Francesco Di Bartolo, Nel latifondo siciliano. La violenta trasformazione del feudo Polizzello (1920-1964), postfazione di Emanuele Macaluso, Catania, Villaggio Maori, 2014, pp. 323, € 16.

di Giovanni Criscione

Il tema della mancata modernizzazione del latifondo siciliano, che è al centro di questo volume, rappresenta il campo di ricerca privilegiato dall’autore che ha già pubblicato vari studi sull’argomento (tra gli altri: Lavoro, salario, diritti. Vent’anni di lotte bracciantili in Sicilia 1948-1968, Roma, Ediesse, 2011; Terra e fascismo. L’azione agraria nella Sicilia del dopoguerra, Roma, XL, 2012). Rispetto ai precedenti volumi, nell’ultimo libro l’autore estende l’arco temporale della ricerca dal 1920 al 1964 e ne restringe l’ambito spaziale, circoscrivendolo al feudo Polizzello, tra Mussomeli e Villalba, in provincia di Caltanissetta. La scala locale non fa velo al significato emblematico che il caso di studio riveste nel quadro del più generale dibattito sulle cause dell’arretratezza economica dell’isola. La vicenda del fondo Polizzello, come sottolinea anche Macaluso nella postfazione, è esemplare di come la mafia mise le mani sul feudo dei Trabia e lo gestì, prima negli anni del fascismo e poi in quelli della repubblica, ricavandone profitti diretti da abigeati, taglieggiamento, prestito a usura, intermediazioni parassitaria su affitti, rendite agricole e flussi di denaro pubblico per le bonifiche e le trasformazioni fondiarie; ma anche vantaggi indiretti connessi al controllo e all’influenza sulla comunità locale, esercitati con ricatti e pressioni, concessione di terre e favori, minacce armate o mediazioni politiche. Ex pastori divenuti campieri e sovrastanti al soldo dei grossi proprietari terrieri, i boss e gli affiliati al clan di Mussomeli – le famiglie Messina, Genco Russo, Collura, Sorce, Castiglione, Tulumello, ecc. – nel clima rovente del primo dopoguerra costituirono le cooperative Combattenti e Pastorizia per reclamare le terre incolte. I nuovi sodalizi, inserendosi nello scontro tra le posizioni conservatrici degli agrari e le istanze riformiste dell’Opera nazionale combattenti, riuscirono a evitare gli espropri e a ottenere un accordo privato tra le parti che lasciava loro un ampio margine d’arbitrio nella scelta degli affittuari. La chiusura di associazioni e cooperative e la controffensiva giudiziaria attuata dal Fascismo non impedirono ai mafiosi di infiltrarsi nei nuovi centri di potere e sabotare l’intervento pubblico a vantaggio di interessi illeciti e privati. Anzi, nel ventennio mussoliniano, si posero le basi per spettacolari arricchimenti di uomini legati alla criminalità organizzata. Giuseppe Genco Russo, per esempio, benché risultasse ufficialmente nullatenente, nel corso delle sue attività aveva accumulato un patrimonio miliardario gestito attraverso familiari e prestanome. Non a caso nel secondo dopoguerra occupò la scena politica e sociale nella provincia nissena, quando la mafia riuscì a imbrigliare l’azione degli enti di riforma agraria e a piegare i provvedimenti in materia di sviluppo economico del territorio a proprio vantaggio. Lavorando su un’ampia documentazione d’archivio, costituita dai fondi dell’Opera nazionale combattenti, del Ministero dell’Interno e sulle carte giudiziarie e processuali conservate nell’Archivio di Stato di Caltanissetta e da interviste a testimoni privilegiati, l’autore fa emergere la natura camaleontica dell’organizzazione criminosa, la sua capacità di tessere e disfare alleanze politico-istituzionali, il complesso intreccio di legami con gli istituti di credito, il clero, i partiti di massa, la burocrazia regionale e nazionale, e persino la sua capacità di servirsi di strumenti ‘progressisti’ (associazionismo agricolo, processi di democratizzazione, allargamento della partecipazione politica) in vista dei propri obiettivi.

 


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LATIFONDO , MODERNIZZAZIONE , MAFIA


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Storia

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