Miniare, illuminare, illustrare, dipingere con la luce.
Il caso della Bibbia di Catania.

di Pierluigi Leone de Castris

 

 

Dal 16 al 18 marzo nel 2016 si è svolto a Catania l’annuale appuntamento del Cortile dei Gentili, la prestigiosa iniziativa culturale organizzata dal Pontificio Consiglio della Cultura, che mira a mettere in dialogo prospettive ed esponenti delle religioni e delle culture cosiddette “laiche”. Aperto da un colloquio tra il card. Gianfranco Ravasi e il fisico Carlo Rovelli, il Cortile 2016 si è snodato lungo due giorni di mostre, dibattiti e spettacoli. Sono stati giorni di grande partecipazione da parte dell’Università e della Città, in un clima di condivisione e di sincera passione culturale. Pubblichiamo qui il testo dell’intervento che Pierluigi Leone De Castris ha dedicato ad un capolavoro della  miniatura medievale custodito nelle Biblioteche Riunite “Civica e Ursino Recupero”, la Bibbia del Cavallini. 

 

 

I termini utilizzati in antico per definire l’arte di dipingere e decorare i libri hanno origini diverse.
E se ‘miniare’, ‘miniatura’, ‘miniatore’  – i termini che usiamo comunemente ancor oggi – hanno la loro radice in ‘minium’, ‘minio’, e cioè nel colore rosso cinabro usato nei capilettera appunto miniati e nelle decorazioni dei bordi degli antichi testi manoscritti, il termine spesso usato in antico per la medesima operazione, ‘illuminare’, deriva con ogni probabilità – anche se esistono ipotesi diverse – dalla radice ‘lume’, luce dunque. Testi illuminati, carte illuminate, perciò, come carte non solo decorate, ma ravvivate e rese più chiare – in tutti i sensi – dalla presenza, accanto alle parole scritte, delle immagini.[1]

Questa caratteristica, questa dignità e questa dimensione estetica raggiunta dei manoscritti miniati medievali sono d’altronde ben riassunte, agli inizi del XIV secolo, da un celebre passo della Commedia dantesca, quello sulla peribilità della fama umana contenuto nel canto undecimo del Purgatorio, là dove il poeta pone implicitamente i miniatori a lui contemporanei, Oderisi da Gubbio e Franco bolognese, alla pari dei grandi pittori oggi a noi assai più noti, Cimabue e Giotto, e allo stesso tempo osserva efficacemente – parlando della gloria dell’uno subito superata da quella dell’altro – che, rispetto alle miniature di Oderisi da Gubbio, un miniatore celebre e fino a quel momento ritenuto «l’onor di quell’arte ch’alluminar chiamata è in Parisi», «più ridon le carte che pennelleggia Franco bolognese».[2]
«Ridon le carte», le carte dunque ridono, splendenti di colori e di luce.

Questi anni, d’altronde, gli anni di Dante, i primi decenni del Trecento, sono quelli in cui davvero i codici miniati italiani – i testi sacri d’uso pubblico o privato, i salteri, gli antifonari, i corali, le bibbie e i libri d’ore, ma anche, come vedremo, i testi giuridici e letterari – raggiungono livelli di qualità e di ricchezza inusitata, e in cui alcuni dei maggiori pittori italiani del momento si misurano personalmente colla specialità e la tecnica della miniatura, realizzando pitture su pergamena così come su tavola o su muro. È il caso, ad esempio, di Simone Martini, il grande pittore senese contemporaneo di Giotto che Petrarca, il quale gli era amico oltre che committente, elogiava ad Avignone, intorno al 1336, come nuovo Zeusi, nuovo Fidia, e paragonava addirittura a Virgilio non tanto per i suoi famosissimi affreschi nella cattedrale di Nôtre-Dame-des-Dôms o per i suoi raffinati dipinti su tavola a fondo d’oro, ma proprio per le miniature che il pittore aveva realizzato su suo ordine, quella appunto in apertura del volume di opere di Virgilio, oggi alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, e quella – oggi perduta – col ritratto di Laura, della sua amata, per realizzare la quale – secondo lui – e per coglierne – egli dice – «l’alto concetto» Simone doveva essere stato in Paradiso: «ivi la vide e la ritrasse in carte / per far fede qua giù del suo bel viso. / L’opra fu ben di quelle che nel cielo / si ponno imaginar, non qui tra noi, / ove le membra fanno a l’alma velo. / Cortesia fe’; ne la potea far poi / che fu disceso a provar caldo e gielo, / e del mortal sentiron gli occhi suoi».[3]

Non sappiamo se il fiorentino Giotto si sia mai misurato personalmente colla tecnica della miniatura; e nemmeno per il terzo grande “padre” della pittura italiana moderna, il romano Pietro Cavallini, è documentato un coinvolgimento diretto col campo della produzione libraria.
Ma è proprio di quest’ultimo artista, di Cavallini (dei tre forse il meno conosciuto dal grande pubblico dei non specialisti), e del suo rapporto con l’arte della miniatura che ci si propone qui brevemente di trattare; perché è a lui, al grande pittore romano, che è stata in vario modo accostata o riferita la decorazione miniata di una sfarzosa, ricchissima Bibbia, vero capolavoro dell’illustrazione primo-trecentesca, che oggi si conserva nelle Biblioteche riunite “Civica e Ursino Recupero” di Catania, un capolavoro sin qui relativamente poco conosciuto ma che è oggi, per merito della Biblioteca stessa, dell’Ateneo catanese e del CNR, fruibile in modo straordinariamente efficace grazie a un encomiabile progetto di riproduzione digitale ad altissima qualità.[4]

Occorre dire, intanto, che di Cavallini sappiamo purtroppo molto poco; pochissimo a confronto di quanto grazie ai documenti d’archivio sappiamo ad esempio della vita e delle opere di Giotto o di Simone Martini – per tornare ai nomi già fatti degli altri protagonisti della pittura di quegli anni.
I due documenti ritrovati negli archivi romani nel corso dell’ultimo secolo, uno del 1273 ed uno nel 1279, e che alcuni hanno ritenuto riferirsi al pittore e in grado di testimoniarne anzi una nascita attorno al 1250, si sono infatti rivelati col tempo relativi a persone diverse, dal nome simile – un Pietro Cavallino dei Cerroni e un Pietro Catellini – ma dei quali le carte del tempo non dicono fossero pittori.[5]

L’unica fonte, l’unica testimonianza antica, non d’archivio ma letteraria, che abbiamo dunque sulla sua attività romana è quella contenuta nei Commentari di Lorenzo Ghiberti, che a poco più d’un secolo di distanza dai fatti, siamo nel primo Quattrocento, ricordano l’artista come «dottissimo» maestro e ne elencano le opere più importanti ad affresco o a mosaico nelle chiese di Roma: in San Pietro in Vaticano, in San Paolo fuori le Mura, in San Crisogono, in San Francesco a Ripa e soprattutto in Santa Cecilia in Trastevere – affrescata, dice «tutta di sua mano» – e in Santa Maria in Trastevere, dove, sempre a detta di Ghiberti, egli aveva realizzato «di musayco molto egregiamente nella cappella maggiore 6 historie».[6]

Queste opere, l’ultima delle quali eseguita su commissione della nobile famiglia romana degli Stefaneschi, lo ripeto, non sono documentate – se non da Ghiberti – e non hanno dunque una data sicura, ma per motivi esterni, storici, o sulla base di antiche testimonianze, possono essere datate nel corso degli anni novanta del Duecento; e in esse e nelle altre che gli studi gli hanno poi attribuito in base a confronti stilistici nelle altre chiese romane di San Giorgio in Velabro e di Santa Maria d’Aracoeli – quest’ultima affrescata sul monumento funerario di un cardinale, Matteo d’Acquasparta, morto nel 1302, e dunque databile già agli inizi del nuovo secolo – cogliamo la grandezza e la modernità, rispetto a un ambiente romano ancora legato alla cultura orientale, bizantina, o romanica, di questo artista, un artista che Vasari infatti avrebbe ricordato nel suo trattato sulle Vite degli artisti, ormai a metà Cinquecento, come «ottimo discepolo di Giotto», come uno di coloro che insieme a Giotto avevano resuscitato, «tornato in vita la pittura».[7]

Una pittura rinnovata, dunque, un nuovo senso del naturale, una riscoperta verità fisica dei corpi, della materia, dei sentimenti, una ritrovata efficacia nel rapporto fra la dimensione plastica dei corpi e lo spazio, l’architettura, la prospettiva. Questo era dunque, già prima dell’anno 1300, l’anno del grande Giubileo, Pietro Cavallini, l’artista romano più moderno del momento. Questo è l’artista che il re di Napoli Carlo II d’Angiò, secondo un uso tipico (e molto moderno anch’esso) dei sovrani angioini di eleggere un grande artista forestiero a portavoce delle necessità della corte sotto il profilo artistico e celebrativo, chiamerà a Napoli nel giugno del 1308, primo di una serie assai significativa di pittori e scultori pur essi chiamati a corte e dotati – cosa clamorosa per quei tempi – di uno stipendio negli anni a seguire, Simone Martini, Tino di Camaino, Giotto ed altri ancora.[8]

Così recita – naturalmente in latino – un passo dell’atto regio del 10 giugno 1308: «Rendiamo noto a tutti che il maestro Pietro Cavallini di Roma, pittore, è giunto in queste terre per servirci di qui in avanti con la sua arte […;] per suo stipendio e spese gli siano versate trenta once d’oro all’anno […..e] gli sia assegnata una casa dove egli possa, insieme con la sua famiglia, comodamente abitare».[9]

Non voglio in questa occasione tanto ritornare su un tema che mi è per altro molto caro; e cioè su quanto questo soggiorno napoletano di Cavallini, così come quello, vent’anni dopo, di Giotto, rappresenti una tappa fondamentale, tutta napoletana, dell’evoluzione nel tempo del ruolo e dello status sociale dell’artista in Europa, che pian piano si trasforma da semplice artigiano, salariato, manovale (e cioè da qualcuno che lavora con le mani), a portavoce – dicevo prima –, stipendiato, funzionario di corte, intellettuale, e cioè in una persona che lavora non solo con le mani ma con l’intelletto, le idee e i programmi, come significativamente riconoscerà qualche anno più tardi Petrarca proprio per gli affreschi napoletani di Giotto nella Cappella Palatina della reggia di re Roberto d’Angiò, da lui definiti nell’Itinerarium Syriacum «magna […] manus et ingenii monumenta», grandi monumenti della mano e dell’ingegno.[10]

Voglio invece sottolineare che i documenti di pagamento della Tesoreria angioina relativi a questo soggiorno napoletano dell’artista – due dei quali già individuati a metà Ottocento ed altri tre riemersi grazie a ricerche più recenti, mie e di altri – sono in pratica le uniche testimonianze d’archivio certe, una volta riconosciuta la diversità delle persone citate negli atti romani del 1273 e 1279, su Pietro Cavallini.[11] Per ironia della sorte, dunque, del maggior artista romano del tardo Medioevo l’unica cosa davvero certa è che fra il giugno del 1308 e i primi mesi del 1309 egli era a Napoli, al servizio del sovrano Carlo II d’Angiò.

Il soggiorno in città di Cavallini dové essere certamente vantaggioso per lui dal punto di vista economico e sociale, l’abbiamo visto, ma anche molto importante per le sorti della cultura figurativa meridionale, per il gusto della corte, che solo in questi anni, e poi ancor di più sotto il regno di re Roberto, fra il 1309 e il 1343, sembra distaccarsi con decisione da quell’originario e comprensibile legame con la tradizione gotica francese e provenzale, delle terre cioè da cui gli “invasori” angioini provenivano.[12]

Per vent’anni circa, sino all’arrivo di Giotto, il linguaggio per eccellenza della pittura napoletana, quello di moda in città ed anche in provincia, sarà infatti quello cavalliniano, imitato o replicato da artisti di livello molto vario, talora molto alto, talora anche modesto, talora con ogni probabilità romani, suoi allievi o collaboratori, talora anche locali.[13]

I documenti napoletani superstiti non ci dicono purtroppo dove Cavallini aveva lavorato per gli Angiò. E nemmeno con esattezza per quanto tempo.

Gli studi si sono dunque affannati, sin dalla fine dell’Ottocento e dagli inizi del Novecento, ad assegnargli a Napoli ora una, ora l’altra opera, in base al confronto con le opere romane ricordate da Ghiberti e considerate perciò certe, autografe: in particolare coi mosaici con le Storie della Vergine della chiesa di Santa Maria in Trastevere e con gli affreschi col Giudizio Universale dell’altra chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, ma anche con la lunetta, a questi ultimi affreschi molto vicina, del monumento sepolcrale di Matteo d’Acquasparta in Santa Maria d’Aracoeli.[14]

Al di là delle dispute filologiche e attributive, anche recenti, credo personalmente che i citati confronti con le opere romane consentano di riferire a Cavallini in persona, coll’aiuto certo della sua bottega e durante il suo soggiorno napoletano, gli affreschi che decorano la cappella di Sant’Aspreno in Duomo e la cappella di Rinaldo Brancaccio in San Domenico Maggiore, mentre dell’altro straordinario ciclo che ricopre pressoché interamente le mura della chiesa vecchia di Donnaregina – una chiesa legata al patronato della moglie di Carlo II, la regina Maria d’Ungheria – e che alcuni studiosi, a partire da Adolfo Venturi, hanno spesso riferito alla sua mano ho invece di recente potuto provare come sia stato di contro realizzato da suoi allievi e collaboratori all’incirca fra il 1317 e il 1328.[15]

Purtroppo non sappiamo con certezza – lo ripeto – per quanto tempo Cavallini si sia trattenuto a Napoli al servizio della corte, se molto o poco, e non sappiamo con esattezza quando sia ritornato a Roma, nella sua città. Con molta probabilità già lavorava a Roma agli inizi degli anni venti, anni in cui è documentato un interessamento del papa Giovanni XXII per i mosaici e forse gli affreschi della basilica di San Paolo fuori le Mura, purtroppo distrutti, che Ghiberti diceva almeno in parte opera sua.[16] Ma è probabile, almeno secondo me, che non tardasse molto a rientrarvi dopo il 1309, visto che i documenti napoletani che lo riguardano arrivano solo sino a quella data e visto che già nei primi anni dieci alcune importanti commissioni di opere d’arte in Duomo – e cioè in una chiesa dove egli aveva lavorato in prima persona – venivano affidate dall’arcivescovo Uberto d’Ormont e dal capitolo della Cattedrale a suoi allievi di minor calibro.[17]

La questione della durata del soggiorno di Pietro Cavallini a Napoli riguarda anche il tema che oggi e qui più ci interessa e dal quale siamo partiti: e cioè quello del rapporto fra questo grande artista e l’illustrazione miniata e dell’opera che ne è l’espressione per eccellenza, la Bibbia cioè delle Biblioteche riunite Civica e Ursino Recupero di Catania, un manoscritto composto da circa 440 carte e riccamente illustrato da quasi 200 iniziali miniate, acquistato – si sa – a Roma verso il 1740-50 per la biblioteca del monastero benedettino di San Niccolò l’Arena.[18]

Fra gli anni venti e trenta del Novecento Bernard Berenson e Pietro Toesca, due fra i maggiori storici dell’arte di quel tempo, accostarono per la prima volta questo codice miniato ai modi di Pietro Cavallini, suggerendolo decorato da qualche suo seguace.[19]

In seguito, oltre trent’anni fa, io stesso ho poi provato a precisare questo loro suggerimento confrontando le miniature del manoscritto catanese con le opere napoletane di Cavallini, in particolare cogli affreschi del Duomo e di San Domenico Maggiore e ipotizzandone uno strettissimo legame colla figura e la personalità dell’artista romano, una sua datazione dentro o attorno al 1310 ed un suo rapporto, in qualità di prototipo, con una più ampia produzione di codici miniati “cavalliniani” nella Napoli angioina degli anni venti-trenta del Trecento.[20]

E più di recente – infine – un altro studioso di cose cavalliniane, Alessandro Tomei, ha rotto gli indugi e ha ritenuto di poter riferire a Cavallini in persona almeno una parte delle illustrazioni del codice e ne ha confortato questa ipotetica datazione attorno al 1310 e questo legame con Napoli, un legame confermato – è quest’ultima è una sua importante scoperta – da uno stemma Brancaccio miniato sul foglio 360 verso e per certo riferibile al prelato che dové richiedere e commissionare la Bibbia stessa, raffigurato a sua volta a foglio 4 recto, a suo avviso il cardinal Landolfo Brancaccio, morto nel 1312.[21]

Cosa possiamo oggi dire – possibilmente di nuovo – su questo manoscritto e sul suo rapporto con l’arte di Pietro Cavallini. Intanto, banalmente, che la Bibbia di Catania è davvero uno degli esempi più alti e più belli della miniatura italiana di primo Trecento. L’occasione di poterne ammirare non uno o due, ma tutti i fogli, nella riproduzione digitale ad altissima risoluzione approntata – lo dicevo – a cura del CNR e della Biblioteca che la conserva, consentirà a un più ampio pubblico, non solo locale e non solo di specialisti, di rendersene conto, e consentirà anche, da oggi in poi, agli stessi specialisti di studiarla meglio, come merita, e con più facilità.

Il secondo aspetto che dobbiamo ormai considerare certo – io credo – è il legame  stretto delle miniature che la ornano con il Cavallini napoletano: non tanto con gli affreschi di Donnaregina, come sosteneva già la Daneu Lattanzi e come ha sostenuto più di recente anche Tomei[22] – affreschi che, come dicevo, ho proposto di attribuire su basi documentarie non a Cavallini verso il 1308, quanto a suoi seguaci attivi all’incirca dal 1317-18 alla fine degli anni venti –, ma in particolare con gli affreschi della cappella Brancaccio in San Domenico Maggiore, questi si realizzati da Cavallini e dalla sua bottega attorno o poco dopo il 1308 e cui rinviano le straordinarie soluzioni cromatiche, prospettiche, espressive, e la capacità di racconto che in esse cogliamo.

Il terzo punto ormai certo, infine, è quello di una produzione del manoscritto a Napoli, nell’ambiente della corte angioina, e su richiesta di un prelato della famiglia Brancaccio.   

Sarebbe bello, anche a conferma della ricostruzione che io stesso tanti anni fa ho avviato, che questo personaggio fosse davvero Landolfo Brancaccio, vescovo di Aversa dal 1293 e nominato cardinale di Sant’Angelo in Pescheria da papa Celestino V nel 1294, lungamente attivo fra Roma e Napoli, negli anni di papa Bonifacio VIII e di Carlo II d’Angiò, e poi – dal 1308 in avanti – soprattutto invece in Francia e in Provenza, tra Parigi e la nuova sede papale di Avignone , dove sarebbe poi morto nel 1312.[23] 

Purtroppo, invece, è molto difficile che il committente della Bibbia di Catania sia davvero lui. Intanto né lo stemma, né soprattutto le vesti del prelato in ginocchio di foglio 4 recto hanno caratteristiche tali da rinviare esplicitamente alla dignità cardinalizia. Questo non sarebbe tuttavia un ostacolo insormontabile. In quegli stessi anni, infatti, vi sono casi di cardinali raffigurati in opere d’arte da loro volute e commissionate nelle vesti non di cardinali ma di vescovi. Poi però c’è lo stemma, Brancaccio certamente, ma non quello più semplice e del ramo principale, quello chiamato anche dei “Glivoli”, con quattro branche d’oro su fondo azzurro, che da un ritratto seicentesco di Landolfo sembrerebbe essere stato il suo, bensì quello con quattro (o sei) branche d’oro su fondo azzurro attraversato nel mezzo da un palo bianco d’argento in verticale caricato da alcune punte di merli in rosso, uno stemma che le fonti araldiche napoletane – alcuni stemmari seicenteschi, il repertorio ottocentesco della famiglie nobili cittadine di Berardo Candida Gonzaga – dicono di un altro ramo della famiglia, i Brancaccio “del Vescovo”; [24] un ramo il quale avrebbe preso nome – si ritiene – non da Landolfo, ma da Bartolomeo Brancaccio, rettore della chiesa napoletana di Sant’Andrea a Nilo dal 1275, canonico del Duomo nel 1294, arcivescovo di Trani dal 1327 o dal 1328, professore di legge e vice-cancelliere del regno di Napoli al tempo di re Roberto d’Angiò, morto – lo sappiamo – nel 1341 e sepolto in San Domenico Maggiore.[25]

Se il committente della Bibbia di Catania fosse Bartolomeo, e non Landolfo, essa potrebbe essere stata realizzata a Napoli anche diversi anni dopo il 1310, quando ormai Cavallini non vi si trovava più da tempo, e dunque sarebbe più prudente ed adeguato riferirne la paternità, piuttosto che a Cavallini in persona, a una bottega di miniatori cavalliniani operosi in città e che, così come d’altronde avveniva in pittura, continuavano in quegli anni a replicarne più o meno fedelmente i modi e il linguaggio. E d’altronde gli studi più recenti sull’altra Bibbia cavalliniana “compagna” di questa di Catania, quella appartenuta a fine Trecento all’antipapa Clemente VII ed ora alla British Library di Londra, tendono a datare per motivi storici ed iconografici anche quel manoscritto, certo meno bello e probabilmente un po’ più tardo del nostro, ma anch’esso realizzato a Napoli e fortemente legato al linguaggio del Cavallini napoletano, un po’ più avanti nel corso del Trecento, fra la fine degli anni venti e gli inizi degli anni trenta.[26]

Insomma, su quest’opera così affascinante e straordinaria, sulla Bibbia di Catania, non tutto ancora sappiamo. Molto c’è ancora da indagare, da scavare, da capire.

È in ogni caso grazie ad essa che possiamo toccare con mano, nelle pagine di un libro e non solo sulle mura di una chiesa, il fascino straordinario e modernissimo della pittura plastica, tessita e luminosa di Pietro Cavallini. Ed è in ogni caso anche grazie ad essa che il ruolo d’avanguardia e la dimensione europea e mediterranea delle tante esperienze artistiche che doverono caratterizzare la Napoli angioina e più in generale il Meridione d’Italia fra Due e Trecento ci tornano vivissimi davanti.

 

 

   

 

 


[1] A. De Floriani, Cenni sulla tecnica della miniatura, in A. Putaturo Murano, A. Perriccioli Saggese (a cura di), La miniatura in Italia. I. Dal tardoantico al Trecento con riferimenti al Medio Oriente e all’Occidente europeo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005, p. 14 (e p. 19, con bibliografia), dove è possibile trovare indicazioni anche sull’ipotesi alternativa di una derivazione del termine “illuminare” (o “alluminare”) dalla radice “allume”, un altro materiale pure usato dai miniatori medioevali, in questo caso come legante dei pigmenti.

[2] Dante Alighieri, Commedia, ed. a cura di N. Sapegno, III ed. cons., Scandicci, La Nuova Italia, 1985, pp. 123-126 (e in part. p. 124), Purgatorio, XI, vv. 73-108 (e in part. vv. 79-84).

[3] F. Petrarca, Canzoniere, ed. a cura di M. Santagata, ed. cons. Milano, Mondadori, 2014, pp. 402-405, sonetto LXXVII (Per mirar Policleto a prova fiso; ma cfr. anche, a pp.406-408, il sonetto LXXVIII, Quando giunse a Simon l’alto concetto). Sulla questione, nonché sul Virgilio ms. A 79 inf. dell’Ambrosiana miniato da Simone per Petrarca e sugli altri riferimenti epistolari o letterari, più o meno diretti, di Petrarca a Simone, mi permetto di rinviare a P. Leone de Castris, Simone Martini, Milano, Federico Motta Editore, 2003, pp. 322-328, 339-340 note 33-53, 364 n. 36 e passim, col rinvio alla precedente e molto considerevole bibliografia.

[4] Vedi qui accanto l’introduzione di Giancarlo Magnano di San Lio, col riferimento al progetto S&TDL del CNR e alla sua presentazione, in uno con la Bibbia in oggetto, in occasione dell’edizione del Cortile dei Gentili dal titolo Sulla luce, Catania, 18-19 marzo 2016.

[5] Per la scoperta e la pubblicazione dei due documenti del 1273 (Roma, Archivio Liberiano di Santa Maria Maggiore, Orig. Perg. D.II.48) e 1279 (Roma, Archivio Capitolino, Fondo Orsini,  II.A.II n.12) vedi rispettivamente G. Ferri, Un documento su Pietro Cavallini, in Nozze Hermanin-Hausmann, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1904, pp. 59-62; ed A. Barbero, Un documento inedito su Pietro Cavallini , «Paragone» 473, Firenze, Sansoni, 1989, pp.84-88. Per un’interpretazione favorevole all’identificazione del Pietro in essi nominato col  pittore Pietro Cavallini vedi ancora A. Tomei, Pietro Cavallini, Cinisello Balsamo-Bergamo, Silvana Editoriale, pp.11-12, 158 note 1-17, con bibliografia sul dibattito. Per una più recente e dirimente lettura del documento del 1279 come relativo a un «Pietro Catellini» invece mercante vedi invece P. Pavan, A proposito di un documento utilizzato per la cronologia di Pietro Cavallini: il testamento di Matteo Orso di Napoleone di Giangaetano Orsini (12 gennaio 1279), «Archivio della Società Romana di Storia Patria» 131, Roma, Società Romana di Storia Patria, 2008, pp.51-70; laddove per un riesame recente della questione e per la necessità di abbandonare l’idea di un’identificazione dei personaggi in questione con l’artista rinvio a P. Leone de Castris, Pietro Cavallini. Napoli prima di Giotto, Napoli, Arte’m, 2013, pp. 36, 63 note 6-12, con bibliografia.

[6] L. Ghiberti, I Commentari, 1447-48 circa, ed. a cura di J. von Schlosser, Berlin, Bard, 1912, I, p.39.

[7] G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti Pittori et Scultori e Architetti, Firenze, Giunti, 1568, ed. a cura di G. Milanesi, Firenze, Sansoni, 1906, I, pp.537-543; ma la Vita di Cavallini è presente, con alcune varianti, anche nell’edizione del 1550.

[8] Sempre per brevità mi permetto di rinviare a P. Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, da Carlo I a Roberto il Saggio, Firenze, Cantini, 1986, in part. a pp. 84-86, 91-92 note 5-14; Id., Giotto a Napoli, Napoli, Electa Napoli, 2006, in part. a pp. 41-64;  Id., Pietro Cavallini cit., in part. a pp. 15-18, 29-30 note 1-14, 32-36, 63 note 1-6, 66-67, 84 nota 3; Id., in Ori, argenti, gemme e smalti della Napoli angioina, 1266-1381, catalogo della mostra, a cura di P. Leone de Castris, Napoli 2014, pp.15-25.

[9] Già Napoli, Archivio di Stato, Registri Angioini, 167, c. 245, del 10 giugno 1308. Vedi H. W. Schulz, Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, Dresden, Schulz, 1860, IV, p.127, n. CCCXXXIV; e P. Leone de Castris, Pietro Cavallini cit., pp. 32, 63 nota 1, con bibliografia.

[10] F. Petrarca, Itinerarium ad sepulchrum Domini nostri Ihesu Cristi (Itinerarium Syriacum), 1358 ca., ed. Basileae, S.H. Petri, 1554, p.62. Per i miei interventi sul ruolo dell’artista nella Napoli angioina vedi qui a nota 8.

[11] Vedi qui a nota 5. Per i documenti napoletani del 1308-09, ritrovati e pubblicati nel tempo da Schulz, Camera, Cutolo e Aceto, rimando invece ancora una volta a P. Leone de Castris, Pietro Cavallini cit., pp. 32-36, 63 note 1-5, con bibliografia.

[12] Per un quadro d’insieme di questo processo di passaggio, oltre ai miei lavori qui citati a nota 8, vedi essenzialmente, F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, 1266-1414, Roma, Ugo Bozzi Editore, 1969; e ancora P. Leone de Castris, Pittura del Duecento e del Trecento a Napoli e nel Meridione, in La Pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, Milano, Electa, 1985, II ed. cit., Milano, Electa, 1986, pp. 461-512; Id., La pittura a Napoli tra Due e Trecento, in F. Gandolfo, G. Muollo (a cura di), La Maestà di Montevergine. Storia e Restauro, Roma, Artemide, 2014, pp. 71-84.

[13] P. Leone de Castris, Arte di corte, cit., pp. 266-311; Id., Pietro Cavallini cit., pp. 112-186.

[14] Oltre agli studi di Bologna, di Tomei e miei qui citati alle note 5, 8, 12, 20 e 21, si vedano almeno i lavori di D. Salazar, Pietro Cavallini pittore scultore e architetto romano del XIII secolo. Nota storica letta all’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti nella tornata del 14 febbraio 1882, Napoli, Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, 1882 [estratto da «Atti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti» IX, 1882-83, pp. 11-18], F. Hermanin, Gli affreschi di Pietro Cavallini in S. Cecilia in Trastevere, «Le Gallerie Nazionali Italiane» V, Roma, Tipografia Unione Cooperativa Editrice, 1902, pp. 61-115, A. Venturi, Pietro Cavallini a Napoli, «L’Arte» IX, Roma, L’Arte, 1906, pp. 117-124, Id., Storia dell’Arte Italiana, Milano, Hoepli, 1901-40, V, 1907, pp. 143-169, E. Bertaux, Gli affreschi di S. Maria Donnaregina. Nuovi appunti, «Napoli Nobilissima» XV, Trani, Vecchi, 1906, pp. 129-133, O. Morisani, Pittura del Trecento in Napoli, Napoli, Libreria Scientifica, 1947, pp. 27-50, 124-133, P. Toesca, Il Trecento, Torino, UTET, 1951, pp. 686-687; G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, Roma, Palombi, 1965-66, II, pp. 214-215, Id., Pietro Cavallini, Roma, De Luca Editore, 1972, pp. 127-135, P. Hetherington, Pietro Cavallini: A Study in the Art of Late Medieval Rome, London, Sagittarius, 1979, pp. 73-80, M. Boskovits, Proposte (e conferme) per Pietro Cavallini, in Roma anno 1300, Atti della IV settimana di studi di storia dell’arte medievale dell’Università di Roma “La Sapienza”, a cura di A.M. Romanini, Roma 1980, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1983, pp. 297-312. Per una più completa storia degli studi sul problema di Cavallini a Napoli si veda P. Leone de Castris, Pietro Cavallini cit., pp. 15-31.

[15] P. Leone de Castris, Pietro Cavallini cit., pp.112-154, col rinvio alle fonti e ai documenti d’archivio. Questi ultimi, in particolare, fraintesi all’origine da Camillo Minieri Riccio (1871) e a seguire dagli studi successivi sulla chiesa e sugli affreschi (cfr. qui a nota 14), indicano che la chiesa dové essere ricostruita dalla regina Maria d’Ungheria – già vedova – a partire dagli anni 1313-14, iniziata a decorare con ogni probabilità a partire dal 1317-18, secondo quanto segnala anche la presenza, fra le figure dei santi rappresentate nella scena del Giudizio Universale, di Ludovico d’Angiò vescovo di Tolosa, figlio di Maria e canonizzato appunto nel ‘17.

[16] Vedi qui a nota 6. Sui documenti del 1323-26 relativi all’impresa di decorazione della basilica di San Paolo fuori le Mura vedi in sintesi A. Tomei, Pietro Cavallini  cit., pp. 137, 141-142, 165-166 note 32, 56-65; P. Leone de Castris, Pietro Cavallini cit., pp. 41-44, 65 note 35-44; col rinvio ai riferimenti d’archivio e alla bibliografia precedente.

[17] P. Leone de Castris, Pietro Cavallini cit., pp.66-67, 160-165.

[18] A. Daneu Lattanzi, I manoscritti e incunaboli miniati della Sicilia, Palermo, Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo, 1984, pp.39-48, n.19.

[19] P. Toesca, Il Medioevo, Torino, UTET, 1927, p.1093; B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, Oxford, Clarendon Press, 1932, pp. 140-141;  Id., Pitture italiane del Rinascimento, Milano, Hoepli, 1936, p. 121. Ma a seguire si veda anche, almeno, O. Viola, La Bibbia miniata della Biblioteca Civica di Catania, «Bollettino Storico Catanese» XI-XII, Catania, Tipografia F. Strano, 1946-47, pp.142-151; P. Toesca, Il Trecento cit., pp.821-822; Mostra storica nazionale della miniatura, catalogo a cura di G. Muzzioli, Firenze, Sansoni, 1953, p.261, n.412;  M. Salmi, La miniatura italiana, Milano, Electa, s.d. [1956], p.32; G. Ursini Vianelli, Le biblioteche riunite Civica e A. Ursino Recupero, Catania, Tipografia Fratelli Viaggio-Campo, 1957, p. 8; F. Bologna, I pittori cit., pp.98, 112 nota 105; V. Pace, Codici miniati a Roma al tempo del primo Giubileo, in Roma 1300-1875. L’arte degli Anni Santi, catalogo della mostra, Milano, Mondadori, 1984, pp.318-320.

[20] P. Leone de Castris, Pittura del Duecento cit., pp. 481-482; Id., Arte di corte cit., pp. 202, 210 nota 66, 268, 271-272 nota 15, 456-457; interventi nei quali la Bibbia di Catania era individuata come capo d’opera di una serie di manoscritti napoletani e dell’attività di una o più botteghe di miniatori di cultura cavalliniana estesa – sulla scorta delle ricerche di F. Bologna, I pittori, cit., pp. 98, 138-140; Id., Il “Tito Livio” n. 5690 della Bibliothèque Nationale di Parigi. Miniature e ricerche proto-umanistiche tra Napoli e Avignone alle soglie del Trecento: costatazioni e ipotesi con un’appendice iconografica, in Gli Angioini di Napoli e di Ungheria, Colloquio italo-ungherese (Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 23-24 maggio 1972) Roma, Accademia Nazionale dei Lincei 1974, pp. 41-116 – da Roma alla Napoli angioina e di qui ad Avignone e alla Provenza.

[21] A. Tomei, Pietro Cavallini, cit., pp. 152-156, 167 note 127-129; Id., Cavallini, Pietro, in Dizionario biografico dei miniatori italiani, secoli 9.-16., a cura di M. Bollati, Milano, Sylvestre Bonnard, 2004, pp.81-83; Id., Qualche riflessione sull’attività napoletana di Pietro Cavallini: nuovi dati sulla cappella Brancaccio in San Domenico Maggiore, in Le chiese di San Lorenzo e San Domenico. Gli ordini mendicanti a Napoli, Atti della II Giornata di Studi su Napoli, Losanna 13 dicembre 2001, a cura di S. Romano-N. Bock, Napoli, Electa, Napoli, 2005, pp.127-140. Sull’argomento – e cioè sulla Bibbia di Catania e su quella simile ora alla British Library di Londra (sulla quale cfr. qui più avanti) – si veda inoltre, negli ultimi vent’anni, C. A. Fleck, Linking Jerusalem and Rome in the Fourteenth Century: the Italian Bible of Anti-pope Clement VII, «Jewish Art» XXIII-XXIV, Jerusalem, Center for Jewish Art of the Hebrew University, 1997-98, pp.430-452; Ead., Papal Politics on a Trecento Italian Bible: the Bible of Anti-pope Clement VII (British Library, ms Add. 47672), Phil. Diss., John Hopkins University, 1998; Ead., Biblical Politics and the Neapolitan Bible: the Bible of Anti-pope Clement VII, «Arte Medievale» n.s. I, Milano, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2002, 1, pp.71-90; Ead., The Clement Bible at the Medieval Courts of Naples and Avignon: A Story of Papal Power, Royal Prestige, and Patronage, Farnham-Burlington, Ashgate, 2010; E. Condello, Libri e committenza nella Roma del primo giubileo: i codici Stefaneschi e dintorni, in Anno 1300, il primo giubileo. Bonifacio VIII e il suo tempo, catalogo della mostra, a cura di M. Righetti Tosti-Croce, Roma 2000, Milano, Electa, 2000, p.105; A. Perriccioli Saggese, L’enluminure à Naples au temps des Anjou, in L’Europe des Anjou. Aventure des princes angevins du XIIe au XVe siècles, catalogo della mostra, Fontevraud 2001, Paris, Somogy, 2001, p.127; S. Magrini, La Bibbia di ‘Matheus de Planisio’ (Vat. Lat. 3550, I-III): documenti e modelli per lo studio della produzione scritturale in età angioina, «Codices manuscripti» 50-51, Purkersdorf, Hollinek, 2005, pp. 2 nota 3 (4), pp. 14-15; A. Bräm, Neapolitanische Bilderbibeln des Trecento: Anjou-Buchmalerei von Robert dem Weisen bis zu Joanna I., Wiesbaden, Reichert, 2007, pp. 106-107, 406-408; P. Leone de Castris, Pietro Cavallini cit., pp. 169, 186 note 56-60.

[22] A. Daneu Lattanzi, I manoscritti, cit., p.48; A. Tomei, Pietro Cavallini, cit., pp. 153-156; Id., Qualche riflessione, cit., pp.130-136.

[23] Sul quale si veda I. Walter, Brancaccio, Landolfo, in Dizionario biografico degli italiani, 13, Roma, Treccani, 1971, pp.784-785, con bibliografia.

[24] Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, ms. X.A.41, f.6v; X.A.42, ff. 2-5; X.A.44, f. 28; X.A.45, ff. 19-22; B. Candida Gonzaga, Memorie delle famiglie nobili delle Province Meridionali d’Italia, Napoli, Stabil Tipog. del cav. G. De Angelis e figlio, 1875-82, I, pp.135, 138-139. Sugli stemmi dei diversi rami della famiglia Brancaccio di Napoli, in particolare in relazione alle vicende della cappella Brancaccio nella chiesa cittadina di San Domenico Maggiore e degli affreschi cavalliniani che la ricoprono, vedi in ultimo P. Leone de Castris, Pietro Cavallini cit., pp. 88-111, e in part. pp.92-97, 108-109 note 23, 33-44.

[25] Sul quale si veda B. Candida Gonzaga, Memorie cit., I, p.136; Annali civili del Regno delle Due Sicilie, XL, Napoli, Tipografia del Real Ministero di Stato degli Affari Interni nel Reale Albergo de’ Poveri, 1846, p.102 (per la sua tomba in San Domenico Maggiore); i siti della diocesi di Trani e quello http://www.genmarenostrum.com, Libro d’oro della Nobiltà Mediterranea, alla voce Brancaccio del Vescovo.

[26] Vedi qui i lavori della studiosa citati a nota 21.

 


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