Cara Europa che ci guardi
Intervista a Gabriella Sica

di Pietro Russo

 

 «Europa Europa che mi guardi / scendere inerme e assorto in un mio / esile mito tra le schiere dei bruti, / sono un tuo figlio in fuga che non sa».       Sono questi i versi dal Diario d’Algeria di Vittorio Sereni – in effetti quanto mai profetici – che hanno ispirato il suo libro, Cara Europa che ci guardi  (1915-2015). C’è, in essi, l’idea di una discesa dantesca, proprio infernale verso «le schiere dei bruti» e la conseguente fuga di tanti cittadini europei del XXI secolo che non si riconoscono in questa Europa e che richiama, per un tragico e attuale contraltare, l’esodo da altre parti del mondo di cui siamo testimoni oculari. Condivide questa immagine senza speranza dell’Europa?

 

È un titolo che si ispira in effetti a un verso di Vittorio Sereni, il poeta che a mio parere più ha sentito la premonizione dell’Europa a venire. Lui, che veniva da un luogo di “frontiera”, l’ha immaginata più di altri nel momento in cui vedeva su se stesso lo sguardo terribile e cagnesco di un’Europa sconvolta dalla guerra e in rovina. E sperava in «una tranquilla ora d’Europa». Mi interessava anche il tema dello “sguardo”, che comprende un incrocio e una reciprocità di sguardi, dove si annidano disattenzione, ostilità e paura, oppure apre inaspettate vie del cuore, di insurrezione e di speranza. Lo sguardo presuppone uno scambio, non è mai definitivo. E io non volevo definire niente. Oltre Sereni, ho incontrato altri poeti-guida, in questa mia scrittura di vagabondaggio per l’Europa, da vera pellegrina quale sono. Per esempio Umberto Saba, che ha scritto le «scorciatoie», come vie «difficili, veri sentieri per capre». Anche se mi sento a volte come un leone in gabbia, ho provato invece a immaginare «scorciatoie» europee con uno stile da scoiattolo, che saltella qua e là, sfiora gentile e leggero luoghi di sofferenza e tragedia. Oppure Ungaretti, con il suo “dolore”, e Pasolini, con i suoi avvertimenti-profezie sui mille inquinamenti di ogni tipo che oggi ci assillano. Sempre di più negli ultimi anni, in cui scrivo con maggiore facilità, sono trascinata in un flusso a me stessa imprevisto e sorprendente, che mi detta la strada e le pietre miliari, e «a quel modo / ch’è ditta dentro vo significando». Come chiamare questa voce se non la voce dell’altro che è in me e che mi parla? L’input è nato dal mio sempre più naturale ispessirsi dell’ispirazione tra autobiografia e storia. Sono sempre stata poco incline alla fantasia e più attenta al reale, quello fisico delle persone e dei luoghi. C’è uno scrivere oggi che rischia di essere decadente e melenso, spostato ai margini. Insomma non amo l’impegno in voga nei miei anni giovanili, ma comunque scrivere è una responsabilità (secondo Hannah Arendt, un’altra guida del libro) che sento molto nonostante sia io il mio unico giudice per la parola, per la sua verità e il suo senso.

 

Se guardiamo alla grande tradizione della poesia italiana, un senso di appartenenza e di una identità europea condivisa è molto forte fino all’affermazione storica dei grandi stati nazionali. Sebbene non siano mancate le eccezioni di valore, crede che questo ritirarsi poetico nei confini del proprio orto nazionale possa essere indicato come ulteriore causa dell’odierna idea, piuttosto malconcia, di Europa?

 

Da sempre l’Europa è stata immaginata dai poeti, fin da Omero, dai greci che venivano in Italia e dai latini che andavano sui camminamenti dell’Impero romano, magari in esilio come Ovidio, e poi da Donne a Hugo, e dai poeti italiani quando non c’era ancora l’Italia. Petrarca è stato il perno dell’Europa della poesia. E le corti europee nel Cinquecento si scambiavano messaggi tramite i suoi versi. C’è sempre il doppio tempo della poesia e della storia. Illuminare la storia con la poesia: l’hanno fatto in tanti, da Manzoni alla Morante. Ed è su questo binario che mi sono incamminata con questo libro, in una specie di scommessa con me stessa. Da una parte “l’orto nazionale”, il ritrarsi degli Stati, il declino-decadenza che ogni epoca porta con sé e che oggi sentiamo molto, ma dall’altra “la grande tradizione” come fonte generosa di sapere e pensiero che ogni generazione prova a rileggere (e per quel poco che ho potuto, mi sono cimentata con questi obblighi), e la poesia come traccia insostituibile di memoria e apertura verso il futuro. Che cos’è l’Europa se non umanesimo, fuoco sempre acceso anche sotto le ceneri. E l’umanista per eccellenza è il poeta, lo scrittore o l’artista che ama le cose umane. Non è l’idea dell’Europa ad essere malconcia o oppressiva o lesiva. Molto più concretamente l’Europa, non geografica esistente da sempre, ma l’Europa politica, l’UE attuale, è stata immaginata già in quel tempo cupo tra le due guerre e sotto le bombe, per esempio, prima ancora degli uomini politici, da Simone Weil (altro spirito-guida di questo libro) con l’elaborazione di una vera «Costituente per l’Europa». E non è poco che garantisca oggi una salvezza dalla guerra che nel Novecento si sono fatti per ben due volte gli uomini che non riescono a sottrarsi allo schema inaugurato dall’Iliade (che è un po’ l’archetipo letterario di Cara Europa che ci guardi, in cui parlo della prima e della seconda guerra mondiale, con affondi familiari, dai nonni ai genitori). Ovviamente non si può non restare delusi da un’Europa burocratica che si perde in dettagli e lacci e non ha mai una visione d’insieme, un respiro più ampio e generoso, da una “Europa incompiuta” con ogni evidenza. Un luogo dove non ci sia la guerra, ma anche un luogo in cui sia fondante il rispetto dovuto a ogni essere umano nella sua integrità, siano abitanti o migranti. E così ho solo provato a rammendare l’arazzo Europa, a rattoppare quello che è strappato e che sempre più pare si stia strappando, a ricomporre quello che è infranto, frantumato. Mi pare nella mia vita di autore di non aver mai fatto altro che questo.

 

In un capitolo del libro, Il ratto d’Europa. Dal mito al labirinto, si ripercorre la ricca eredità della cultura greco-romana fino all’impasse del labirinto di Cnosso. Spostando il focus dal racconto letterario alla narrazione economico-politica attuale, riesce a intravedere, concretamente, il filo d’Arianna «lasciato in mano a Teseo» come scrive lei?

 

La Grecia è la culla dell’Europa, anche se oggi è molto maltrattata. Quindi non posso non parlare di Grecia e di un mio viaggio giovanile in quei luoghi. Siamo tutti un po’ greci e le fisionomie degli dei a volte ci somigliano, a cominciare da Demetra, la madre-natura. O come Europa stessa, travolta dal ratto insidioso e prepotente del toro-Zeus, raffigurato sulla copertina del libro da una bella immagine di Monica Ferrando. O ancora come Arianna, con il suo gomitolo e il suo labirinto, che tanto allude al labirinto dell’Europa di oggi da cui tutti vogliamo uscire. C’è un moto dell’Europa nel duplice movimento di Arianna di prendere il largo e di riavvolgere il filo verso il centro. Europa e Arianna parlano in prima persona, in veri monologhi, le loro voci rivivono in noi moderni. Chissà se riusciremo a snidare il mostro Minotauro d’Europa, a trovare il filo o i fili per venirne a capo.

 

Secondo lei, alla luce della realtà dei fatti, potrebbe esserci spazio, in questa Europa del profitto e delle banche, per una ‘Europa della poesia’? Ed eventualmente in che termini?

 

La guerra si fa oggi a colpi economici e decisioni di mercato. Questo è l’indecente di oggi: non l’Europa, ma l’impero assoluto del mercato che è il  vero totalitarismo d’inizio secolo insieme all’altro totalitarismo indiscusso, quello dell’io, che rinuncia a qualsiasi etica in nome appunto di convenienze e leggi economiche. Tutto è fluido, tutto cambia, tutto è sradicabile e inconsistente se non porta acqua al mulino impietoso e feroce del mercato o  dell’io. Ma non di solo pane vive l’uomo. E oggi i problemi si sono condensati e incancreniti nei luoghi adibiti al guadagno, non solo quello necessario  per vivere, ma quello esagerato e rapace, per esempio delle banche, o, per restare al nostro ambito, dell’editoria e del giornalismo, e anche delle  università. Qui si annidano le discrasie drammatiche dei nostri anni. Qui si spengono le energie, si cancella la verità, si costruiscono false bolle.  Assistiamo inermi al succedersi di ogni tipo di bolla, dopata e pilotata a tavolino. E quello che emerge nonostante tutto pare risalire davvero da un  naufragio. La poesia è terreno vergine in un certo senso, estraneo a queste dinamiche, anche se ne risente per la diminuzione di spazi editoriali e nei  media, e vive davvero del corpo dei poeti, che a mani nude sostengono una lingua e il proprio tempo. E forse dagli ultimi vent’anni di sbornia  letteraria-editoriale, la poesia, umiliata in ogni modo, ha guadagnato in forza e presenza. Il pubblico non manca mai: a una serata di poeti dello  scorso Festival di Massenzio si sono contate oltre duemila persone. C’è una necessità di ascolto e di poesia. Scrivo nel libro: «Il peso di una poesia è  una piuma e un solo euro è ben più pesante. Lo scambio è impossibile». Solo il tempo può restituire dignità e forza alla poesia. Sempre è stato così, niente è cambiato.

 

Perché un poeta ha bisogno di sporcarsi le mani con questi argomenti? Come è nata l’idea di questo libro e che libro è venuto fuori alla fine della sua gestazione?

 

Devo precisare che non ho alcun titolo speciale per occuparmi di Europa, se non per quello che ho sempre provato a fare: lavorare con le parole, spogliarle di retorica, cavarne il seme buono in una poesia. E magari risalire a qualche origine, tema che sempre mi appassiona, con il rischio calcolato di spiazzare i miei pochi lettori. Sono nata nella metà dello scorso secolo, e la crescita dell’Europa mi ha accompagnata. E poiché il tempo trascorso è molto, ho pensato di trasportarlo nello spazio. Ecco cos’è Cara Europa che ci guardi: il tempo (e la storia) portati nello spazio. Ha scritto Walter Benjamin: «Da tempo, in effetti da anni, gioco con l’idea di articolare lo spazio della vita – bios – in una mappa». Ecco, ho voluto dare un senso al tempo andando là dove si è incarnato in un corpo o in un luogo. Potrei dire che si tratta di un libro topografico, il che è anche un metodo. Che libro ho scritto? È un libro sull’Europa centrifugo attraverso brandelli di memoria involontaria senza un centro, davvero da Arianna rediviva. O anche un’autobiografia a chiazze di una figlia europea, sbrindellata come lo è l’Europa. E poiché scrivere non è sapere prima, l’argomento più imprevisto del libro ai miei stessi occhi è l’infanzia riportata alla luce, e dunque il tragitto dalla storia alla natura, dal continente Europa al paesino dal nome inventato che è Vallarte. Così, potrei concludere che il libro si rivela come un autoritratto con paesaggio-Europa. E nel paesaggio siamo tutti naufraghi o profughi.

 


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