Napoleone Colajanni, Nel Regno della Mafia (dai Borboni ai Sabaudi) (a cura di Gianluca Fulvetti), Roma, Edizioni di Storia e Studi Sociali, 2014, pp. 140, € 14.

di Fabrizio La Manna

Nella lunga introduzione al volume che ripropone lo scritto di Napoleone Colajanni sulla mafia (1900), il curatore Fulvetti posiziona l’opera all’interno di un percorso di indagine sul fenomeno mafioso di cui essa costituisce uno dei primi e fondamentali tasselli interpretativi. Definito giustamente un «instant-book» (p. 21), lo scritto viene infatti pubblicato quando per la prima volta il tema della mafia assurge a questione di interesse nazionale, in concomitanza con il processo per l’omicidio di Emanuele Notarbartolo. Nel dicembre del ’92, Colajanni aveva denunciato in Parlamento lo scandalo della Banca Romana, che avrebbe potuto avere dei riflessi giudiziari anche a livello periferico, coinvolgendo altri istituti di emissione, tra cui il Banco di Sicilia. In questo contesto matura l’assassinio Notarbartolo, che da direttore del Banco di Sicilia, prima di esserne estromesso, aveva messo sotto accusa il consiglio di amministrazione, in cui sedeva l’onorevole Raffaele Palizzolo, considerato il mandante.
Lo scritto di Colajanni rappresenta anche una riflessione generale, storico-sociale e antropologica sulla Sicilia ed i suoi assetti politici. Fin dal titolo emerge chiara la continuità tra il vecchio regime borbonico e lo Stato sabaudo: nata sotto i Borboni, la mafia viene alimentata dal nuovo Stato unitario, che anzi si serve sistematicamente dei suoi metodi e del suo appoggio. Colajanni si avvale del contributo conoscitivo fornito dalle inchieste (Bonfadini, Franchetti-Sonnino e Damiani) sulle condizioni della Sicilia, svoltesi alla fine degli anni ’70, e potrebbe ad una lettura superficiale apparire sconcertante l’affermazione secondo la quale «non sempre la mafia ha come scopo il male; talora, anzi non di rado, si propone il bene, il giusto; ma i mezzi che adopera sono immorali e criminosi» (p. 53); ma in questa distinzione di una «mafia degenerata» sta tutta la volontà del politico siciliano di comprendere il fenomeno nelle sue radici sociali. La mafia, definita più volte come un «sentimento medievale», è il retaggio di una secolare attività di abusi e prevaricazioni, che perdura in quell’atteggiamento diffuso di sfiducia e di avversione verso tutte le istituzioni governative. Le sue radici sociali trovano una spiegazione nel malgoverno, causa non solo di inefficienza, ma anche di un decadimento morale, in cui inevitabilmente trova terreno fertile l’atteggiamento mafioso.
Quello di Colajanni è anche un atto di accusa nei confronti di quella classe politica emersa dopo la rivoluzione parlamentare del ’76, quando la Sinistra depretisiana spodesta la Destra storica. È a partire da questo momento che ha inizio la degenerazione della mafia. L’attacco rivolto alla classe dirigente nella sua quasi totalità riporta alla luce quel fenomeno che aveva profondamente colpito anche Franchetti, il cosiddetto ‘manutengolismo’. Nel corso del processo Notarbartolo emerge infatti una rete di coperture a vari livelli, che nella pratica di fiancheggiamento e sostegno agli esecutori materiali del delitto da parte dei ‘gentiluomini’ rivela in tutta la sua preoccupante gravità la contiguità ed il legame profondo con l’ambito dell’esercizio della violenza.

 


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NAPOLEONE COLAJANNI , MAFIA , BORBONI , SAVOIA


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Storia

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