Identità europee e culture “altre”:
i musei in Europa, tra engagement e conflitto

di Francesco Mannino

 

 

What should the role of a migration museum in Europe be?
What master narrative is more fruitful in keeping together a historical approach and a focus on contemporary challenges?
Should the museum promote inclusion, dialogue and mutual understanding,
or should it just demonstrate that migration is an eternal phenomenon,
part of human nature and history, so that everybody can make connections at their own level, with their own tools?
And more precisely: should immigrants work in the museums?
How many languages should be spoken in guided tours and workshops?
Should there be a place for the immigrants’ communities to show off their culture, to celebrate, to discuss?

(Anna Chiara Cimoli, 2013)

 

 

Il 3 giugno di quest’anno il Presidente della Repubblica Mattarella ha inaugurato a Lampedusa “Verso il Museo della Fiducia e del Dialogo per il Mediterraneo”, progetto promosso dal Comune di Lampedusa e di Linosa con il supporto di MiBACT, Regione Siciliana, First Social Life, Comitato 3 ottobre (onlus che prende il nome dal giorno del 2013, quando nel naufragio al largo di Lampedusa persero la vita 368 migranti) e Fondazione Giovanni e Francesca Falcone. Del nascente museo il Presidente aveva sottolineato «l’importanza, perché la cultura unisce i popoli, migliora le relazioni internazionali. La cultura è un punto d’incontro di importanza decisiva». Appena qualche giorno prima il Collettivo lampedusano Askavusa, gestore di PortoM (museo degli oggetti dei migranti), in aperta contestazione dell’iniziativa aveva dichiarato:

Sul museo che si inaugurerà a Lampedusa però si possono individuare tutti gli elementi del museo coloniale: un museo imposto dall’alto con lo scopo di dominare il luogo in cui viene istituito e oltre il luogo, dominare il discorso che si sviluppa all’interno del museo, plasmare il discorso sulle migrazioni, come si fa da anni, fare del piano “umanitario” il piano su cui si sviluppa e si determina.

Nella piccola Lampedusa, ai margini estremi del continente europeo e al centro del nuovo drammatico flusso di esseri umani, si condensava in pochi giorni un tema che interessa già da alcuni decenni l’intera Europa, ovvero in che modo i musei stiano rispondendo alle nuove sfide sociali prodotte dall’immigrazione, in che maniera essi abbiano risposto alla massiccia emigrazione degli europei verso altri continenti, e soprattutto che ruolo essi stiano assumendo oggi nei confronti del multiculturalismo delle nostre società, spesso dilaniate tra solidarismo diffuso e conflitti sociali sempre più acuti.

Il presente lavoro tenterà di individuare alcuni nodi della questione, evidenziando le domande che il dibattito scientifico e museologico sta affrontando, a fronte delle rapide trasformazioni che il fenomeno migratorio sta subendo e che le istituzioni culturali stanno sentendo il dovere di fare proprie: in altri termini, ci si interrogherà su quali missioni i musei europei delle migrazioni stiano assumendo, e secondo quali direttrici le stiano interpretando.

 

La dimensione quantitativa del fenomeno

I flussi migratori hanno storicamente una estensione davvero impressionante, e difficilmente calcolabile con precisione. Si stima ad esempio che nel secolo 1820-1920 circa 23 milioni di persone abbiano lasciato l’Europa per i soli Stati Uniti.[1] Solo nel 2014, circa 2,8 milioni di emigrati hanno lasciato uno Stato membro dell’Unione Europea, mentre vi sono immigrate 3,8 milioni di persone:[2] più di un milione e mezzo di questi migranti proviene da paesi non membri UE. Il maggior Paese attrattore è la Germania, con quasi 900 mila immigrati nel 2014, seguita dal Regno Unito (più di 600 mila), da Francia (340 mila) e Spagna (305 mila). In Bulgaria, Irlanda, Grecia, Spagna, Croazia, Cipro, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia e nei tre Stati membri baltici, il numero degli emigrati è stato maggiore di quello degli immigrati. Il Lussemburgo, Malta e Irlanda hanno avuto il tasso di immigrazione più elevato (rapporto immigrati/popolazione totale). In termini assoluti, la Germania conta il numero maggiore di stranieri residenti (7,5 milioni), seguita da Regno Unito (5,4 milioni), Italia (5,0 milioni), Spagna (4,5 milioni) e Francia (4,4 milioni). Per ciò che riguarda le provenienze, si può assumere come indicatore il “tasso di naturalizzazione”, ovvero il rapporto tra il numero totale di attribuzioni di cittadinanza e lo stock di stranieri residenti all’inizio dello stesso anno. Dei circa 785 mila cittadini di paesi terzi residenti che hanno acquisito la cittadinanza dell’Unione nel 2014, il 29% provenivano principalmente dall’Africa, il 21% dalle Americhe, il 20% dall’Asia e il 18% da paesi europei non membri dell’Unione Europea.

Le politiche dell’UE in materia di immigrazione[3] sono concentrate su due assi prevalenti: il primo riguarda l’attrazione di figure professionali con determinati profili, volta a colmare  deficit di competenze della popolazione attiva europea; il secondo concerne la lotta all’immigrazione clandestina e al lavoro illegale. A questi due assi, che corrispondono a precise direttive emanate dal Consiglio d’Europa, si affiancano linee di intervento volte all’integrazione e all’inclusione sociale.

 

Immigrazione, integrazione e conflitti

Il contesto europeo, caratterizzato da una crescente polarizzazione sociale, sta reagendo in maniera contraddittoria al fenomeno dei migranti.[4] Da un lato in ampie porzioni di territorio comunitario i nuovi cittadini provenienti da paesi terzi sono ormai integrati e giunti alle seconde e terze generazioni. Le città si rivelano sempre più multiculturali, e tendono a valorizzare questa ricchezza grazie a progetti permanenti di scambio culturale, contaminazione, reciproca mutualità. Le scuole di ogni ordine e grado sono il primo luogo d’incontro alla pari, dove i bambini sono accomunati da medesime condizioni di educazione e crescono insieme condividendo spazi e attività. Gli spazi urbani più abituati alla circolazione delle persone diventano spesso luoghi di convivenza pacifica e di sperimentazione sociale. L’attivismo civico non di rado integra o sostituisce le iniziative istituzionali, producendo nuove relazioni tra i cittadini, indipendentemente dalla loro provenienza: luoghi di aggregazione sociale multietnica, scambi interreligiosi, incontri legati al cibo, allo sport, alla musica e al teatro, sono sempre più frequenti.

Dall’altro l’Europa si scopre sospettosa, intollerante e a tratti perfino xenofoba. Soprattutto nei contesti più degradati e nelle periferie urbane il rapporto diventa spesso conflittuale: le recenti ondate di richiedenti asilo politico, collocati in centri temporanei di permanenza ricavati non di rado da interventi frettolosi di riadattamento di stabili inutilizzati, ha fatto sì che la preoccupazione da un lato, e la spinta di movimenti razzisti dall’altro, facciano esplodere tensioni, scontri e reati contro le persone. Le condizioni di povertà assoluta sono spesso riconducibili anche alla condizione di migrante in attesa di occupazione o a basso reddito: le famiglie in tali condizioni contano un tasso elevato di povertà educativa dei loro minori.[5] L’OSCE (Organization for Security and Co-operation in Europe), grazie alle segnalazioni della società civile, ha rilevato per il 2014[6] 861 incidenti di stampo razzista, di cui la metà attacchi violenti contro la persona. Ma i dati ufficiali nazionali denunciano una situazione ancora più grave: basti pensare che per la sola Italia sempre nel 2014 si fa riferimento a 413 crimini razzisti e xenofobi, compreso un omicidio, e 34 aggressioni.

 

Cosa stanno facendo i musei europei

Secondo la nota definizione dell’International Council of Museums (ICOM), un museo è

un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente: le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone a fini di studio, educazione e diletto.

Le recenti interpretazioni che estendono la museologia da disciplina documentaria e mnemonica a scienza sociale, hanno aperto un dibattito serrato sul ruolo che il museo può avere per le società e i territori che lo ospitano. Il tema della ricerca e della acquisizione delle testimonianze, insieme alla loro esposizione, si è spesso sovrapposto ed integrato con la possibilità di un ruolo non meramente “osservatorio”, con l’apertura a riflessioni pubbliche, azioni educative permanenti, fino al coinvolgimento attivo di quelle porzioni di umanità oggetto della specifica ricerca di questo o quell’altro museo. È il caso ad esempio degli urban center, finalizzati alla narrazione delle città ma sempre più spesso luoghi di scambio tra i cittadini, che usufruiscono della conoscenza delle trasformazioni storiche del proprio spazio vitale, interagendo con esse e proponendo nuove azioni per il futuro. Allo stesso modo molti musei civici stanno interpretando in maniera estensiva la loro definizione, mettendosi a disposizione dei cittadini per attività culturali inclusive, seppur nel rispetto delle specifiche caratteristiche del luogo ospite.

 

Musei e migrazioni

Alle domande di Anna Chiara Cimoli sul rapporto tra musei e migrazioni in Europa riportate in premessa, la museologa risponde all’interno del suo testo Migration Museums in Europe Narratives and their visual translations, da cui la presente riflessione prende piede e con cui vuole instaurare una sorta di dialogo a distanza. In tale direzione la specializzazione museale è tutto sommato davvero recente, se si pensa che il famoso “Immigration Museum” di Ellis Island (NY, USA) è stato inaugurato nel 1990, ed è uno dei primi al mondo. Il tema è molto legato al dibattito politico (Desforges, Maddern 2004),[7] sia per ciò che riguarda i fenomeni emigratori (l’abbandono dei propri connazionali della terra natia si accompagna spesso con riflessioni di carattere identitario nazionale) che quelli immigratori. In ambedue i casi si tratta di argomenti assai popolari, che consentono ai decisori pubblici di gestire l’avvio di nuove iniziative sempre con grande agibilità. Va detto che il tema è servito anche a reagire ad una crisi delle narrazioni identitarie di comunità consentendo invece una apertura a modelli di diversificazione culturale, rischiando però così di scivolare in quello che viene definito da François Hartog “presentismo”, ovvero la tendenza a formulare ricerche e azioni esclusivamente in funzione di quello di cui il presente ha bisogno (Colucci 2007),[8] o ancora in una ingenuità che non tiene conto dei punti di vista differenti rispetto ad uno stesso argomento, con il pericolo di appiattire la complessità di cui esso è portatore (Baur 2010).[9]

In questo settore possiamo individuare almeno tre macro tendenze tra i musei europei. La prima, e forse la più longeva, è quella che si pone l’obiettivo di raccontare il fenomeno migratorio soprattutto dal punto di vista della emigrazione verso altri paesi. È molto consolidata perché ha un approccio museologico tradizionale, anche se può contare su applicazioni museografiche anche molto innovative (allestimenti, tecnologie). Esso è il frutto di un “boom della genealogia” (Cimoli 2013),[10] di un heritage toruism che spinge molti americani o australiani di origine europea a visitare questi musei per ritrovarvi le tracce dei propri antenati, dei loro movimenti e del significato dell’abbandono e del viaggio intrapreso. È ad esempio il caso del “The Swedish American Center” di Karlstad in Svezia.[11] Qui i discendenti degli emigranti vengono accompagnati in visita guidata e un archivio digitale raccoglie documenti e memorie dei loro antenati. Il grande rischio di iniziative siffatte è che, in assenza di una spinta a cogliere gli aspetti anche conflittuali che caratterizzano i movimenti di persone, essi si trasformino piuttosto in mausolei degli emigrati defunti, in cui la nostalgia per la propria discendenza trova un momento di riscontro materiale.

Un altro obiettivo assunto dai musei europei è quello di sensibilizzare: è un racconto che non si limita alla testimonianza ereditaria di chi ha lasciato l’Europa in passato, ma vuole interrogarsi e stimolare la riflessione nel visitatore sulle cause e sui fenomeni in divenire dei movimenti umani, sulla loro mobilità, sulla loro diaspora, sulle nuove condizioni di vita. In questo senso i musei si interrogano molto sulle comunità di riferimento, sulle residenti, ma anche sulle nuove comunità e sul senso del viaggio. È emblematico da questo punto di vista la storia del “Galata, Museo del Mare” di Genova. Nato nel 2004 per ospitare le testimonianze della navigazione, il vero genius loci della città proprio sul suo porto, il museo si dotò presto di una sezione sulla emigrazione che divenne poi nel 2011 il “MeM – Memoria e Migrazioni”,  realizzato con la finalità di raccontare «l’emigrazione italiana via mare e la recente immigrazione verso l’Italia», quest’ultima in particolare con la sezione dedicata dal nome “Italiano anch’io”. La scelta di evidenziare i tratti più significativi anche dei movimenti recenti delle popolazioni del mondo risponde all’obiettivo educativo e civico di stimolare la consapevolezza dei fenomeni migratori, in tutta la loro complessità. Sul fronte dell’emigrazione, è da ricordare il “Museo Eoliano dell’Emigrazione” di Salina, che consegna al visitatore un quadro preciso e profondo delle cause che spinsero tanti eoliani ad emigrare verso altri continenti.

Infine, ultimo ma non per importanza, altri musei europei hanno assunto l’obiettivo di coinvolgere. Molti di essi stanno infatti interpretando il proprio ruolo non solo in funzione della capacità di informare o sensibilizzare, ritenuti obiettivi istituzionali consolidati, ma anche di esercitare nel proprio tessuto sociale un compito attivo, divenendo agenti di consapevolezza ed anche luoghi di relazioni e di nuove reazioni sociali. È il caso ad esempio del Museu d’Història de la Immigraciò de Catalunya – MhiC, a Barcellona.[12] Il lavoro di questo piccolo museo con poche risorse e poco personale è tutto incentrato sul concetto di cittadinanza, interpretato grazie ad una intensa programmazione di attività inclusive. Il museo, oltre al centro documentazione e un nucleo storiografico, conta su un percorso che ricostruisce i movimenti migratori dalla preistoria al presente, ponendo al visitatore domande come: «Chi è l’altro?», oppure «Perché ho paura di lui?», stimolando riflessioni sui temi dell’ignoranza, dell’insicurezza, del pregiudizio. Qui le associazioni e i cittadini trovano spazio per confrontarsi in quella che Anna Chiara Cimoli definisce una «arena per il dialogo interculturale»: conferenze, dibattiti, workshop, mettono a confronto ad esempio vecchi e nuovi migranti (progetto “Diàlegs migrants”). Questo museo è un «orecchio che ascolta la società», che produce iniziative museali solo in quanto risultati dell’ascolto, e non come punto di partenza (Kinard 1972).[13]

 

Iniziative istituzionali per affrontare la sfida delle migrazioni con la cultura

La coppia di temi “esclusione/inclusione” affrontata per il settore culturale in maniera preponderante in Gran Bretagna, ha trovato nella ricerca di Nobuko Kawashima un importante passaggio di una riflessione che si è posta obiettivi di governance dell’accessibilità e del ruolo della produzione culturale (non solo in ambito museale). In Audience development and social inclusion in Britain: Tensions, contradictions and paradoxes in policy and their implications for cultural management (2006) la ricercatrice giapponese suggerisce prima di tutto di definire il campo semantico, attraverso la definizione di precise parole d’ordine da assumere come direttrici sia della ricerca che della applicazione: tra queste la relazione tra audience development, marketing, inclusione sociale ecc. In secondo luogo individua una dimensione geografica, asserendo che il ‘problema’ assume nel XXI secolo un perimetro quanto meno europeo, con una UE che comincia già nel 2004 a commissionare specifici studi di settore (Woods et al. 2004).[14] L’obiettivo dei paesi europei, sostiene la ricercatrice, è quello di definire strumenti concettuali e metodologie che consentano in maniera coerente di procedere alla rimozione delle barriere (non solo economiche o architettoniche) che si frappongono tra ampie porzioni di popolazione e i luoghi e i prodotti della cultura, così che essi possano mirare ad includere i pubblici meno abituati ai comportamenti culturali, rendere consapevoli i non pubblici sulle opportunità del settore, e addirittura ambire a coinvolgere anche i senzatetto, le persone in carcere, a basso reddito o che vivono in aree svantaggiate, o richiedenti asilo e rifugiati. Una funzione di inclusione sociale del settore che amplifica significativamente il ruolo attribuito ad esempio ai musei per una parte consistente del XX secolo.

Sembra utile citare a questo proposito lo specifico programma di Europa Creativa dal nome “Refugee Integration Projects 2016” è una delle iniziative che sembra più utile indicare in questo contesto: il programma (scaduto ad aprile 2016) ha voluto infatti finanziare con 1,6 milioni di euro attività che da un lato sappiano valorizzare il contributo che profughi e migranti possono apportare alla “diversità culturale” in Europa, riconoscendo dall’altro la cultura come strumento per i migranti stessi di «incontrare le comunità esistenti, comunicare con loro e diventarne parte». La Commissione Europea, attraverso il suo programma quadro dedicato specificatamente al sostegno dei settori della cultura e degli audiovisivi, esplicita una chiara visione strategica attribuita alla progettazione culturale, individuando precisi obiettivi specifici come: aiutare i rifugiati a nella socializzazione e nell’apprendimento delle lingue; incoraggiarli alla comprensione della diversità, dei valori democratici e della cittadinanza; consentire ai cittadini dell’UE la possibilità di scoprire, comprendere e imparare dai valori e dalle culture dei profughi dei migranti e, allo stesso tempo, arricchire i propri valori e la propria cultura; sostenere la diffusione e la co-creazione di opere culturali e/o audiovisive in tutta Europa; offrire la possibilità di collaborazione con organizzazioni di altri settori, per affrontare in maniera più completa, rapida, efficace e a lungo termine la sfida globale delle migrazioni. I musei europei possono contare su iniziative simili per rafforzare i loro programmi di inclusione sociale.

 

I musei e la funzione educativa

Raccontare, sensibilizzare, coinvolgere: in tutt’e tre i casi l’atto educativo dev’essere presente e rappresenta un bisogno a cui i musei, i luoghi e le attività culturali possono rispondere (Hein 2004).[15] È interessante che la costante dei casi museali qui presentati sia quella di una azione storiografica strutturata: un potente strumento educativo o il retaggio dell’idea del museo come scrigno esclusivo e monumento a se stesso? L’idea che i musei siano destinati esclusivamente a contenere le tracce del passato e a raccontarne i più reconditi dettagli (prevalentemente a colti destinatari) è assai consolidata, e non è un caso che negli ultimi quarant’anni il dibattito in ambito museologico sia esploso (anche per reazione a quell’idea) in tutte le direzioni, anche le più rivoluzionarie (musei diffusi, ecomusei, musei all’aperto, musei partecipati, musei immateriali). E va detto anche che la percezione ampiamente diffusa tra larghi strati della popolazione è spesso quella che i musei siano luoghi destinati ad esperti, comunque di difficile accessibilità cognitiva, a maggior ragione tra gli adolescenti e i giovani adulti (Bollo, Gariboldi 2008),[16] così come dimostrato dagli studi statistici sui comportamenti culturali. Anche le barriere economiche costituiscono un limite consistente, che l’esperienza britannica ha abbattuto con la gratuità dei musei statali: è interessante notare che le riflessioni  sul tema stanno però dimostrando che abbattere le barriere economiche non comporta automaticamente una eliminazione delle barriere sociali (Bailey, Falconer 1998),[17] legate ad altre dinamiche (Kawashima 2000). Allora, a cosa può servire un museo, oltre che a custodire le testimonianze materiali e immateriali? In che modo può rispondere alla missione di comunicarle, restando «al servizio della società e del suo sviluppo» (ICOM, 2004)? Possono essere utili anche alla costruzione di comunità nuove, che tengano conto delle nuove relazioni sociali (Dodd 1999)?[18] Certo è che, al pari delle azioni educative nell’istruzione di ogni ordine e grado, la componente storica di cui  i musei sono portatori può davvero rispondere a quelle indicazioni. A condizione, va detto, che si comprenda in che modo essa deve essere adeguatamente mediata e in relazione a quali destinatari e a quali pubblici. In contesti sociali che avvertono il peso di conflitti sociali che vanno dalla dimensione individuale a quella globale, da quella economica a quella relazionale, con oggettivi processi di impoverimento e degrado sociale diffuso, in tali contesti (i nostri contesti europei) la tendenza a costruire il futuro senza tenere conto del portato di esperienze, competenze, genialità e conflitti che la storia (e le storie, intese come esperienze altrui) sa consegnarci, è assai diffusa e altrettanto assai pericolosa. I musei – come i luoghi della cultura e le istituzioni educative in generale – possono farsi portatori di quella tridimensionalità che solo la storia sa consegnarci, fornendoci strumenti potenti per articolare la nostra consapevolezza e costruire ipotesi di futuri orientate a superare in un’ottica coesiva gli attuali conflitti tra gli esseri umani: insomma, interpretare una funzione educativa del patrimonio culturale materiale e immateriale. Funzione che però può essere interpretata solo in presenza di programmi di audience development, che si pongano i temi della relazione con i pubblici dei luoghi della cultura e che tengano conto dei diversi bisogni, dei diversi comportamenti, delle molteplici barriere di ogni tipo, degli articolati obiettivi strategici da raggiungere, delle diversificate azioni di comunicazione e mediazione possibili (Kawashima 2006).[19]

 

 

La funzione sociale dei musei delle migrazioni

Come ricorda la Cimoli, il coinvolgimento e ancor di più la partecipazione ai musei sono processi che stanno riscuotendo un certo successo (V&A di Londra, la GAM di Bergamo, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e il Castello di Rivoli a Torino, la Pinacoteca di Brera e il Museo del 900 a Milano, il Museo Etnografico e il Museo di Belle Arti di Budapest, il Museo de América di Madrid, i Musei di Glasgow e molti altri) dimostrando che essi possono essere luoghi dove i migranti possono avere voce, rafforzando il proprio senso di appartenenza e di cittadinanza (Bodo e Mascheroni 2012; Bodo, Gibbs e Sani 2009; Pecci 2009; Bolla e Roncaccioli 2007).[20] In particolare, il copioso studio Placing migration in european museums curato da Whitehead, Lloyd, Eckersley e Mason affronta i molteplici  aspetti delle scelte contemporanee che i musei stanno intraprendendo in merito al tema delle migrazioni, interrogandosi (e interrogando i diversi casi ospitati nella pubblicazione), sul rapporto delle identità (quali identità?) con i luoghi di provenienza e di destinazione, con i territori ospiti, con le azioni intraprese dai musei, con le pratiche di rappresentazione e di coinvolgimento del pubblico e le reazioni di quest’ultimo, con il ruolo dei professionisti coinvolti. Lo studio insiste su temi-chiave quali l’appartenenza e la cittadinanza, concetti che caratterizzano l’intero scibile scientifico in materia di musei della cultura e della migrazione, ed estendendone il portato ben oltre a meri luoghi votati alla narrazione storica. Indagare e comprendere se il museo o lo spazio espositivo divenga “luogo”, possa concorrere a costruire significati di appartenenza, e possa contribuire ad introdurre sentimenti di cittadinanza, porta il dibattito sugli orizzonti che la museologia contemporanea sta assumendo, quando decide di trattare un macro tema (quello delle migrazioni, appunto) di complessa entità ma di “facile” declinazione puramente storico-genealogica.

È un processo in divenire, che corre i rischi sopra descritti di ingenuità o di presentismo, o in generale di semplificazione della complessità, non solo dei casi trattati (le diverse forme delle migrazioni, i diversi paesi di provenienza o i diversi contesti di destinazione) ma delle condizioni generate dagli impatti della migrazione stessa. Non di rado, infatti, i musei vengono “invasi” dai conflitti espressi dal territorio o riconducibili ai temi trattati: è successo con l’occupazione della CNHI (Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration) da parte di cinquecento sans papiers a Parigi, tra ottobre 2010 e gennaio 2011, finalizzata alla richiesta di una legge migliore sull’immigrazione, e interpretando quindi il museo come un “forum” (Cameron 1971);[21] è successo di recente al MAXXI di Roma, dove i neofascisti di Forza Nuova hanno temporaneamente occupato alcune sale per protestare contro la mostra di denuncia sulle torture del regime di Assad in Siria.

In generale emerge una spinta molto forte al superamento del museo come sola testimonianza dei fenomeni migratori; una spinta che – usando ancora le parole di una attivista del Collettivo Askavusa di Lampedusa[22] – vuole evitare di “chiudere gli oggetti nella forma museale” per dare voce ai testimoni, alle loro ragioni, alle loro prospettive. Una forma di ascolto che inevitabilmente è destinata a creare relazioni con le comunità di destinazione, con le sue preoccupazioni (da cui nascono e potranno nascere anche conflitti) e al contempo con la sua capacità di accoglienza. Non solo ascolto ma anche coinvolgimento, opportunità di integrazione, valorizzazione anche professionale delle competenze possedute dai migranti. È una sorta di continuità politica che parte dal dibattito pubblico “esterno” (ma esiste un “fuori” del museo?), e attraversa i musei che ad esso vogliono aprirsi. Per concludere il “dialogo” con il lavoro di Anna Chiara Cimoli, riportiamo alcune sue riflessioni dall’articolo Le periferie d’Europa ci insegnano come fare musei sull’immigrazione, pubblicato su “Gli Stati Generali”:

Il museo deve essere inclusivo, in ascolto, aperto al territorio, capace di uscire fuori dalle proprie mura, di rinunciare a un po’ di visibilità in favore di un po’ di dialogo, di sintonizzarsi sui tempi lunghi della partecipazione, e non su quelli concitati della programmazione. […] Il museo non è un servizio sociale: lo si è detto e ripetuto molte volte, in questa stagione di migrazioni di massa. Non deve fare assistenza ma educazione.

Un rilancio verso il tema dei musei come componente di quel welfare culturale di cui si discute negli ultimi anni in maniera sempre più sistematica, per arrivare ad una definizione che possa diventare agenda politica[23]. Su questa traiettoria il dibattito museologico su “l’altro” e le cosiddette identità europee si sta specializzando, producendo esperimenti ed esperienze museali sempre più interessanti e aperte.

 

 

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F. Lanz, Staging Migration (in) Museums A Reflection on Exhibition Design Practices for the Representation of Migration in European Contemporary Museums, in «Museum & Society», 2016, XIV, 1, pp. 178-192

F. Mannino, Software sociale per l’hardware culturale: strategie in atto e cosa si può fare ancora, in «Il Giornale delle Fondazioni», Venezia, Fondazione di Venezia – Dorsoduro, 2016

F. Mannino, Il pubblico, questo sconosciuto: «audience development» per nuove politiche e strategie culturali ad impatto sociale, in «Il Giornale delle Fondazioni», Venezia, Fondazione di Venezia – Dorsoduro, 2016

M. B. Rocha-Trindade, M. Monteiro, Museums Devoted to Migration: the Portuguese Emigration Museum, in «Museum International», LIX, 1-2, 2007

C. Sutherland, Leaving and Longing: Migration Museums as Nation-Building Sites, in «Museums & Society», XII, 1, 2014

 

 

 

 

[1] «Limes» 8, 2013, “Utopie del tempo nostro”.

[2] Eurostat, Statistiche sulle migrazioni internazionali e sulle popolazioni di origine straniera, Dati estratti a maggio 2016.

[3] Sul sito istituzionale dell’Unione Europea è possibile consultare tutti i documenti: Migration and home affairs.

[4] Per i dati sulla reazione dei cittadini europei al fenomeno, si veda Eurobarometer e Eurobarometer interactive.

[5]  Save the Children, rapporto “Illuminiamo il futuro 2030 - Obiettivi per liberare i bambini dalla Povertà Educativa”, 2015.

[6]  OSCE Office for Democratic Institutions and Human Rights (ODIHR), Racism and xenophobia, 2014.

[7]  La riflessione di Desforges e Maddern prende in esame le nuove metodologie applicate allo studio delle produzioni e politiche museali, nella dialettica tra soggetti (attori singoli) e istituzioni. Il lavoro dei due studiosi parte dal caso studio del Museo dell’Immigrazione di Ellis Island, nel Porto di New York.

[8] Michele Colucci osserva infatti come spesso si tenda ad appiattire flussi, processi e vicende accadute nel passato ma tuttavia assai diversi tra di loro, “gettandoli tutti in un unico contenitore” a causa della lente che le contingenze del presente  richiedono o impongono anche a chi fa ricerca storica.

[9] Joachim Baur riflette ad esempio sullo scarso o nullo significato della Statua della Libertà per i neri newyorkesi, i cui antenati non arrivarono via Ellis Island ma sulle navi degli schiavisti.

[10] Le considerazioni sulle diverse articolazioni che i musei delle migrazioni hanno assunto nel mondo sono oggetto delle analisi di Anna Chiara Cimoli, che riassume appieno nel suo lavoro Migration museums in Europe i casi e gli studi che li hanno presi in esame, soprattutto negli ultimi anni.

[11] Si veda Svenska Migrationscentret http://www.migrationcenter.se/global.php.

[12] Sul MhiC vedi in bibliografia Cimoli 2016 e Lanz 2016.

[13] John Kinard, pastore e attivista sociale, fu il primo direttore di Anacostia a Washington, piccolo museo di comunità fondato dal Smithsonian Institution nel 1967.

[14] Con l’incarico della Commissione Europea al gruppo di studiosi coordinato da Roberta Woods (University of Northumbria, Newcastle upon Tyne, UK), la ricerca sull’esclusione sociale ha avviato una focalizzazione sul settore culturale, estendendo il suo tradizionale campo che riguardava invece prevalentemente il mondo del lavoro.

[15] La ricerca di John Dewey in ambito pedagogico è molto conosciuta, ma meno le sue riflessioni applicate al mondo dei musei. George Hein prende in esame il pensiero del filosofo pedagogista a proposito del valore educativo dei musei e delle sue pratiche applicate.

[16] La ricerca di Alessandro Bollo e Alessandra Gariboldi, promossa dalla Provincia di Modena e realizzata dalla Fondazione Fitzcarraldo – un centro indipendente di ricerca e formazione nel management e nelle politiche della cultura –, è stata incentrata sulla analisi dei comportamenti culturali degli adolescenti e condotta attraverso la tecnica dei focus group.

[17] L’analisi sugli impatti dell’accesso gratuito ai musei ha avuto in Gran Bretagna un andamento coerente con il dibattito politico. In ultima analisi studi come quello di Bailey tentano un approccio “laico” per cercare di individuare le articolazioni e le sfumature del problema, nonché gli aspetti connessi ai consumi reali e potenziali nei musei britannici.

[18] A proposito di audience development,  sul tema del ruolo educativo dei musei torna Jocelyn Dodd all’interno del volume The Educational Role of the Museum di Eilean Hooper-Greenhill, ponendosi alcune importanti domande sul rapporto tra comunità e istituzioni museali.

[19] Nobuko Kawashima torna ancora sul tema dell’audience development nel contesto britannico, e di nuovo sul rapporto tra sfera pubblica, politiche culturali, teorie dell’accesso gratuito nei musei pubblici e inclusione sociale, valutando le scelte operate nel primo quinquennio del nuovo millennio in Inghilterra.

[20] Gli studi qui citati sono concentrati su attività, pratiche e riflessioni in merito al tema centrale del presente testo, declinandolo in esperienze e ricerche diverse ma connesse da un medesimo filo conduttore.

[21] Duncan F. Cameron, nel suo The Museum, a Temple or the Forum, affronta già dal titolo la dicotomia tra le opposte visioni attribuite alle istituzioni museali, tra conservazione e inclusione sociale.

[22] Dal documentario “eMMMMe – Porto M. Lampedusa” di Lorenzo Sibiriu Borracha La Vida Film on Vimeo.

[23] Il tema del welfare culturale è attualmente ospitato da Il Giornale delle Fondazioni.

 


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MUSEI , PATRIMONIO CULTURALE , CONFLITTO , IDENTITà


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