Migranti: chi sono e dove vanno i giovani che hanno sfidato il mare

di Liborio Barbarino

 

All’ingresso di un palazzo signorile (cinque scale, portiere d’ordinanza, negozi e bar al piano-terra) la targa sul citofono è quella colorata di un’associazione come tante. Suoniamo, aprono.
Barattiamo il sole del pomeriggio col sorriso di Isabella e Stefano, ventisette e trentuno anni, entrambi psicologi, incidentalmente una coppia. Nell’ultimo anno hanno lavorato da educatori presso una comunità-alloggio per minori stranieri non accompagnati (d’ora in poi Msna).
Saltiamo la domanda sul rapporto tra amore e flussi migratori (ci sarà un’equazione in grado di descriverne la funzione?), perché a detta di entrambi ci sarebbe materiale a sufficienza per un racconto disteso lungo un secolo come un libro di García Marquez, e tessuto di una prosa ‘catastrofica’ alla Vasco Brondi. Evitiamo pure considerazioni – quelle sì graficamente descritte – sui giovani e l’occupazione, sui lavori sotto-qualificati e sulla fuga dei cervelli.

Isabella e Stefano dunque, orologio e Bianconiglio – in moto incrociato tra le urgenze degli ospiti e il desiderio di raccontarci la loro esperienza – accettano di guidarci nel difficile mondo dell’accoglienza.

 

Cominciamo dal qui: chi e quanti sono gli ospiti del centro? Quante persone ci lavorano? Qual è, se esiste, la dimensione-tipo di una struttura come questa?

Una comunità-alloggio per Msna, per legge, dovrebbe esser grande all’incirca 250 mq. Si tratta perlopiù di appartamenti nel centro cittadino, differentemente dai centri di prima accoglienza e Sprar. L’idea è quella di garantire un ‘appoggio’ in luoghi con alta concentrazione di servizi e infrastrutture, per agevolare l’integrazione dei minori. C’era una normativa regionale che prevedeva la presenza di un numero massimo di dodici ospiti. Adesso con il nuovo decreto regionale (DP 513/2016)1, le comunità di II livello che avevano dodici ospiti ne possono ospitare fino a quindici, senza necessità di personale aggiuntivo. Il personale standard è composto da un coordinatore della struttura, un ausiliario e quattro educatori (oppure tre educatori ed un mediatore culturale, all’occorrenza).

 

Come funziona l’inserimento nel centro? Come materialmente arriva, chi va a prendere l’ospite, quali sono le pratiche da evadere?

L’inserimento nel centro avviene tramite i Servizi sociali del Comune di arrivo. Sono questi a contattare la Comunità che ha fornito la propria «disponibilità ad accogliere un minore». Gli operatori della comunità ospitante vanno materialmente a prendere il minore: la Questura o i Servizi sociali del Comune presso il quale il giovane si trova momentaneamente redigono un verbale di affido (contenente l’anagrafica e la data dello sbarco in Italia) del Msna al responsabile della struttura che lo sta per prendere in carico. Solitamente i ragazzi provengono dai centri di prima accoglienza, ma nel periodo estivo – dato l’alto numero di ‘arrivi’– capita che provengano direttamente dagli hotspot, centri di primissima accoglienza che ricevono gli ospiti dopo lo sbarco.

 

Primissima accoglienza?

Quando le barche sono intercettate dalla Croce rossa o dalla Guardia costiera vengono accompagnate presso queste strutture allestite nei porti (principalmente Augusta e Pozzallo, oltre a Lampedusa), ed i passeggeri allocati temporaneamente in ‘tendopoli’, nelle quali ricevono anche assistenza medica. Dopo due o tre giorni, se le loro condizioni lo permettono, vengono inseriti in prima accoglienza. Nel caso in cui non ci dovesse essere posto in zona (il periodo estivo è affollatissimo), possono, però, essere dirottati presso centri di seconda accoglienza. Gli spostamenti, comunque, vengono concordati dalle istituzioni territoriali interessate dal fenomeno: ci sono comunicazioni incrociate tra Comune, Servizi sociali, Forze dell’Ordine.
Solitamente quando i ragazzi vengono accolti, sono soddisfatti i loro bisogni più urgenti: cure mediche, vestiti, effetti per l’igiene personale… tutto nuovo; in genere non possiedono altro che i vestiti indossati per il viaggio. In una fase successiva, se i ragazzi provengono dagli hotspot vengono fatte delle interviste per raccogliere la loro storia migratoria e dati anamnestici. In genere, comunque, questo lavoro viene svolto in prima accoglienza, ed a noi arriva il loro dossier.

 

Per orientarci meglio: quanti tipi di strutture d’accoglienza esistono?

Dunque, in ordine di ‘utilizzo’, abbiamo, come detto gli hotspot: questi sono di nuova istituzione, e sono strutture temporanee. Gli hotspot sono nati per offrire un Primissimo Soccorso (First Aid) alle persone che sbarcano – specie da quando il flusso si è intensificato – in attesa di una loro sistemazione.
In prima accoglienza ci si orienta verso i bisogni più urgenti di carattere medico o fisiologico, e si comincia a costruire una primaria forma di alfabetizzazione. Gli ospiti, che siano Msna oppure adulti, possono permanere fino a un massimo di tre mesi.
In seconda accoglienza si procede verso la loro integrazione e l’inserimento nel mondo del lavoro o della scuola. Le strutture di seconda accoglienza si dividono secondo la tipologia di migrante.

Vi sono:

comunità-alloggio per Msna, come quella in cui lavoriamo: la nostra funzione è quella di sostenere i minori nel processo di integrazione nel territorio che li ospita, iscrivendoli a scuola, e fornendo assistenza medica, psicologica, e giuridica; gli ospiti permangono fino al raggiungimento della maggiore età;
comunità-alloggio per minori: sono diverse da quelle per Msna poiché in questo tipo di comunità i minori sono sia autoctoni sia stranieri;
– Sprar (Struttura per richiedenti asilo e rifugiati): qui vivono i maggiorenni che hanno fatto richiesta di asilo o che godono di un regime di protezione (umanitaria, sussidiaria o internazionale); per loro viene – o dovrebbe venire – realizzato un progetto di vita, tenendo conto delle loro aspirazioni ed attitudini;
– Comunità protette per donne e/o minorenni vittime di tratta;
– Centri di Identificazione ed Espulsione, dove vivono i migranti in attesa di essere rimpatriati;
– Cara (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) dove vivono, appunto, i «richiedenti asilo» in attesa dell’esito della richiesta di protezione internazionale.

Dovrebbe essere tutto, ma non ci giureremmo…

 

«Richiedenti asilo» è una parola ad altissima frequenza nella cronaca recente: chi sono?

La richiesta di asilo si può fare non solo per guerra, ma anche per situazioni di conflitto all’interno del nucleo familiare o del contesto sociale. C’è più di un tipo di permesso di soggiorno: asilo politico con protezione internazionale, protezione sussidiaria,2 oppure protezione per motivi umanitari. Inizialmente vengono preparati i documenti (carta d’identità, residenza, tessera sanitaria e codice fiscale), poi si arriva al permesso di soggiorno vero e proprio: in base al tipo di ‘protezione’ che viene concessa, questo può durare dai tre anni (per motivi umanitari), fino ai cinque anni (per motivi di natura internazionale: è il caso di aree di conflitto come la Siria). I ragazzi affrontano una commissione che giudica la veridicità della loro storia.
Nel caso in cui la protezione non venga riconosciuta, per la maggior parte di loro si apre la strada del rimpatrio forzato. Tuttavia se si tratta di minori, questi possono aspettare il raggiungimento della maggiore età. Altrimenti – e spesso succede se i documenti ritardano, o se gli stessi non giudicano positivamente la loro esperienza nel luogo in cui sono arrivati – decidono di scappare, di allontanarsi dalla struttura.

Questo accade anche da noi: l’ultimo caso meno di un mese fa. Un ragazzo guineano è scappato di sera, verso le 22. Però, una volta arrivato a Milano, ha telefonato per dire che stava bene!

 

Si è parlato molto anche di strutture alberghiere adibite all’accoglienza dei migranti. Ne conoscete qualcuna nel vostro contesto? Da chi sono gestite?

Sappiamo di una vecchia foresteria che – progettata inizialmente per accogliere delle sportive professioniste – una volta fallita la squadra, è stata riadattata per l’accoglienza di Msna. In generale, si tratta di cooperative che gestiscono strutture i cui locali possono appartenere a privati o alle istituzioni del territorio (Comune, Provincia). Il Ministero promuove bandi, finanziati dai Fondi sociali europei, finalizzati all’accoglienza. Gli enti territoriali possono essere al massimo capofila di progetti, ma non hanno un guadagno diretto dall’accoglienza.

 

Torniamo alle persone. Quali sono le condizioni di chi arriva nella vostra comunità? Che fa per prima cosa, come lo accolgono gli altri?

All’inizio il minore è sempre spaesato e disorientato. Il suo primo pensiero è quello di avvertire amici e parenti dell’arrivo in una struttura diversa. Gli ospiti ‘vecchi’ accolgono il nuovo arrivato con un misto di diffidenza e indifferenza. Molto dipende comunque dal suo Paese d’origine e dai pregiudizi che gli altri hanno nei confronti della sua nazionalità o etnia di appartenenza.
 

Come si svolge la giornata tipo di un ospite?

Al mattino i ‘riti’ sono quelli classici: sveglia, doccia e vestizione. Poi i ragazzi fanno colazione e sistemano la loro camera, prima di essere accompagnati a scuola. Al rientro pranzano e aiutano a rassettare gli spazi comuni. Nel pomeriggio hanno del tempo libero che trascorrono insieme (giocano a calcio, alla playstation) oppure da soli (studio, telefono). Spesso preferiscono cucinarsi la cena per avere occasione di proporre qualche piatto tradizionale. I pasti sono, insomma, momenti importanti di condivisione, anche se può sempre capitare qualche ‘incidente’.

 

In che senso?

A tavola, come sempre, trovano sfogo anche le tensioni della giornata: quindi, che si tratti di protestare perché si è ricevuto meno cibo, perché quello offerto non piace, perché qualcuno fa rumore o dà fastidio, l’imprevisto è sempre in agguato. Si tratta, è bene non dimenticarlo, di ragazzi scappati da casa, e per di più costretti ad una convivenza forzata in un limbo…

 

Quanto tempo ci mettono a prendere coscienza dei loro diritti? Chi li informa?

Ci sono passaggi burocratici obbligatori che spesso travalicano le tempistiche comunitarie: passano alcuni mesi prima che ai ragazzi venga affidato un tutore che si occupi delle loro pratiche. Dal momento dell’assegnazione del tutore si avvia anche l’iter per il rilascio dei documenti. Più alta è la consapevolezza dei propri diritti, meno pacificamente si dispongono ad aspettare. Qualcuno, come detto, in quest’intervallo decide di abbandonare la struttura.

 

Qual è il tempo medio di permanenza di un ospite presso la vostra struttura?

Questo dipende in gran parte dall’età che dichiarano di avere. La maggior parte di loro – in un compromesso tra la volontà di godere dei diritti riservati ai minori, e il desiderio di ridurre al minimo la loro ‘permanenza forzata’ – dichiarano di avere diciassette anni. La forbice oscilla dunque, per ovvie ragioni, da un minimo di sei mesi a un massimo di due anni.
Tutti esprimono la volontà di andare al Nord o fuori dall’Italia, per trovare lavoro e guadagnare dei soldi da mandare alle famiglie che hanno lasciato. Nel frattempo, però, sono motivatissimi ad imparare l’italiano per potersi muovere con crescente autonomia in un contesto nel quale – non ci mettono molto a capirlo – dovranno, volenti o nolenti, restare per un po’.

 

Sai dove sono finiti gli ospiti che erano presenti il giorno in cui hai cominciato a lavorare qui?

Sì, mantengo i contatti con quasi tutti i ragazzi che hanno vissuto all’interno della comunità: la maggior parte di loro si è trasferita fuori dall’Italia. [Da questo momento è Isabella a parlare. Stefano ci confessa di aver cercato fin dall’inizio di tenere separate la sfera personale e quella lavorativa, ndr]

 

Qual è stato il momento più bello di questa tua esperienza nell’accoglienza? e quello più brutto?

Qualche tempo fa c’è stato un caso-limite. Un ospite della comunità aveva bisogno di soldi per aiutare la sua bambina, che necessitava di cure e trasfusioni di sangue in Ghana, il suo Paese d’origine. L’ho aiutato senza pensarci due volte. I suoi occhi si sono illuminati di una luce che non vedevo in lui da troppo tempo. Mi ha stretto le mani, portandole al cuore e mi ha detto: «Che Dio ti benedica, ti protegga, e sia sempre con te, Isa…non dimenticherò mai ciò che hai fatto per me». È stato un momento commovente. Dopo qualche giorno le cure hanno avuto il loro effetto: la febbre è scesa e i valori della piccola sono tornati normali. Oggi, grazie a Dio, la bambina ‘esplode’ di salute!
Il momento più brutto è stato invece la prima volta che ho dovuto separarmi da due ragazzi che ho seguito dal momento del loro arrivo, e che sentivo molto vicini. Ho avuto delle difficoltà ad elaborare quella prima separazione: di certo a causa della mia inesperienza, ho permesso un coinvolgimento e un investimento emotivo che è andato oltre il rapporto utente-operatore.
Quella ferita, però, mi è servita a comprendere che i confini devono essere chiari e mantenuti sempre, per evitare di creare dei rapporti incentrati sulla dipendenza del minore nei confronti dell’operatore. Oggi sono convintissima del fatto che occorra spronare i ragazzi all’autonomia e all’indipendenza, per un più rapido adattamento nel territorio accogliente.

 

Quali sono a tuo parere le problematiche più gravi e/o urgenti da risolvere?

Le problematiche sono molte, ma, di certo, le più gravi riguardano la difficoltà di inserimento dei minori all’interno delle strutture, il trauma dei continui trasferimenti, e i ritardi della burocrazia per l’allestimento dei documenti. Il fenomeno migratorio è ormai inarrestabile, anzi in costante aumento, e gli organismi competenti fanno una fatica enorme a collocare gli immigrati nei centri e a fornire loro l’assistenza adeguata. [Stefano nel frattempo, tornato dopo una ‘ronda’ in casa, interrompe il suo silenzio, ndr]
A parte le difficoltà di natura, per così dire, pratica, c’è anche un problema che definirei di professionalità. Occorrerebbe una formazione continua e specifica rivolta agli operatori su contenuti, ad esempio, di etnopsichiatria, in modo da rendere più facile la gestione della ‘distanza’ tra  le culture.
Per chiarire con un esempio: molti miei colleghi – e anch’io all’inizio – vivono come uno ‘sgarbo’ personale il fatto che i ragazzi buttino i rifiuti per terra e non nella spazzatura. Ma questa è per loro una cosa normale, dato che spesso – anche gli ospiti provenienti dai centri urbani – non hanno il concetto della pattumiera a casa. Buttano semplicemente i rifiuti per terra e poi li raccolgono quando puliscono! Non si può leggere come un’offesa, una prevaricazione quella che è semplicemente una differenza di codici culturali. Questo comunque è un discorso di più ampio respiro, e richiederebbe un coordinamento europeo che al momento sembra ben lontano.

 

Effettivamente… vorrei chiudere affidandovi un racconto: la storia di un ragazzo che vi ha colpito particolarmente.

[Adesso è, di nuovo, solo Isabella a parlare, N.d.R.]

Molti dei ragazzi che ho conosciuto da quando ho cominciato a lavorare qui hanno delle storie personali travagliatissime. Basta pensare solamente che spesso il passaggio in mare non è che l’ultima tappa di un viaggio cominciato anche anni prima, e che per molti ha significato dover attraversare il deserto a piedi… però una storia la voglio raccontare!

Il protagonista è un ragazzo gambiano che – circa tre anni fa – ha lasciato la casa dove viveva col padre e la matrigna. La sua famiglia, pur appartenendo ad un contesto socio-culturale molto elevato, non era un ambiente ideale, perché il ragazzo subiva continue vessazioni da parte della matrigna e dei fratellastri. La sua ‘colpa’ era quella di essere l’unico figlio del primo matrimonio del padre con una donna che era morta dandolo alla luce. Anche il padre, un imprenditore assorbito dal lavoro e sordo alla sofferenza del figlio, lo puniva spesso, accusandolo di mancare di rispetto nei confronti della nuova moglie. La donna, da parte sua, in assenza del marito costringeva il ragazzo ad assolvere ai lavori domestici e a saltare i pasti. Spesso gli impediva anche di frequentare la scuola e gli amici.
Ad un certo momento, il ragazzo decide che ne ha abbastanza. Trancia quindi qualsiasi legame con la famiglia, e lascia il Gambia partendo alla volta dell’Italia. Il suo viaggio durerà tre anni perché in Niger prima, e in Libia, poi, è stato sequestrato e imprigionato. In entrambi i casi ha trascorso le sue giornate in una stanza piccolissima, bendato e legato ad un letto, nel quale veniva continuamente violentato e percosso. Il ragazzo porta nella mente e nel corpo i segni delle torture subite. Abbiamo dunque deciso di intraprendere un percorso neuropsichiatrico, nell’ottica del suo benessere psicologico. Adesso, rispetto a quando è arrivato, ha fatto molti passi in avanti, e speriamo che continui così…

Nel frattempo si è fatta ora di cena: i ragazzi della comunità cominciano a mostrare una certa inquietudine (che si legge fame) e a far capolino nell’ufficio dove siamo seduti. Decido di lasciare Isabella e Stefano alle loro funzioni, e di tornare, in macchina, verso casa. Negli occhi quei giovani volti scavati, che han strappato con forza i confini che altri hanno scelto per loro.

 

 

 

 

1 http://lineediattivita.dipartimento-famiglia-sicilia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=751&Itemid=145

2 «Chi ne è titolare - pur non possedendo i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato - viene protetto in quanto, se ritornasse nel Paese di origine, andrebbe incontro al rischio di subire un danno grave». Da: http://www.sprar.it/index.php?option=com_content&view=article&id=130:protezione-sussidiaria&catid=87:attivita-servizi-e-beneficiari&Itemid=600.

 


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MIGRANTI , CENTRI D'ACCOGLIENZA , INTEGRAZIONE , LAVORO


Categoria

Educazione e società

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