Introduzione

di Fulvio Tessitore

 

 

 

Grande saggio questo qui da commentare di Giuseppe Giarrizzo sul suo maestro Santo Mazzarino. Originale l’argomentazione da lui  illustrata e lucida l’interpretazione prospettata di essa. Un documento di grande scuola, dove l’allievo non segue pedissequamente la enunciazione del maestro, perché di lui sa essere degno allievo, critico quanto ammirato lettore delle idee prospettate. E importanti i problemi discussi dai due illustri studiosi, due tra le figure più grandi della storiografia italiana (e non solo italiana) del Novecento. Non meno rilevante l’invito a discutere di questo testo, che si caratterizza subito non come richiesta di attualizzazione del discorso sottoposto alla considerazione di un gruppo di studiosi, bensì perché le proposte mazzariniane e giarrizziane siano effettivamente discusse in quando degne di esserlo. Per quanto mi riguarda non saprei fare diversamente  anche perché la mia posizione è quella di un amico di entrambi i due maestri, tali da me avvertiti, anche se con Giarrizzo la differenza era più forte anagraficamente che non accademicamente. Il che non è poca cosa… Se non sbaglio Giarrizzo vinse il suo concorso a cattedra nel 1964 ed io nel 1965. Ma conta altro, come dirò, ben più di siffatta circostanza, occasionale come tutti o quasi gli incontri di vita, pur alla luce della profondissima interpretazione del “caso” proposta da un grande pensatore che ho molto studiato e che “amo”. Disse Wilhelm von Humboldt che il “caso” è «la struttura individuale del presente». Dove si avverte la centralità della condivisa ineffabilità dell’individuo che Goethe aveva intuito, invitando, per tal via a tener conto della rigorosa, particolare razionalità dell’individuo, tale a condizione di non inseguire, con vano inseguimento, la “ragione assoluta” (e perciò astratta), ma la “ragione concreta”, ossia quella consapevole dei limiti della realtà e dei propri limiti, criticamente in grado, in quanto tale, di cogliere fino in fondo tutti o quasi i profili della realtà, anche e specialmente quella degli individui. Ossia, detto altrimenti, il limite quale unica condizione per conseguire una conoscenza, essa sì assoluta, nel senso della dimensione etica e logica di essa, quale Erlebnis, esperienza vissuta nel viverla, anch’essa, quindi, criticamente.

Questa qui sopra accennata osservazione non è un qualcosa di estraneo all’invito qui rivoltomi di discutere i temi e i problemi dei due maestri, che mi sono stati egualmente cari proprio in quanto insieme  amici e  maestri, come dinanzi ho detto.

Partirò dall’opinione di fondo del discorso compiuto da Mazzarino e da Giarrizzo. Una impostazione anti-classicistica che viene da due “classicisti”, perché tale va considerato anche Giarrizzo,  almeno da chi è capace di comprendere il senso rigoroso e compiuto del suo essere e definirsi storico moderno, partendo da studi di  filologia classica, indirizzata ad una considerazione multilaterale dell’antichità greca, ossia non ristretta alla grande esperienza ateniese della grecità, ma esperta anche della “grecità periferica”, che era argomento del Pareti, maestro  di Mazzarino.
Già l’impostazione anti-classicistica (è il caso di specificare che ciò non significa “anti-classica”) apre il ventaglio della impostazione vielseitiglich della storiografia di Mazzarino e di Giarrizzo.

L’Europa che entrambi rincorrono studiandola nelle sue origini  e quale essi hanno in mente nella sua contemporanea consistenza e problematicità, non è l’Europa interprete del principio dell’assoluto, quello del classicismo o del neo-umanesimo. È l’Europa fatta dalla pluralistica consistenza della sua cultura, delle sue conviventi culture non tradotte in ideologia (ossia ossificata in una presunta e presuntuosa assolutezza), ma ideale, nel senso del nesso di “ideal-reale”, il solo in grado di percepire e ricostruire la “circolazione delle idee”, che è il compito, la funzione della storiografia. Nessuno storico, infatti, a mio credere, è leggibile, comprensibile, interpretabile fuori della sua contestualità, il criterio e le categorie dei suoi problemi, delle sue condotte di vita, delle sue elaborazioni intellettuali. Ciò significa che storico rigoroso, grande o piccolo che sia, è quello che, a livello di consapevolezza o di pratica ricerca, è un filosofo storico non storico filosofo. La “storia filosofica” non può che suggerire una storiografia categoriale (affermazione nella quale i due termini convivono solo in virtù di un arbitrio logico). “Filosofo storico” è quello in grado di concepire e realizzare la storiografia epocale,  ossia conscia dello svolgersi non deterministico dell’umano esperire, nel senso della conseguita comprensione che il “fine” dell’azione e del conoscere è criterio interno, intrinseco alla conoscenza e all’azione, non il  “Fine” della teleologia della logica idealistica, destinata a sfociare  nella “storia giustificatrice”, una grande “Teodicea”, come lucidamente riconobbe Hegel. La storiografia epocale è quella  animata, sorretta dalla  “finalità” del kantiano  giudizio riflettente,  giudizio di previsione, che, nella tradizione dello Historismus, ha fondato il principio dell’Augenblik, ossia della centralità del momento dell’evenienza, evenire esso stesso in quanto unico momento di incontro delle scansioni del tempo, il passato, il presente, il futuro, ciò senza cui il tempo non è nella sua specificità, perché è spazialmente concepito quale “luogo”, enorme, infinito deposito delle esperienze vissute. Mazzarino lo suggerisce nella famosa nota 555 del II tomo del II volume del Pensiero storico classico e nella pagina conclusiva del I tomo dello stesso volume, evocando il “cronotopo quadridimensionale”. E sono pagine su cui a lungo Giarrizzo si fermò pensoso, consapevole del loro più che decennale concepimento. In questo senso l’Europa di Mazzarino e di Giarrizzo sono le Europa possibili (e, in quanto tali, reali) dell’età da loro studiata e dall’età da essi vissuta interpetrando la prima. Mi sembra questa la filigrana delle loro pagine, che, dunque, sono fiduciose in quanto problematiche, consapevoli del dubbio, del limite della ragione comprendente, usata con la doppia consapevolezza di ciò, ragionata ed espressa magistralmente da due grandi personalità dell’Otto-Novecento, W. v. Humboldt e Max Weber, quando a distanza di poco più d’un secolo l’uno dall’altro indicavano il  senso e il  significato della ricerca scientifica: qualcosa di mai compiuto, giacché costitutivamente incompiuto e dunque da pensare e praticare in perenne condizione di incompiutezza; qualcosa che costitutivamente è sicuro del proprio dover essere ”superato,” quando che sia,  a garanzia della propria rigorosa validità.

Che ne ricava uno studioso della mia generazione e della mia formazione? Il drastico rifiuto di ogni ipotesi storiografica, pensata nel passato o nel futuro nelle forme dell’assolutizzazione, che so io della grande Europa classica, della grande Europa medievale, dell’Europa moderna e ancora più, dell’Europa del post-moderno, sfociata nelle (e compiaciuta delle) elucubrazioni sgangherate sulla “fine della storia”, dell’inevitabile “scontro di civiltà”. Vale a dire due posizioni che, se si volessero, con faticosa buona volontà, nobilitare, al di là delle chiacchiere da salotto o da gazzette, lo si potrebbe fare solo richiamandosi alla figura dello storiografo  indovino, beffeggiato dal Kant del Conflitto delle facoltà, ovvero evocando una tenebrosa “ontologia della guerra”. Al contrario l’Europa dello studioso di oggi, almeno dello studioso che qui scrive, è l’Europa quale luogo della ragione, della esperienza vissuta della crisi nel senso del polemos, criterio della storicità storicisticamente ripensato contro ogni forma di attualizzato, rinnovato parmenidismo.

È, in fondo, perché questo è il mio contesto di storico (non so quale sarà quello di chi verrà dopo di me), l’Europa moderna come tipo logico e storico, in quanto Europa conflittiva, traslitterando la parola di  un grande storico spagnolo del Novecento, Amèrico Castro, ossia l’Europa della pluralità, del rispetto dell’alterità e della distinzione, della libertà come responsabilità, anche la responsabilità dell’obbligazione. Purtroppo, e ne sono sempre più angosciosamente consapevole, è un’Europa contestata, spinta al confine della caduta per insipienza di percezione o per ottuso calcolo cinico. La mia Europa è quella capace di concepire e vivere, come è stato proprio dei grandi momenti della  storia moderna, le fisiologiche straordinarie “trasformazioni culturali” di categorie epistemologiche, di concetti etici, di condotte di vita, di ristrutturazioni sociali, di dimensioni istituzionali. L’Europa fondata su (e che ha fondato) il gran principio della comprensione dell’individuo, degli individui iuxta propria principia, nella perenne, rinnovantesi coscienza della propria personalità. Non l’individuo anonimo, senza volto, l’individuo-numero, l’individuo concentrazionario. È impossibile ragionare per rappresentare questi principi, dopo le catastrofi provocate dal ritornante tentativo di riconsacrare il principio dell’assoluto, che, anche nell’Europa dell’Otto-Novecento, ha marginalizzato il principio del limite? È dato ragionare e vivere non già un’Europa ossificata nelle tenebre delle ideologie, bensì l’Europa della storica e storicistica “utopia concreta”, libera di ogni forma di deterministica filosofia della storia illuministica, idealistica, positivistica, marxistica, o che so io?

Mi sembrano queste le domande che hanno animato e che discendono dalle pagine di Mazzarino di Giarrizzo, il problema da loro posto, nella lucidissima comprensione del loro presente. L’invito proveniente da quelle pagine: acquisire, vivere la piena comprensione del proprio presente. “Sguardo lontano” e “immedesimazione”, criterio della filologia come etica scienza storica. Comprensione dell’ “altro presente”, non “contemporaneità della storia”, quale che sia l’interpretazione di questa avvincente formula fornita. Questa è la domanda e questo è il problema suggeriti dai due grandi storici amici, ai quali penso e ripenso con costante gratitudine e invincibile nostalgia.

 

Napoli, 11 ottobre 2016


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STORIOGRAFIA , UTOPIA , LIMITE , PASSATO


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