Giovanni Verga, I Malavoglia (a cura di Ferruccio Cecco), Novara, Fondazione Verga e Interlinea, 2014, pp. 565, € 30.

di Rosy Cupo

Nel 2014 l’edizione critica de I Malavoglia a cura di Ferruccio Cecco fissa una tappa fondamentale e insieme infonde rinnovato vigore al progetto dell’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Verga. Il maggior capolavoro verghiano acquisisce così una facies testuale più stabile rispetto alla prima edizione critica dello stesso curatore (Milano, Il Polifilo).
Nell’Introduzione si ricostruisce l’elaborazione del romanzo (con ampio e puntuale ricorso alle fonti esistenti) nell’ambito delle travagliate vicissitudini delle carte verghiane.
Il testo assunto come base per l’edizione è la stampa del 1881, l’unica sorvegliata direttamente dall’autore, pur se guastata da numerosi refusi. Cecco dimostra con serrata argomentazione l’estraneità del Verga alla riedizione del 1907, alterata da inopportune normalizzazioni dell’interpunzione. Conferisce inoltre il giusto rilievo all’uso del trattino, che non è «un marginale dettaglio tipografico, perché impone un criterio netto di distinzione tra discorso diretto e didascalia, laddove molto spesso si dà nel testo dell’ ’81 [...] una “zona fluida” che permette la transizione senza soluzione di continuità dal discorso diretto, all’indiretto libero, alla didascalia» (p. XV).
La fedeltà alla princeps non costituisce tuttavia assunto dogmatico: ogni specifica questione è soppesata e giustificata attraverso il ragionato ricorso ai manoscritti e all’usus scribendi dell’autore; il curatore dimostra inoltre una notevole sensibilità linguistica nel ripristinare alcune espressioni, che, pur giungendo a volte «ai limiti del solecismo», possiedono una precisa motivazione (ad esempio le concordanze tra un pronome o un aggettivo al maschile e un sostantivo al femminile, spiegate per attrazione del maschile dialettale, p. LXXXVII).
L’apparato genetico, di impianto tradizionale, consente di seguire agevolmente la cronologia degli interventi d’autore. Nelle tre appendici si pubblicano gli schemi preparatori e i nove abbozzi superstiti, di cui cinque, gravitanti attorno a fatti che non travalicano il V capitolo, attestano fasi elaborative antecedenti al manoscritto base A. L’affascinante ipotesi che ne consegue, apportatrice di interessanti sviluppi, è che l’ampia parte del romanzo successiva al V capitolo (su un totale di quindici) sia stata ideata direttamente sul manoscritto inviato in tipografia, i cui tempi sono tra l’altro perfettamente circoscrivibili nel giro di soli tre mesi grazie alla celebre nota autografa che scandisce con precisione il ritmo di lavoro previsto.
Poggiando sui solidi puntelli dell’analisi filologica Cecco descrive la tormentata gestazione linguistica de I Malavoglia, mirante ad annullare il filtro e il punto di vista del narratore: dopo quasi quattro anni, superando le labili e intermittenti «movenze del linguaggio parlato» dei primi tentativi, Verga riusciva, all’altezza del 1878, ad individuare il «timbro giusto, un’intonazione di fondo» (p. XXXII), grazie anche alla massiccia introduzione dei proverbi nell’ultima fase di composizione del ms. A (ben 131 su un totale di 170, ricavati dal noto elenco estrapolato dal volume del Pitrè e riprodotto in appendice).
L’edizione assolve egregiamente il compito di completare una storia intuita sagacemente da altri (Branciforti, Riccardi) e finalmente organicamente restituita e interpretata. 


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GIOVANNI VERGA , I MALAVOGLIA , LETTERATURA MODERNA


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