Intervista a Maurizio Caserta, Ramzi Harrabi e Domenico Quirico

di Liborio Barbarino, Pietro Russo, Federico Salvo

1. Alla luce di quello che la cronaca ci riporta quotidianamente, ha ancora senso, secondo lei, l’idea di Europa così come è stata concepita dai nostri Padri? Siamo davanti a un fallimento epocale oppure questo concetto, che per molti rischia già di perdersi nell’astrazione, necessita di essere ridefinito in qualche aspetto?

 

Caserta - Mai come adesso c’è bisogno di Europa. Di un’Europa unita, democratica, coesa, aperta e responsabile. Sono sotto gli occhi di tutti le tensioni che le vicende degli ultimi decenni hanno creato in molte parti del mondo. C’è in corso una ridefinizione degli equilibri globali che non può restare senza effetti e contraccolpi. In questo quadro un ruolo di stabilizzazione assegnato all’Europa è più che desiderabile. Ma questo ruolo può essere svolto solo da una posizione di forza, non certo da una posizione di debolezza.

È evidente che gli anni della formazione del primo nucleo europeo sono molto diversi da quelli che viviamo oggi. Una cosa è una comunità di sei paesi; un’altra è una comunità di ventotto. La diversità, le dimensioni, la complessità richiedono comunque un ripensamento continuo. Ma quel ripensamento deve avvenire in un quadro di principi condivisi e stabili. Che non possono che essere quelli dell’origine, di pace, sviluppo, libertà e dignità della persona. Principi di cui oggi l’Europa può e deve diventare il campione globale. I grandi attori della scena internazionale, la Russia, gli Stati Uniti, la Turchia non sembrano interessati al momento a competere su quella scena. C’è spazio per un soggetto che si intesti la difesa ed il rafforzamento dei grandi principi di libertà e di democrazia. Questo spazio va coperto subito e l’Europa è il naturale candidato a farlo.

 

Harrabi - Innanzitutto ricorderei che l’Europa dei vostri Padri fu costruita sulla sofferenza di tanti esseri umani, con la compiacenza di potentati locali pronti, per miope ed egoistica convenienza, a portare sulle spalle i ‘vincitori’ del momento. Non si può negare una profonda crisi d’etica nel vecchio continente. Ma per rispondere correttamente alla domanda, a mio parere bisogna uscire dall’ottica eurocentrica e dalla configurazione, sia essa geografica o sociale, che essa ha determinato. Allora ci si renderà conto che non siamo davanti ad un fallimento, perché in fin dei conti non fu mai un vero successo.

 

Quirico - ‘Epocale’ mi sembra una parola un po’ grossa. Credo che, alla luce di quello che vediamo, l’Europa non ha costruito nessuna epoca, dal periodo in cui è stata immaginata a quello in cui è stata realizzata (o non realizzata). Il fallimento mi sembra evidente, inutile perdere tempo a cercare i settori in cui l’Europa non esiste: l’Europa non esiste e in quei pochi in cui esiste fa danno. Abbiamo formato un’enorme retorica europea che non ha alcuna corrispondenza nei fatti, blateriamo di una “generazione Europa” che non esiste assolutamente, se non per piccole frange di persone che viaggiano – ma queste, a ben vedere, fanno parte della mondializzazione, concetto più largo rispetto a quello di Europa. Se lo scopo della creazione dell’Europa era creare “l’europeo” come soggetto politico, sociale, culturale, spirituale, è stato un fallimento totale. C’è un’Europa di bancari che fa piuttosto male il suo mestiere, un’Europa burocratica che si occupa degli affari più inutili mentre trascura quelli più importanti, e poi? Il ruolo dell’Europa nei grandi avvenimenti contemporanei – nascita del Califfato, la questione ucraina, la rinascita della Russia, l’avvento della Cina come potenza globale – qual è? Secondario, inesistente, dannoso.

 

2. Al termine del vertice UE di Bratislava (16 settembre 2016) è emersa nitidamente la posizione del «gruppo di Viségrad» (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) che, in merito alla questione della distribuzione delle quote di migranti tra i vari paesi dell’Unione, ha rispolverato sentimenti nazionalistico-populistici che credevamo di esserci lasciati alle spalle. Secondo la sua opinione, questa avanzata di nazionalismi (non solo dell’Est, ricordiamo anche il referendum di fine settembre in Svizzera) presenta delle analogie con il quadro geo-politico antecedente lo scoppio del primo conflitto bellico del secolo scorso? E, alla luce del ciceroniano «Historia Magistra vitae», come reagire per evitare una nuova catastrofe?

 

Caserta - L’istintiva reazione al nuovo è nota e comprensibile. Ciò che invece non è né comprensibile né giustificabile è lo sfruttamento di quella reazione per l’affermazione di un potere. I governi soprattutto se hanno accettato i principi europei hanno il dovere di guardare un po’ più lontano dell’individuo medio. E cogliere le implicazioni negative di un comportamento che sul momento può apparire giustificabile e persino benefico. Le migrazioni di questi ultimi quindici anni sono un’inevitabile implicazione del processo di integrazione dei mercati, della più facile circolazione delle merci, delle idee e dei modelli di vita. Solo chi non riesce a guardare oltre i propri confini non può cogliere la complessità dei tempi che stiamo vivendo. I processi migratori vanno governati, così come si tenta di governare la crescente integrazione dei mercati e quella dei processi culturali. Quel gruppo di paesi dell’Europa del Nord Est doveva sapere in quale comunità stava entrando. Nel migliore dei casi quei paesi hanno fatto male i conti. Non possono certo sottrarsi adesso alla responsabilità di partecipare, insieme agli altri paesi europei, allo sforzo di governare i flussi migratori secondo i principi e le responsabilità della comunità della quale hanno deciso di far parte, ormai qualche anno fa.

Non credo che i tempi che viviamo possano essere accostati a quelli del primo dopoguerra. La paura è un sentimento che c’è sempre stato. Non cambia da un’epoca storica ad un’altra. Ciò che cambia è l’oggetto della paura, che è quasi sempre dovuta alla scarsa conoscenza del fenomeno del quale si ha paura. L’ultima cosa che un governo deve fare è soffiare sulla paura. Deve fare proprio l’opposto, ossia capire e poi operare per ridurre al minimo i danni di qualsiasi accadimento sociale ed economico. Ma quel processo di contenimento del danno non può essere condotto scaricando sulla comunità esterna i costi di quel contenimento. L’esempio classico di questa perversa azione di contenimento è proprio la costruzione di un muro che lasci fuori i migranti. Ciò alimenta un meccanismo che prima o poi si ritorce su chi lo ha messo in moto.

 

Harrabi - Il muro creato da questi paesi neocomunitari la dice lunga sul loro rapporto storico con il mondo islamico: un misto di paura e odio sedimentatosi fin dal momento in cui le truppe ottomane arrivarono alle porte di Vienna. È innegabile che si è trattato di un impero sanguinoso che ha causato immani sofferenze al suo stesso popolo, ma è altrettanto evidente come quel potere non esista più. Direi perciò che al momento osserviamo un radicato sentimento anti-islamico, alimentato da un nazionalismo basato sull’esclusione e sulla paura della diversità. Alla genealogia delle cause non è estranea la situazione geopolitica globale, che incentiva il ritorno ad una visione circoscritta, basata sull’appartenenza a gruppi specifici.

 

Quirico - No, i mondi sono molto diversi. Mi sembra un paragone un po’ azzardato. I nazionalismi degli anni Venti nascevano nel contesto dei problemi irrisolti della Prima guerra mondiale. I fascismi, contrapposti a quelli che noi oggi chiamiamo movimenti xenofobi, erano delle signore ideologie; tremende, certo, che hanno portato a catastrofi immani, ma almeno avevano un riferimento ideologico che non è quello degli incapaci che occupano la scena politica odierna. I sistemi di garanzia collettiva degli anni Venti erano pressoché inesistenti: la Società delle Nazioni era orfana, ad esempio, degli Stati Uniti; l’orizzonte delle grandi potenze era ancora di tipo nazionale. Siamo veramente molto lontani. La rinascita di certe forme di nazionalismo potrebbe essere l’ulteriore prova dell’assenza di un quadro comune. I paesi dell’Est sono entrati in Europa non perché volevano diventare europei, ma per una questione politica, cioè per avere una forma di garanzia contro la Russia, e in secondo luogo per motivi economici.

 

3. Tra Turchia, Siria e Iraq, c’è stata la presenza di un fronte anti-Isis di matrice musulmana: ci riferiamo ai movimenti YPG e YPJ che hanno contrastato militarmente e socialmente l’esercito del Califfato pagandone un forte prezzo di sangue. Come vede questa esperienza e come è stata trattata, secondo lei, dai media occidentali? E soprattutto, che ruolo potrà svolgere la Turchia da questo punto di vista nell’immediato futuro?

 

Caserta - Molti degli squilibri e delle tensioni che oggi osserviamo nel mondo che si affaccia direttamente o indirettamente sul Mediterraneo vengono da una definizione dei confini del tutto artificiale, senza tenere conto delle comunità nazionali ed etniche. La vicenda curda è certamente quella più significativa e pregnante. Ma la stessa osservazione può essere fatta per alcuni paesi del Medio Oriente. Quella suddivisione usciva dagli equilibri geopolitici del secolo scorso che oggi non sono più giustificati.

È evidente che in quello scenario acquista un ruolo sempre crescente la Turchia. Si tratta di un paese che certo si allontana dagli standard europei, ma con il quale occorre collaborare su più fronti, nella speranza che lo spirito europeo possa permearlo in qualche misura. In questa prospettiva l’Europa può fare molto se comincia a svolgere quel ruolo di stabilizzazione che le tocca per posizione geografica e per forza politica. In un quadro in cui – come già affermato – Russia, Turchia e USA non saranno particolarmente impegnati sul fronte della difesa delle libertà e dell’integrazione, l’Europa può cominciare a sperimentare un nuovo ruolo attivo. Che diventa essenziale per la sua stessa sopravvivenza come attore unitario. I prossimi mesi mostreranno se questa prospettiva è realistica o fantasiosa. Ma se resta fantasiosa la realtà sarà molto più dura di qualsiasi immaginazione.

 

Harrabi - Per cominciare, ‘califfato’ secondo i canoni del vero Islam dovrebbe definire coloro che fanno tutto ciò che possono per contrastare l’Isis e la sua cultura di morte: ‘califfato’, infatti, vuol dire regno e si lega al concetto di una dignitas nella gestione delle regole civili e religiose. Perciò non possiamo utilizzare la parola ‘califfato’ per riferirci a un gruppo di criminali assetati di sangue. Riguardo al secondo aspetto della domanda, c’è da dire che i mass media occidentali coprono poco e distrattamente le notizie delle quotidiane lotte portate avanti da comunità civili islamiche ai danni dell’Isis. Per quanto riguarda la Turchia, essa sta cercando, agendo dietro il paravento europeo, di ‘scaricarsi’ dello scomodo vicino Assad. Anche a costo di allearsi con l’Isis. La Turchia avrebbe potuto essere un attore-chiave nell’estendere la pace in quei territori martoriati, ma ha invece giocato una partita sporca ed a tratti indecifrabile, sulle spalle dell’innocente popolo siriano.

 

Quirico - Non sono d’accordo sul concetto della domanda. I movimenti di matrice musulmana in opposizione al Califfato sono sostanzialmente due: i curdi e gli sciiti iracheni. Entrambi per necessità e non certo in nome dell’Islam moderato: i curdi per tenersi il loro territorio e possibilmente per conquistare un’indipendenza piena, creando cioè uno stato curdo a tutti gli effetti; gli sciiti perché hanno perso mezzo paese e hanno rischiato di perdere anche Baghdad, quindi lottano per la sopravvivenza, non per vendetta. Tutti i gruppi armati siriani a cui è stata appiccicata l’etichetta di anti-Isis sono totalmente fasulli, sono stati creati artificialmente dagli Stati Uniti per far credere che esistesse un’opposizione moderata arabo-musulmana che, di fatto, non esiste. In Siria oggi il 99.9% dei movimenti armati è formato da gruppi islamisti radicali che hanno esattamente la stessa idea di fondo dell’Isis, anche se possono essere divisi da motivi di potere e di controllo di alcune zone del paese: ovvero la creazione di uno stato islamico integrale in cui l’unica legge sia la shari’a. Non c’è posto per altre religioni e altri modelli di vita.

 

4. Se oggi in Europa (ma il discorso potrebbe anche estendersi su scala globale) l’Altro viene comunemente identificato con il migrante/rifugiato, quanto può rivelarci ciò di noi stessi in quanto cittadini europei? Potremmo, cioè, posti di fronte allo specchio di questa alterità, renderci conto di ignorare profondamente la nostra storia? E inoltre sono possibili strategie largamente condivise di accoglienza dei migranti che riescano persino a rafforzare l’idea dell’identità europea?

 

Caserta - Il punto nodale secondo me è il seguente. Se vogliamo essere seri nel sostegno all’idea di libertà e democrazia – che dovrebbe stare alla base della nostra identità europea – allora quell’idea di libertà e democrazia va resa universale. Non si può difendere uno spazio di libertà per sé senza chiedersi se questa libertà è garantita a tutti. È proprio una disonestà intellettuale – prima di essere censurabile moralmente – pensare e affermare che si respinge l’Altro per preservare il proprio spazio di libertà. Bisogna chiedersi – al tempo stesso – quanto è compromessa la libertà dell’altro di muoversi, cercare una vita dignitosa, sopravvivere, esprimersi. Se la nostra realizzazione di libertà implica la limitazione di quella altrui, allora la questione va affrontata congiuntamente all’Altro per trovare un punto di equilibrio. La risposta che spesso viene fornita a sostegno delle politiche di respingimento – “ognuno a casa propria” –  va seguita da una domanda ossia: “come è stata assegnata quella casa?”. Una seria difesa dell’identità europea richiede pertanto che si affrontino seriamente alcune questioni. Che non possono risolversi, ovviamente, con l’accoglienza di tutti coloro che intendano spostarsi temporaneamente o definitivamente in Europa. Un’Europa responsabile, e seriamente impegnata nella difesa della sua identità, deve uscire dai suoi confini e proporre soluzioni buone per tutti, tenendo conto delle forze che in questo momento muovono le merci, le persone, le idee. Essere un attore rispettato sulla scena globale richiede che ci si occupi di tutti.  L’Europa deve fare questo: sviluppare una seria politica estera comune, intervenire sulle grandi aree di conflitto portando la sua visione di pace e dignità; sviluppare un’idea di equilibrio globale, rafforzando sempre di più il suo ruolo di stabilizzazione.

 

Harrabi - Fin quando non c’è una malattia, non possiamo sapere quanto è forte il nostro organismo. Per l’Europa è stato vero il contrario: quello che sembrava un punto di riferimento globale sta mostrando tutte le sue crepe e la sua debolezza di fronte ad un fenomeno che – è bene non dimenticarlo – ha contribuito essa stessa a creare, con le sue politiche di interferenza e destabilizzazione dei Paesi dai quali oggi provengono i rifugiati. Di fronte a questo come ha reagito il cittadino europeo (vogliamo dire italiano)? In nessun modo. Ha continuato ad indossare vestiti senza chiedersi se fossero prodotti sfruttando, ad esempio, il lavoro di minori; ha continuato a fare il pieno in macchina senza interrogarsi sulla provenienza e sul costo di quell’energia. E adesso, di fronte al fenomeno delle migrazioni, si preoccupa dell’arrivo di delinquenti, in un Paese in cui la maggior parte dei deputati sono indagati e in alcuni casi condannati. 

 

 

Quirico - Che il migrante sia considerato l’Altro è un dato di fatto. A margine di ciò, esiste una minoranza chiassosa e xenofoba che sfrutta i migranti per ottenere visibilità, per cercare di allargare il proprio consenso politico che è infinitesimale. Poi esiste una stragrande maggioranza di europei – chiamiamoli così, volendo dare una connotazione soltanto geografica – che è sostanzialmente indifferente al migrante; non è razzista, si fa gli affari propri (come succede in tutti i paesi del mondo), ma, sollecitata da falsi spauracchi – invasioni, apocalisse, ecc. –, dà il peggio di sé. Il 99% degli europei non sa neanche dove si trova il paese da cui questa gente proviene, quale sia la condizione di queste realtà, le situazioni politico-economiche. Chi sa collocare, ad esempio, il Burkina Faso nel mappamondo? C’è uno strato gigantesco di ignoranza e di indifferenza a cui delle minoranze abbaglianti hanno attinto per finalità elettorali. Ora, il vero problema dell’Europa è il problema dell’élite europea, della classe dirigente europea che in merito alla questione dei migranti non ha fatto niente. Questa classe dirigente è inferiore per qualità, cultura, capacità di visione, formazione politica, coscienza civile ed etica; è inferiore rispetto alle sfide che la Storia le ha messo di fronte, compresa quella ciclica delle migrazioni di massa. Siccome è incapace di rispondere politicamente a questa sfida, brancola tra varie possibilità, affidandosi alla speranza che il tempo prima o poi risolva il problema. In questo modo l’Altro diventa veramente altro.

 

5. Guardando a questa Europa delle contraddizioni e delle tristi lacerazioni interne, che per il caos in cui è avviluppata sembra evocare l’immagine mitica del labirinto, lei intravede un ‘filo’ che consenta di uscire dallo stato attuale delle cose?

 

Caserta - Finché l’Europa non potrà parlare con una sola voce, non ci sarà nessun vero passo avanti. Ma per parlare con una sola voce occorre che quella voce sia espressione del popolo europeo. Perché ciò accada l’Europa deve dotarsi di una infrastruttura democratica che al momento non possiede. Quando agli inizi degli anni 2000 fu fatto il grande passo avanti dell’Unione Monetaria che oggi raccoglie diciannove paesi, fu necessaria una bella dose di coraggio e di determinazione. Oggi occorre di nuovo quel coraggio e quella determinazione. Per fare l’Unione Politica. Con un unico governo delle risorse europee, con una unica politica estera, con una unica politica della difesa. Con una Corte costituzionale europea.

Oggi non occorre chiedersi se ciò sia possibile. È invero l’unica strada possibile, se i singoli stati europei vogliono sopravvivere come tali. A meno di salire su un carro di un altro grande attore internazionale, ai singoli stati non resta che contribuire alla creazione del grande carro europeo, l’unico nel quale possono conservare un profilo di dignità e di autonomia. Il principio di libertà a fondamento della costruzione europea permette, infatti, a ciascuno ed a ciascuno stato di modificare le regole della convivenza. La libertà non può essere disgiunta dalla partecipazione; non si ha libertà se non si è liberi di cambiare il proprio stato e di contribuire a cambiare le circostanze esterne. È possibile dunque rafforzare la costruzione europea. Basta essere ‘europei’.

 

Harrabi - In Europa c’è molta etica. Se mi chiede di riporre una speranza, lo farei nella società civile: l’Europa è quella che ha scacciato con una volontà popolare il nazismo e il fascismo. Questo potrebbe essere il seme da cui germini davvero la «casa dei popoli» del vecchio/nuovo continente.

 

Quirico - Secondo me a poco a poco la tensione non reggerà alla prova del Tempo e della Storia. Prima di questa Europa non c’era niente, quindi non ci sarà alcuna conseguenza drastica se questa Europa dovesse collassare. Anzi, prima avviene meglio è. Togliendo questo fondale di cartone potremo finalmente marciare verso una pagina più ordinata della Storia.

 

6. Crede che le attuali forme di espressione artistica così come i modi odierni di narrazione possano svolgere ancora un ruolo importante nell’immaginario collettivo in merito alla dialettica Europa/Altro?

 

Caserta - Certamente sì. Sentirsi europei, e aspettarsi che gli altri lo siano allo stesso modo, dipende anche dalla rappresentazione che diamo e ci diamo dell’Europa. Quella rappresentazione passa dalla politica, ma passa soprattutto dalla cultura, dall’arte e dalla formazione. Ma questa rappresentazione oggi non è ancora adeguata. Non tanto perché in Europa si parlano tante lingue. In India si parlano molte lingue ufficiali, ma ciò non impedisce a tutti di rappresentarsi l’India come un’unica nazione. Solo quando di fronte alla domanda ‘da dove vieni?’ risponderemo ‘dall’Europa’, potremo dire che l’identità europea è salda. Da dove passa questo processo di consolidamento dell’identità europea? Passa ovviamente dalla definizione di un profilo identitario, che non sia costruito negli uffici di Bruxelles ma emerga dalle diverse culture europee e dalla loro ricerca di un nucleo comune. A questo fine le grandi collaborazioni tra le università europee, tra i teatri, tra le associazioni culturali, tra le scuole, tra i musei sono ciò che potrebbe avviare quel processo di consolidamento dell’identità europea, che è certamente la condizione essenziale per costruire veramente l’unità politica.

 

Harrabi - Io credo che qualsiasi forma di comunicazione efficace sia orientata verso un interlocutore; così l’arte in quanto comunicazione-espressione. Più fitto e più alto sarà il dialogo, lo scambio di pensiero, più le due ‘persone’ si avvicineranno. Quando i ponti culturali saranno molti e frequentati non ci sarà più l’Altro e Noi, ma soltanto un Noi, vasto e moltitudinario.

 

Quirico - È una domanda millenaristica. Rispetto all’Europa non saprei, perché secondo me stiamo parlando di qualcosa che non esiste. C’è un libro che ha contribuito a costruire la coscienza europea, nel senso dell’Unione Europea? Non me ne viene in mente nessuno. Posso parlare della mia esperienza giornalistica: la possibilità che lo scrivere possa costruire una coscienza collettiva, secondo me, è defunta. È esistita fino agli anni Sessanta, quando i giornali potevano contribuire alla creazione di una coscienza civile su alcuni problemi – guerra, democrazia, terrorismo –, ma oggi è pari a zero. I nuovi mezzi di comunicazione mobilitano la gente per autentiche scemenze. Se queste nuove forme di narrazione avessero una loro utilità mi inchinerei ai loro piedi. Il problema, semmai, è inventarsi un modo nuovo di scrivere, cercare di capire, radicalmente, perché scriviamo e con quali strutture scriviamo. Affidarsi alla tecnologia e basta non serve a niente.

 

 

 

 


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EUROPA , storia , ALTERITà , POLITICA , SOCIETà , CULTURA


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Educazione e società


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