANI , VITTORIO TAVIANI


Categoria

Arte e spettacolo

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