Giuseppe De Felice Giuffrida, Maffia e delinquenza in Sicilia (a cura di Rosario Mangiameli), Roma, Edizioni di Storia e Studi Sociali, 2014, pp. 96, € 12.

di Fabrizio La Manna

Un rinnovato interesse verso la figura di Giuseppe De Felice Giuffrida, sindaco demiurgo della vita politica catanese a cavallo tra due secoli, nonchè tra i massimi protagonisti del movimento dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, sta alla base della riedizione del noto, ma poco letto, libello defeliciano, originariamente pubblicato nel 1900.
L’uomo politico catanese, che la tradizione storiografica relegava alla sola dimensione locale, incarnante tutta una serie di tratti populisti che gli valsero l’appellativo di «viceré socialista», emerge in questa occasione nella sua multiforme complessità. Da parlamentare contribuisce infatti ad alimentare un dibattito già in corso, facendosi portavoce di una denuncia contro il malaffare e le connivenze da parte delle istituzioni. Il clamore suscitato dal delitto eccellente di Emanuele Notarbartolo, che da presidente del Banco di Sicilia si era inimicato numerosi personaggi altolocati, ed il conseguente processo che vide tra i principali imputati il deputato Palizzolo, ritenuto il mandante del feroce assassinio, costituiscono le premesse da cui prende le mosse il volume di De Felice, che per stessa ammissione dell’autore rielabora alcuni articoli già apparsi sull’Avanti!
Mangiameli, che si è già occupato in diverse occasioni del fenomeno mafioso dal punto di vista della genesi storica e dei codici culturali, nel saggio di apertura, che funge anche da introduzione all’opera, fornisce i dati essenziali per dipanare la complessa trama della vicenda, ed un inquadramento del contesto storico in cui collocare il pamphlet defeliciano, sottolineandone anche i limiti interpretativi. A giudizio di Mangiameli, pur tra i tanti meriti, il limite maggiore dell’opera consiste nell’incapacità di inquadrare il fenomeno della democratizzazione e della privatizzazione della violenza, ossia di quel processo seguito all’eversione della feudalità ed alla cessazione del dominio baronale, avuto luogo a partire dai primi decenni dell’Ottocento. Il pamphlet è impregnato di un ottimismo progressista di matrice positivista che condiziona, talvolta in maniera troppo univoca, e riduttiva, la lettura defeliciana del fenomeno mafioso. La ricerca delle effettive cause materiali alla base del fenomeno mafioso nasce anche dal rifiuto delle teorie antropologiche lombrosiane, venate di un forte pregiudizio culturale antimeridionale. Secondo Mangiameli, la connotazione della mafia «alla stregua di un fenomeno residuale» (p. 5), derivante dalla permanenza di fattori di arretratezza, il cui principale è il sistema legato al latifondo, è una diretta conseguenza di una simile impostazione.
Il largo ricorso alle statistiche criminali, rapportate a quelle economiche, genera nell’uomo politico la convinzione che «alla geografia della maffia corrisponde perfettamente la geografia economica dell’isola» (p. 32). Tuttavia, il socialista De Felice, applicando meccanicisticamente il nesso arretratezza socio-economica e presenza mafiosa, non riconosce la specificità della cosiddetta mafia urbana, radicata proprio laddove i circuiti politico-economici sono più integrati e generano i maggiori profitti. Pur intuendo, e lo si vede dal tono delle accuse rivolte alle diverse istituzioni (politica, giustizia e pubblica sicurezza), la connessione tra mafia e pubblici poteri, non è consequenziale nel definirne gli effetti, ovvero la mutazione genetica del fenomeno, che può trovare (e troverà) terreno fertile proprio nelle aree a maggior sviluppo economico. Lo si vede in maniera lampante nei passaggi in cui De Felice non riconosce la valenza delle osservazioni di Villari, esposte nelle Lettere meridionali, sulla contraddittoria prosperità economica e produttiva della Conca d’Oro.  


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GIUSEPPE DE FELICE GIUFFRIDA , MAFIA , MAFFIA , CATANIA


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Storia

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