Andrea Manganaro, Partenze senza ritorno. Interpretare Verga, Catania, Edizioni del Prisma, 2014, pp. 194, € 22,00.

di Pierluigi Pellini

Del più recente episodio dell’ormai lunga fedeltà verghiana di Andrea Manganaro si apprezzano innanzitutto la composta eleganza della scrittura e il perfetto equilibrio fra spunti originali, volti a illuminare aspetti poco esplorati dell’opera o della sua ricezione, e utile sintesi, capace di fare il punto su questioni storiografiche a lungo dibattute, ma non perciò esaurite. L’autore dichiara del resto fin dalla Premessa i capisaldi di un ethos ermeneutico non disposto a rinunciare (come troppo spesso si è fatto, in anni recenti) al dialogo con la precedente critica: insieme al rispetto per il testo, quello per gli sforzi degli interpreti che hanno provato a dargli un senso rinnovato, è la costante del volume.
In apertura, l’ampio e impegnato saggio eponimo sulle Partenze senza ritorno dei Malavoglia, tornando con finezza sul destino del giovane ’Ntoni e chiarendo come l’idealizzazione del passato sia tale, nel primo capolavoro romanzesco del verismo, «solo nella memoria» (p. 38), inserisce l’opera verghiana nell’orizzonte, attualissimo, di una riflessione sulle crescenti divaricazioni fra sviluppo economico e benessere. Romanziere della rottura storica (non solo di quella post-unitaria) e dell’aporia ideologica (non solo di quella dei facili progressismi positivisti), Verga torna infatti quasi di necessità al centro del dibattito culturale a ogni svolta traumatica della storia italiana: non è un caso che si assista, dopo anni di relativa latenza, a un rinnovato, vivace interesse per il verismo nei nostri tempi di crisi. A conclusione del libro, l’insolito e riuscito esperimento di un percorso tematico (… e chi vive si dà pace), pensato, prima ancora che per la lettura, per la recitazione «ad alta voce» (p. 163), dà patente conferma di come un sobrio commento a margine possa a volte bastare a mettere in risalto la forza inesausta e sorprendente del dettato verghiano.
Fra questi due estremi tanto divaricati, ma perfettamente complementari, si dispiegano saggi di ampiezza e ambizione diverse. L’interesse del lettore specialista sarà destato soprattutto dalle incursioni nel laboratorio di un Verga poco più che adolescente (nel capitolo intitolato Terra e libertà, le origini della visione ideologica dello scrittore maturo, della sua distinzione a tratti manichea fra «contadini buoni e cattivi» (p. 47), sono rintracciate nelle esperienze risorgimentali che subito si ripercuotono nella rielaborazione del giovanile I Carbonari della montagna); o dalle riflessioni sulla presenza parca e problematica di Catania nell’opera narrativa (La città esclusa); e forse soprattutto da un saggio di storia della cultura, Verga “politico” tra Bottai e Gramsci, in cui conta l’esemplarità di due idee di letteratura, e di Italia, più dei limiti (evidenti) di entrambe le contrapposte letture. Altri contributi invece – sulle novelle nella storia della critica, sulla narrativa verghiana nel contesto del romanzo europeo, sulla particolare declinazione che l’attitudine all’impersonalità assume nei capolavori del verismo – coniugano rigore scientifico e passione didattica, offrendo impeccabili quadri d’insieme su questioni decisive della letteratura del secondo Ottocento.



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Letteratura


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