La vita in un barattolo
Irena Sendler e gli altri

di Lianna D’Amato

 

 

Il 1939 per l’Europa fu un anno storicamente decisivo per i grandi sconvolgimenti politici, economici, culturali e soprattutto sociali che si verificarono. L’invasione tedesca della Polonia, avvenuta il 1° settembre del 1939, diede inizio alla seconda guerra mondiale.

Le popolazioni degli stati coinvolti nel conflitto ne subirono le più gravi conseguenze, non solo a causa dell’utilizzo di armi sempre più potenti e distruttive e dei continui bombardamenti, ma anche a causa della forte intolleranza nei confronti delle popolazioni di origine ebraica contro cui la Germania nazista attuò una vera e propria ghettizzazione dell’etnia ebraica, perseguendo una politica di riorganizzazione etnico-politica dell’Europa centro-orientale che prevedeva la deportazione e lo sterminio di intere comunità. L’Europa e il mondo intero, spettatori di questa tragedia umana, ne uscirono stravolti. Abbiamo avuto modo di conoscere tramite i diari di Anna Frank o di Etty Hillesum le atrocità della guerra, i loro stati d’animo e le condizioni di vita di quegli anni; le loro esperienze, il vissuto di queste figure femminili, che si sono distinte per il loro coraggio mettendo anche a nudo le loro paure e le loro insicurezze che, riversate sulle pagine bianche del loro diario, non sono rimaste in sordina. Quei diari che rappresentavano la loro vita, quelle pagine bianche che simboleggiavano il loro futuro, incerto e affrontato giorno per giorno, sono giunte fino a noi come testimonianza di tutto l’orrore di cui erano state spettatrici in quel periodo di terrore. Quelli che seguirono furono anni di continui attacchi, di razzismo, di fughe, di paure, di prigionia, ma anche di grande umanità, di amore verso gli altri.

Una grande testimonianza di questo amore è stata portata alla luce da una ricerca sorta tra i banchi della scuola americana di Uniontown, in Kansas, grazie al lavoro di quattro ragazze e del loro professore di storia, dopo aver letto su un articolo del marzo 1994, pubblicato dal News and World Report, la notizia: «Irena Sendler salvò 2.500 bambini dal ghetto di Varsavia negli anni 1942-43». La prima ipotesi fu che si trattasse di un errore tipografico, non essendo allora una storia ancora molto conosciuta, ma le ragazze decisero di avviare una ricerca di fonti sull’argomento. La storia che emerse le appassionò a tal punto da spingerle a promuovere la conoscenza di questa donna-eroina attraverso la messa in scena di uno spettacolo intitolato La vita in un barattolo.

La vita e l’operato di Irena Sendler aveva bisogno di essere divulgato: le ragazze insieme all’insegnante portarono lo spettacolo in molte città americane e riuscirono anche ad incontrare di presenza Irena, dopo una entusiastica e fitta corrispondenza. Era una donna umile, coraggiosa, gentile e molto intraprendente, che aveva dedicato tutta la sua vita ad aiutare gli altri, anche mettendo continuamente a rischio la propria incolumità, soprattutto quando, durante l’occupazione nazista, si era curata di salvare molti ebrei.

Nella Polonia comunista, la storia di Irena Sendler, come tutte quelle che riguardavano gli ebrei, negli anni dopo la guerra veniva considerata insidiosa e pericolosa da raccontare; per ragioni ideologiche era sconveniente divulgare la sua esperienza. Fu la Polonia democratica, dopo il 1989, a renderle omaggio ammirando il suo operato, e la sua personalità.

La sua grande storia, nota inizialmente tra gli amici e le persone da lei salvate con cui si mantenne sempre in contatto, è oggi conosciuta in molti paesi e per molti è divenuta un modello di grande umanità.

Le ragazze americane, durante l’incontro avvenuto a Varsavia, rimasero impressionate dalla sua persona; Irena Sendler fu felice di scoprire che delle giovani stessero divulgando, con il loro piccolo progetto, il suo operato, ciò per cui si era battuta, perchè la tragedia di quegli anni non fosse dimenticata e affinché simili atrocità non accadessero di nuovo; il suo rimpianto più grande era quello di non aver potuto fare di più.

Era stato difficile accettare di non poter salvare tutti, anche perché per ogni vita salvata era stato necessario il lavoro, il coraggio e l’organizzazione di almeno dieci persone, e tutto questo in un momento in cui si rischiava la pena di morte anche solo per aver offerto loro un tozzo di pane. 

Irena nacque nel 1910, nella periferia operaia di Varsavia, da una famiglia cattolica; fu sicuramente l’esempio del padre, medico, morto di tifo quando Irena aveva solo sette anni assistendo malati che i suoi colleghi rifiutavano di curare, a forgiarne il carattere e l’inclinazione. Molti di questi malati erano ebrei e, dopo la morte del padre, rimasero riconoscenti verso la famiglia, aiutandola anche finanziariamente.

Irena nutriva una forte empatia verso il mondo ebraico, un’empatia che le costò cara quando all’università di Varsavia si oppose alla ghettizzazione degli studenti ebrei e venne sospesa per tre anni. Questo provvedimento le recò una grande sofferenza e le causò non pochi problemi, ma a preoccuparla maggiormente era il destino incerto che minacciava i suoi amici ebrei.

Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, Irena si trovò a vivere due vite: una ufficiale, nei servizi sociali a Varsavia, e una clandestina; ma entrambe ebbero lo scopo principale di salvare i condannati allo sterminio. Infatti, l’ufficio che lei dirigeva cominciò ad occuparsi di fornire rifugio ai bambini scappati dal ghetto, poi affidati a famiglie polacche o istituti religiosi. Iniziò da subito a proteggere gli amici ebrei e, con l’aiuto di altri collaboratori, riuscì a procurare loro circa 3.000 passaporti falsi. Molti furono anche gli adulti che riuscirono a scappare, grazie all’organizzazione di squadre di lavoro che uscivano giornalmente dal ghetto e grazie ai documenti falsi che Irena riuscì a fornire loro.

Nella resistenza polacca, impegnata contro il nemico con tutte le forze a disposizione, il suo nome in codice era «Jolanta». Venne incaricata delle operazioni di salvataggio dei bambini ebrei avendo ottenuto un permesso speciale per entrare nel Ghetto alla ricerca di eventuali sintomi di tifo, malattia di cui i tedeschi temevano il diffondersi.

Irena appuntava tutto ciò che viveva per conservare una testimonianza diretta da lasciare alle generazioni future. Molte sono le opere che raccontano la guerra e l’Olocausto, ma nessuna descrive la sofferenza delle famiglie e delle madri costrette a separarsi dai propri bambini; la parte più difficile era proprio convincere i genitori ad affidarle i bambini. In varie occasioni Irena affermò che le vere eroine e i veri eroi erano state le madri e i padri che avevano trovato il coraggio di fidarsi.

Le lacrime riempivano gli occhi delle madri che ci affidavano i loro bambini. Quanto era difficile per ognuna di loro lasciare andare la manina esile del suo bimbo! Chi poteva prevedere, se si sarebbero rivisti un giorno?

Infatti, non vi erano certezze assolute e la fuga dei bambini era pericolosa; gli stratagemmi utilizzati furono molti, in genere i neonati erano portati fuori, nascosti nelle casse del suo furgone, i bambini più grandi in sacchi di juta o venivano scortati in sottopassaggi segreti.

Per evitare che si sentissero i pianti disperati dei neonati appena separati dai loro genitori, Irena addestrò il proprio cane ad abbaiare all’arrivo dei tedeschi.

Per far sì che ciò potesse accadere, era necessario conoscere in anticipo le mosse tedesche: molti furono i bambini salvati, ma molti altri non riuscirono a scampare la deportazione. Chi fu costretto ad occuparsene fece in modo che i bambini non si accorgessero di cosa stesse davvero per succedere loro, inventando storie di lettere del re che li invitava a pranzo come succede nelle favole. Lungo il tragitto, durante quel triste cammino verso i campi, prima della chiusura delle porte dei vagoni, i bambini dovevano poter godere fino alla fine dei loro pensieri giocosi.

Non poter salvare tutti fu il problema con cui Irena dovette combattere ogni giorno: riuscì ad aiutarne 2.500 fornendo loro una nuova identità, nuovi documenti con nomi cristiani e affidandoli a famiglie e preti cattolici. I bambini, prima di lasciare il ghetto, venivano istruiti per assumere atteggiamenti che non avrebbero destato sospetto; furono insegnate loro preghiere, canzoncine e a volte fu necessario cambiare anche il loro aspetto lavandoli, sistemandogli i capelli e cambiandoli d’abito.

Il sogno di Irena era quello di restituire, quando tutto fosse finito, i bambini alle loro famiglie, così scrisse i loro veri nomi accanto a quelli falsi e seppellì gli elenchi dentro vasetti di marmellata sotto un albero del suo giardino.

Quello per Irena era il posto perfetto: un terreno sicuro per nascondere il proprio segreto, un albero le cui foglie e rami avrebbero ombreggiato e protetto 2500 vite umane, non era un albero qualunque, ma l’albero della salvezza.

Per Irena quell’albero costituiva la speranza di poter restituire identità e affetti a tutti quei bambini, così come l’albero d’ippocastano olandese, che Anna Frank ammirava dalla finestra del suo nascondiglio, infondeva un senso di sicurezza perché era l’unica cosa stabile che lei poteva osservare ogni giorno.

Quando la Gestapo fece irruzione a casa sua non riuscì a trovare nulla. Irena fu catturata, subì la tortura, ma non rivelò mai il suo segreto e l’unico pensiero che riuscì a tenerla in vita fu quello che i suoi bambini non sarebbero stati in pericolo perché la loro identità era ancora al sicuro.

Fu condannata a morte per questo, ma grazie alla resistenza polacca e all’organizzazione clandestina cattolica Zegota, riuscì a salvarsi e a scappare con l’aiuto di alcuni soldati tedeschi corrotti che avrebbero dovuto condurla all’esecuzione. Da quel momento il suo nome fu registrato tra quelli dei giustiziati e fino alla fine della guerra visse da latitante, tanto da non poter partecipare neanche al funerale della madre, ma continuò ad organizzare salvataggi di bambini ebrei.

Quando finalmente la guerra e l’occupazione tedesca terminarono, Irena recuperò i barattoli e consegnò gli elenchi con i nomi dei bambini ad un Comitato ebraico che riuscì a rintracciare circa 2.000 bambini; fu necessario un lungo e duro lavoro per rintracciare parenti più o meno lontani, per ricongiungerli con le famiglie d’origine, ma non tutti i bambini salvati ebbero questa possibilità perché molte di quelle persone erano state sterminate nei lager.

In alcuni casi, i bambini, soprattutto i più piccoli che non ricordavano l’accaduto, ormai abituati agli istituti o alle famiglie a cui erano stati affidati, faticarono ad accettare la separazione: per le molte famiglie che si opposero fu necessario l’intervento di un giudice.

Ripristinata una condizione di pace, Irena tornò al suo lavoro presso i servizi sociali di Varsavia, ma questo non significò per lei un effettivo ritorno alla normalità: era costantemente tenuta sotto controllo perché ancora etichettata come “sovversiva” dal partito comunista polacco e le sue azioni costarono anche ai suoi figli, pur essendo nati alla fine del conflitto, la possibilità di iscriversi e frequentare l’Università di Varsavia.

Nonostante siano passati molti anni dalla fine del conflitto, nonostante tutto appaia ricostruito, le strade, le case, la vita quotidiana, nei cuori di chi ha vissuto quegli anni di terrore, nei cuori di chi è sopravvissuto è ancora rintanata la paura, la disperazione, la nostalgia; hanno continuato a vivere, pur non sentendosi del tutto in vita, una parte di loro era morta in quegli anni. Molti continuano a rincorrere il loro passato, a cercare i propri cari, a sperare, altri, invece, fuggono dai ricordi che restano nitidi nonostante l’età e il tempo: si può provare ad immaginare il loro stato d’animo, ma non lo si può capire davvero.

Alcuni dei sopravvissuti hanno rilasciato una testimonianza della loro esperienza, ma non tutti hanno avuto il coraggio di raccontarsi a cuore aperto, molti non sono riusciti neanche a condividere tra loro le proprie emozioni; è comprensibile, non è facile parlare di quel che è accaduto per chi lo ha vissuto, certe ferite apparentemente rimarginate in superficie continuano a bruciare in profondità. Molti hanno preferito nascondere la propria identità, mentendo ai propri coniugi, ai propri figli, perché quell’esperienza li aveva cambiati per sempre: non avevano solo perso i loro beni, i loro cari, ma anche la libertà di vivere e di poter essere se stessi anche quando tutto sarebbe ormai finito, perché anche il ricordo di sé, di ciò che si era stati un tempo, dei propri sogni, avrebbe continuato a fare male.

Quando un’ordinanza obbligò gli ebrei polacchi a vivere rinchiusi nel ghetto, ad accomunarli non fu solo la loro condizione, ma soprattutto il pensiero che da quel momento sarebbero diventati prigionieri del dolore, un trauma che avrebbero condiviso per sempre.

Morire o sopravvivere avrebbe marchiato la loro personalità in egual modo, nel primo caso avrebbero perso la vita, ma nel secondo caso avrebbero comunque sentito morire una parte di sé per aver visto milioni di persone, i propri affetti, la loro vita crollare davanti ai loro occhi. Niente sarebbe stato più lo stesso, nessuno sarebbe stato più lo stesso.

Antoni Marianowicz, durante la sua testimonianza, ha confessato di provare ancora una certa paura a sedersi in un caffè dando le spalle alla porta d’ingresso. Elzbieta Ficowska ha sottolineato l’importanza dell’identità: molti suoi coetanei sanno poco di sé stessi, lei grazie ad Irena  e a un cucchiaino inciso, da cui non si separa mai, ha conservato la sua. Altri confessano di non riuscire ad assumere un atteggiamento sereno, ma di essere sempre pronti alla fuga; si tratta di paure inconsce, seminate durante la repressione e ancora oggi radicate nel fondo dei loro cuori. Il dramma dell’infanzia rubata, il rancore, il dolore delle perdite subite, il senso di anonimato o di doppia identità sono alcune delle cicatrici dei crimini nazisti.

Irena stessa, raccontando il proprio vissuto, mise a nudo le sue paure: una donna, in un’epoca come quella, impegnata in azioni così delicate, aveva molto da temere e il coraggio nasceva dalla consapevolezza che la rabbia fosse più forte della paura.  Del gruppo che si occupava di salvare i bambini del ghetto raccontò le responsabilità, le attività e il coraggio; della sua amica Rachela Rozenthal raccontò le discriminazioni subite e la grande forza d’animo che la spinse ad impegnarsi all’interno del ghetto nell’educazione scolastica dei bambini, per i quali lottò ogni giorno affinché potessero ridere e giocare, alleggerendo il peso di quel che furono costretti a vivere.

L’aria che si respirava all’interno del ghetto era pesante, gli ebrei si sentivano soli, abbandonati, emarginati da tutto, privati dei loro diritti, spettatori dell’indifferenza dell’umanità; in questo contesto, le storie delle persone che hanno messo in gioco le loro vite dando il loro contributo costituiscono un messaggio prezioso per l’umanità. Irena morì il 12 maggio del 2008 a Varsavia. Nel corso degli anni ricevette molti riconoscimenti: nel 1965 venne annoverata dallo Yad Vashem di Gerusalemme tra i Giusti delle Nazioni, nel 2003 ricevette da Giovanni Paolo II una lettera personale piena di lodi per il suo operato durante la guerra, nel 2007 fu proclamata eroe nazionale dal Senato polacco al quale rilasciò una sua dichiarazione:

Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria.

La memoria di questa donna è un bene pubblico prezioso, un insegnamento per il futuro.

La convinzione che simili atrocità possano essere evitate con l’amore, la tolleranza nei confronti di qualsiasi individuo a prescindere dalla provenienza e dalla religione, la accompagnò fino alla fine della sua vita. Alle ragazze americane che raccontano ancora oggi la sua storia ha lasciato questo forte messaggio di pace e un compito arduo quanto coraggioso: quello di continuare a raccontare al mondo la sofferenza della repressione. Esseri umani privati da altri esseri umani della propria dignità e del diritto fondamentale alla vita, una lotta per i diritti umani che fa riflettere sul passato e soprattutto sul futuro a cui le nuove generazioni vanno incontro.

Il messaggio di Irena è forte: è necessario vivere nel rispetto degli altri e imparare a guardare le diversità come un arricchimento e non come una minaccia, è necessaria la difesa dei diritti umani e ricordare che in una società civile in continua evoluzione non dovrebbe esserci spazio per il razzismo.

La storia dovrebbe essere d’insegnamento, dovrebbe guidare l’umanità a non ricadere negli stessi errori, dovrebbe aiutarle nelle scelte e soprattutto a cambiare il mondo.

Tante piccole storie si intrecciano all’interno della grande storia per lasciare qualcosa ai posteri e quello di Irena Sendler è il racconto di una donna eroica e semplice che ha assunto un grande ruolo contro la repressione degli ebrei, è un appello alla riflessione e alla tolleranza, è un esempio d’amore verso l’umanità, verso gli indifesi, è un riflesso di umiltà e solidarietà verso gli altri, che ancora oggi fatica a radicarsi, è un grido di speranza contro l’abuso e la discriminazione verso il diverso che lo si chiami musulmano, donna, bambino, omosessuale, rom, ma soprattutto questa storia è l’augurio che:

nei prossimi anni spariscano tutte le guerre che ci sono nel mondo. Che si spengano le fiamme di quel fuoco, che distrugge interi popoli e copre di sangue molte parti del pianeta, uccidendo migliaia di persone, tra cui le creature più innocenti, i bambini. Auguro a tutti gli uomini del mondo, che sono cari al mio cuore, indipendentemente dalla razza, dalla religione e dalla provenienza, che in tutte le loro azioni si ricordino della dignità dell’altro, delle sue sofferenze e necessità, cercando sempre la via della comprensione reciproca e dell’accordo. Che il bene trionfi!


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SHOA , DISCRIMINAZIONE , DIARIO


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Storia


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