L’“altro” in carcere: spunti di riflessione

di Antonio Gelardi, Direttore della casa di reclusione di Augusta

 

Il problema del nesso fra carceri, jihadismo e rischi di radicalizzazione, fra l’altro autorevolmente prospettato, in tempi recenti, dal Presidente del Consiglio, è meritevole di attenzione sotto più aspetti. Un primo aspetto, generale, riguarda la situazione degli stranieri, in specie extracomunitari, in carcere, ed i molteplici fattori di disagio che possono creare un terreno favorevole alla radicalizzazione; un secondo aspetto, più specifico e ad essa collegato, attiene, invece, all’individuabilità del fenomeno, azione utile anche ad evitare generalizzazioni.

In primo luogo va osservato che in Italia, negli ultimi due decenni, la presenza dei detenuti nelle carceri è quasi raddoppiata: la percentuale di stranieri sul totale della popolazione detenuta è passata dal 15% al 36% circa, con un aumento in termini assoluti di detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane pari a circa il 500%.

Il cambiamento già in atto e, per certi versi,  manifestatosi in ritardo rispetto ad altri paesi occidentali, ove è presente in misura analoga, è stato, negli ultimi anni, così radicale da trasformare profondamente la composizione etnica della popolazione detenuta e gli equilibri interni alle istituzioni penitenziarie italiane. In alcuni istituti penitenziari, soprattutto del Nord-Italia, i detenuti stranieri rappresentano ormai la maggioranza della popolazione detenuta. Ed è proprio in tali contesti penitenziari che la concreta realizzazione della funzione rieducativa della pena troppo spesso ormai s’infrange contro le barriere linguistiche,[1] religiose, culturali, alimentari, ecc., che costituiscono un muro invalicabile, anche per la mancanza di un’adeguata formazione multiculturale degli operatori penitenziari. Ci si chiede, quindi, come si possa declinare il principio della finalità rieducativa della pena agli stranieri, tenuto conto delle loro scarse risorse esterne, e del verosimile destino di irregolarità/clandestinità che li attende al termine della detenzione.[2]

Prima di analizzare, in sintesi, quali siano le maggiori problematiche relazionali individuate, riporto alcuni dati che credo siano utili a “fotografare” il detenuto straniero attualmente presente negli istituti penitenziari italiani. Rispetto al totale dei detenuti stranieri presenti al 31 dicembre 2016 (18.825, sul totale di 55.381) le nazioni più rappresentate sono:

Marocco, 3.359 (17,8%);

Romania, 2.725 (14,5%);

Albania, 2.486 (13,2%);

Tunisia, 2.041 (10,8%);

Nigeria, 897 (4,1%);

Egitto, 706 (3,8%);

Algeria 419 2,2%.[3]

È da tenere presente che, come già detto, queste sono soltanto le nazionalità maggiormente rappresentate, ma che in istituti caratterizzati da una forte presenza di detenuti stranieri si contano, a volte, anche 30, 40 o 50 nazionalità diverse, spesso in contrasto fra loro e con differenti codici comportamentali. 

Per quanto riguarda le fasce di età, nella maggior parte dei casi, secondo quanto rilevato dal Report sullo stato delle carceri nei diversi paesi,[4] si tratta di giovani dai 30 ai 34 anni (3.844 su 17.462 detenuti stranieri al 31 dicembre 2014), seguiti dalla fascia dei 25-29 anni (3.653), mentre le altre fasce di età sono residuali. Relativamente al titolo di studio, i dati indicano che la maggior parte dei detenuti stranieri (3.502 al 31 dicembre 2014) possiede una licenza media inferiore, una buona parte è del tutto priva dei titoli di studio (927), e molti possiedono solo un titolo di studio equiparabile alla nostra licenza elementare.[5]

Inoltre, secondo i dati statistici disponibili:

* il 70% degli intervistati non è in possesso di permesso di soggiorno;

* 1 su 3 non conosce, o conosce pochissimo, la lingua italiana;

* nel 30% dei casi viveva con conoscenti occasionali; solo il 18% viveva con la propria famiglia, o in un nucleo stabile;

* solo il 26% lavorava più o meno regolarmente, mentre, per il 37% il lavoro era in nero o saltuario, e il restante 37% non lavorava affatto.[6]

 Le caratteristiche del detenuto straniero, descritte in maniera sintetica, sono quindi per lo più le seguenti: giovane, poco scolarizzato, irregolare, con una scarsa conoscenza della lingua, privo di validi riferimenti esterni. Bastano questi elementi per descrivere  i maggiori ostacoli e le difficoltà che incontra nel suo rapporto quotidiano con gli operatori penitenziari. Già a partire dall’ingresso in carcere, nel corso dei primi colloqui con gli educatori, possono insorgere le prime difficoltà, dovute a incomprensioni linguistiche. Ancora prima, al momento dell’immatricolazione, le difficoltà linguistiche, la possibile sussistenza di diversi “alias” per lo stesso soggetto, uniti alla drammaticità insita nella carcerazione, non contribuiscono a creare un clima di reciproca fiducia e comprensione. Inoltre, sempre al momento dell’ingresso in carcere, durante la visita medica possono presentarsi ulteriori problemi di comunicazione con il personale sanitario, sia per ragioni linguistiche, sia per la frequente reticenza dei detenuti stranieri a parlare delle patologie da cui sono affetti, a maggior ragione se in precedenza, in quanto clandestini, non hanno potuto usufruire dell’assistenza sanitaria pubblica. Si verifica, talvolta, che detenuti siano portatori di patologie da noi scomparse quali, ad esempio, la TBC e, in qualche caso, la lebbra. 

Un capitolo a parte è quello che riguarda i disturbi psicologici o psichiatrici di cui può soffrire il detenuto: i segnali del disagio sono letti in base al modello del detenuto italiano o, comunque, occidentale, che non sempre sono validi per interpretare il vissuto emotivo dei detenuti di altre culture. Tali difficoltà portano, insieme ad altri fattori, a manifestazioni di disagio quali l’autolesionismo, presente in misura molto maggiore che fra i detenuti non stranieri.

A fronte delle possibili difficoltà relazionali e d’intervento degli operatori penitenziari nei confronti dei detenuti stranieri, l’art. 35 del D.P.R. 230/2000, Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario, ha previsto che nell’esecuzione »delle misure privative della libertà nei confronti degli stranieri, si deve tener conto delle loro difficoltà linguistiche e delle differenze culturali»,[7] e dev’essere altresì «favorito l’intervento di operatori di mediazione culturale».[8] Si tratta, però, di una delle norme poco o per nulla attuate della novella regolamentare per cui, nella prassi, le convenzioni stipulate con i mediatori culturali stentano a svilupparsi a causa dell’esiguità delle risorse finanziarie a disposizione degli istituti penitenziari.

Le maggiori difficoltà incontrate dai detenuti stranieri nell’ambito del sistema penitenziario riguardano, nondimeno, la possibilità di fruire dei benefici penitenziari. La possibilità di accedere alle misure alternative risente, infatti, della mancanza – come visto in premessa – di una rete di sostegno esterna dei detenuti stranieri che non hanno, per lo più, una disponibilità abitativa, una rete familiare e occasioni di lavoro regolari.

Ciò genera nei detenuti stranieri la perdita della capacità di una progettazione futura, e negli operatori penitenziari, in maniera speculare, la frustrazione di non poter immaginare un percorso di reinserimento sociale idoneo per il momento della scarcerazione della persona seguita.

 In questo quadro, posto che – come è stato rilevato – un numero ingente di detenuti stranieri proviene da paesi di religione islamica, i recenti episodi di terrorismo internazionale rischiano di incrementare il clima di paura e di diffidenza reciproca. Diventa quindi ancora più importante una costante attenzione e uno sforzo di conoscenza nei confronti di chi è “altro ” da noi. L’ascolto, la comprensione e l’astensione dallo stigma, diventano la chiave indispensabile per permettere la conoscenza reciproca.

Assume quindi rilievo fondamentale la formazione del personale relativamente a:

- conoscenze linguistiche;

- conoscenza di elementi di base delle altre culture (nozioni sulla storia, la religione, la situazione politica, le espressioni non verbali e meta verbali);

- conoscenza della legislazione esistente in Italia sugli stranieri (per individuare le possibili opportunità lavorative e di reinserimento o di rinnovo del premesso di soggiorno);

- conoscenza delle opportunità lavorative e di reinserimento offerte dalla rete locale.

Passiamo ora al secondo aspetto, quello che riguarda l’analisi del fenomeno della radicalizzazione e del proselitismo in carcere. Tale attività condotta in Italia dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha confermato quanto ipotizzato a livello internazionale, cioè che gli istituti penitenziari possono costituire un potenziale bacino di reclutamento per quei soggetti più vulnerabili, indottrinati ideologicamente da altri detenuti estremisti, per essere inviati, in alcuni casi, successivamente alla loro scarcerazione, nei campi di addestramento per la realizzazione di attentati terroristici.[9]

Nella maggioranza dei casi, i presunti “estremisti”, che spesso non hanno riferimenti familiari all’esterno, sono spinti da un bisogno di appartenenza ad un gruppo che li induce, in conseguenza del sentimento di abbandono, a vivere la detenzione come un fallimento rispetto alle aspettative che avevano immaginato prima di partire dal loro Paese. Per tali motivi, sovente, pongono in essere atti auto lesivi o auto soppressivi e reagiscono con aggressività, alle loro frustrazioni.

In tale contesto, dichiararsi appartenenti o simpatizzanti di un gruppo terroristico può far sentire un soggetto più importante, e per questo taluni esercitano la loro leadership non tanto per reclutare, atteso che spesso non hanno collegamenti esterni, ma piuttosto per essere capi di un gruppo.

I fattori che possono concorrere ad una radicalizzazione violenta di un detenuto sono:

- la presenza di un indottrinatore (spesso coincide con colui che riveste la figura di imam);

- la percezione di essere discriminati dal personale in occasione del non accoglimento di eventuali richieste ed il verificarsi di fattori scatenanti esterni quali un lutto, o un evento internazionale percepito come negativo.

Quando si parla di tendenza alla radicalizzazione occorre poi distinguere i seguenti gruppi:

- i detenuti per reati di terrorismo o estremismo di natura politica-religiosa;

- i detenuti per reati non estremisti come per esempio reati minori, reati violenti ed altri reati, ma che hanno già legami con gli ambienti estremisti;

- i detenuti condannati per reati minori, reati violenti e ed altri reati.

La differenza tra tali categorie consiste nel fatto che le prime due hanno già legami con l’estremismo, la radicalizzazione violenta o gli atti di terrorismo. I detenuti della seconda o terza categoria, invece, potrebbero essere una fonte di radicalizzazione e costituire gruppi di seguaci, come i leader del crimine organizzato.

 

La radicalizzazione in carcere può essere un processo lento e graduale, o può aver luogo improvvisamente ed in modo esplosivo. In ogni caso, segue un processo di pre-radicalizzazione, di identificazione per poi passare all’indottrinamento e alla manifestazione.

Nell’ambiente penitenziario la radicalizzazione diventa evidente quando si rilevano, da parte dei detenuti, cambiamenti di comportamento la cui rilevazione ed interpretazione deve, tuttavia, essere ispirata a cautela, e solo quando concorrono più elementi si può parlare di soggetto radicalizzato. Di per sé, ad esempio, un modo piuttosto ostentato di trattare le idee e i simboli islamici, per esempio appendendo le foto di Osama Bin Laden in cella, non rappresenta un processo di radicalizzazione. Infatti, tali manifestazioni possono anche essere interpretate come un modo per attirare l’attenzione su di sé, per assicurarsi un certo prestigio o semplicemente di provocare.

In questa fase è improbabile che queste persone costituiscano una minaccia diretta, anche se c’è certamente il rischio che essi si radicalizzino gradualmente e si rivolgano a strutture islamiche.

È opportuno tuttavia sottolineare che un cambiamento nel comportamento o un atteggiamento sospetto non è un indicatore attendibile per una possibile radicalizzazione. In generale, nell’ambito penitenziario, questa circostanza viene segnalata attraverso una serie di elementi diversi che indicano la radicalizzazione e per i quali è necessaria un’osservazione attenta e differenziata da parte  degli  operatori penitenziari.

I cambiamenti comportamentali possono manifestarsi in vari settori della vita quotidiana in istituto. I detenuti che durante il tempo trascorso in istituto iniziano a rifiutare di fare la doccia, di mangiare o di utilizzare la biancheria dell’istituto, di stare con detenuti non musulmani e/o che tendono ad isolarsi sempre di più, hanno forse iniziato a radicalizzarsi.

L’insistenza sull’identità religiosa può far parte di un processo di radicalizzazione, ma non è necessariamente un indicatore oggettivo di radicalizzazione. Occorre quindi controllare la situazione e verificare la presenza di altri indicatori.

Un segno chiaramente visibile, ma non sempre inequivocabile di imminente radicalizzazione è il cambiamento dell’apparenza della persona. Durante il processo di radicalizzazione alcune persone possono iniziare ad indossare abiti più tradizionali o farsi crescere la barba, per esempio. Tuttavia, anche il contrario può essere vero, cioè che più il processo di radicalizzazione è avanzato, più la persona può cercare di farsi notare il meno possibile, cosicché in uno stadio più avanzato la persona tenterà di avere una “parvenza” occidentale. La decorazione della cella con tappeti di preghiera e calligrafie islamiche ed il possesso di una copia del Corano può essere una semplice espressione di religiosità, ma di nuovo, in questi casi, è necessaria la prudenza.

L’attività di analisi del fenomeno condotta dall’amministrazione penitenziaria è articolata su tre diversi livelli:

1. il “monitoraggio”: raggruppa i soggetti per reati connessi al terrorismo internazionale e quelli di particolare interesse per atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o di reclutamento;

2. il cosiddetto “attenzionamento”: raggruppa i detenuti che all’interno del penitenziario hanno posto in essere più atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza alle ideologie jihadista e quindi, ad attività di proselitismo e reclutamento;

3. denominato “segnalazione”: raggruppa quei detenuti che, per la genericità delle notizie fornite dall’Istituto, meritano approfondimento per la valutazione successiva di inserimento nel primo o secondo livello ovvero il mantenimento o l’estromissione dal terzo livello.

I soggetti attualmente sottoposti a specifico “monitoraggio” sono complessivamente 201, a cui si aggiungono 95 detenuti “attenzionati” e 42 “segnalati”.  

Un’ultima osservazione riguarda le ripercussioni generali del fenomeno sull’ordinamento penitenziario, ovvero il rischio che la giusta attenzione sul rischio di radicalizzazione possa sospendere il processo riformatore avviato nelle carceri a seguito della sentenza europea di condanna dell’Italia per la situazione delle carceri (CEDU, Sulejmanovich vs Italia anno 2009, e Torreggiani vs Italia 2013).[10] La preoccupazione deriva dai trascorsi, ossia dall’osservazione che l’emergenza terrorismo all’indomani della riforma penitenziaria del ’75 limitò fortemente l’attuazione dell’ordinamento penitenziario causando un regresso normativo manifestatosi già nel regolamento del ’77 e poi nella politica penitenziaria. Qualcosa di analogo avvenne all’indomani delle stragi di mafia, forse non tanto nella evoluzione normativa – il 41 bis (regime per così dire duro) ed il 4 bis dell’ordinamento penitenziario possono essere considerati, almeno nelle loro prime formulazioni, aggiustamenti del sistema – quanto, piuttosto, nel caso di attenzione sulla questione carcere, poiché il problema mafie monopolizzò, per tutti gli anni ’90, tutte le riflessioni e gli interventi sul pianeta carcere. Prime avvisaglie di rischi di involuzione possono leggersi nell’enfasi con la quale alcuni attori che agiscono sul sistema (qualche sigla sindacale della polizia penitenziaria, ma non solo) mettono sotto accusa il regime aperto[11] e la sorveglianza dinamica,[12] cioè gli strumenti attraverso i quali si intende avvicinare (nel senso indicato dalle sentenze alle quali si è fatto prima riferimento) il sistema carceri all’Europa.

Ci si augura in proposito che gli anticorpi sviluppati nel passato e la salutare lezione della condanna europea consenta di sviluppare parallelamente le azioni di controllo sul nuovo fenomeno terroristico e l’ammodernamento del sistema nel senso disegnato dai valori costituzionali.

 

 

 

 

[1] Esiste già una nutrita letteratura critica che affronta, con puntualità, questa specifica questione. Tra i contributi più recenti segnalo G. Cosimo (a cura di), Il fattore linguistico nel settore giustizia. Profili costituzionali, Torino, G. Giappichelli Editore, 2016.

[2] A tal proposito, non posso fare a meno di ricordare come rimasi interdetto quando, parlando con un giovane detenuto di origine marocchina, appena raggiunto da un decreto di espulsione, dell’importanza di un corso che aveva da poco frequentato, mi guardò e mi disse amaramente: «non credo mi sarà utile in Marocco».

[3] I dati qui riportati tengono conto delle statistiche consultabili nella pagina del Ministero della Giustizia, in particolare Detenuti stranieri distribuiti per nazionalità e sesso.
Situazione al 31 gennaio 2017 (https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST1309659&previsiousPage=mg_1_14) e Detenuti presenti stranieri per area geografica
Serie storica degli anni: 2007-2016
(https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&contentId=SST679902&previsiousPage=mg_1_14).

[4] http://riuscire.org/?page_id=322

[5] Cfr. Detenuti presenti per titolo di studio. Situazione al 31 Dicembre 2014, https://giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page;jsessionid=a-qndyX77grncCiRL2cRot9a?facetNode_1=2_5&contentId=SST1112501&previsiousPage=mg_1_14

[6] La Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino, in concerto con la Fondazione Migrantes e l’Ispettorato Generale dei Cappellani delle carceri, ha promosso una ricerca finalizzata a monitorare, come recita il titolo, «le condizioni civili dei detenuti stranieri nelle carceri italiane».  I risultati ottenuti dalla somministrazione di seicento questionari multilingue, distribuiti dai cappellani di sei carceri italiane ad altrettanti detenuti stranieri, sono poi confluiti nel volume H. Alford, A. Lo Presti (a cura di), Il carcere degli esclusi. Le condizioni civili degli stranieri nelle carceri italiane, Milano, San Paolo Edizioni, 2005.

[7] http://www.penale.it/legislaz/dpr_30_6_00_230.htm

[8] Ibidem.

[9] Da tempo ci si interroga sul problema. Non potendo in questa sede dare ragione della vasta bibliografica esistente, mi limito a indicare due utili letture, disponibili online: 1) La radicalizzazione del terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere, «Quaderni ISSP (Istituto Superiore di Studi Penitenziari)», 9, 2012 (http://issp.bibliotechedap.it/quaderni.aspx); 2) Stranieri, fenomeni di radicalizzazione e libertà religiosa - Tema per Stati Generali dell’Esecuzione Penale - Tavolo 7 (https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.page?facetNode_1=0_2&contentId=SPS1181698&previsiousPage=mg_1_12), documento redatto nel luglio del 2015 da Roberta Palmisano, direttrice dell’Ufficio Studi, Ricerche, Legislazione e Rapporti Internazionali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

[10]               Si vedano, nell’ordine, https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?facetNode_1=1_2(2009)&facetNode_2=1_2(200907)&contentId=SDU151219&previsiousPage=mg_1_20 e http://www.giurisprudenzapenale.com/2013/04/01/torreggiani-strasburgo-condanna-italia/

[11] Il regime aperto è quel sistema che tende a far svolgere la vita del detenuto fuori dalla camera di detenzione impegnandolo in attività risocializzanti.

[12] La sorveglianza dinamica è un sistema che in sinergia col regime aperto tende ad ottimizzare il necessario controllo per consentire lo svolgimento delle attività anzidette senza un eccessivo dispendio di personale.

 


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CARCERI , STRANIERO , EDUCAZIONE


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Educazione e società

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