Fuocoammare: quando la forza della realtà supera il fascino della finzione

di Federico Salvo

 

 

Filmare e montare in modo tale che i contenuti e la loro stessa espressione emergano ‘naturalmente’ da ciò che si è ripreso con assoluta fedeltà, dando così spazio alla verità: era questa, più o meno, l’idea che Dziga Vertov, nei lontani anni Venti del Novecento, proponeva ed esponeva con il suo film-manifesto Kinoglaz. Rispetto a questa idea, divenuta col tempo cardine e principio guida di ogni regista-documentarista, il lavoro di Gianfranco Rosi in Fuocoammare – film-documentario del 2016, premiato nello stesso anno con «l’Orso d’oro per il miglior film» al Festival di Berlino – rappresenta un perfezionamento e un’evoluzione, ponendosi su un piano superiore in cui la realtà e la poesia, che ne è spesso la sublimazione, si incontrano.

Fuocoammare non ha nulla del tipico documentario d’inchiesta ‘mordi-e-fuggi’, basato su tesi e pre-concetti da riordinare ed esplicare poi attraverso interviste, immagini forti e ‘colpi bassi’ vari, in bilico tra pornografia emotiva e compiacimenti estetizzanti. Esso nasce da un incontro, quello tra Rosi e il dottor Bartolo (figura simbolica fondamentale nell’universo dell’opera), e dall’effetto che tale incontro ha avuto sul regista, ma si sviluppa ed evolve nel rispetto e all’insegna di spazio e tempo. Da un lato l’isola, Lampedusa, e il cortocircuito rappresentato dalla volontà di entrare nella quotidianità delle vite di coloro che abitano un luogo ormai per antonomasia ‘in emergenza’; e dall’altro lato il tempo, sacro e fondamentale per comprendere e creare. Rosi è rimasto un anno intero a Lampedusa, ha colto ed assimilato con pazienza i ritmi lenti di quel microcosmo, ed è così che la sua opera è stata creata mentre la si girava, quasi per partenogenesi.

Fuocoammare è come se si fosse ‘autofecondato’: l’onestà dello ‘sguardo’ del regista fa sì che la realtà si imponga con una forza che supera ogni pensiero o astrazione, lasciando che il tempo del film coincida con quello delle persone-personaggi che ne fanno parte. Il film scorre infatti attraverso le vite degli isolani, il centro d’accoglienza, i salvataggi in mare: sono tre livelli narrativi, tre storie che non si incontrano mai e che tuttavia s’intrecciano in nome del pathos, dell’amore e della compassione. Vi è Samuele con la sua passione per la fionda, il suo occhio pigro e tutta la difficoltà nel confrontarsi col mare e con un’isola fatta di e per pescatori; v’è la zia Maria e il suo amore silenzioso verso il marito; vi sono i migranti, i sopravvissuti, con il loro canto tra il rap e il gospel, nel quale convivono e si confondono gioia e dolore, rabbia e orgoglio, tristezza e forza, storia e cronaca; v’è il Dottor Bartolo, che nonostante i tanti anni di professione e i troppi cadaveri visti, non ha lasciato che tutto ciò si trasformasse in una macabra routine, riuscendo a conservare il sentimento della tragedia e una pietas che nasce ed esiste grazie al senso del dovere di soccorso e d’accoglienza. I personaggi, gli incontri, le situazioni che, in modo apparentemente casuale, si susseguono e si alternano lungo il film, se in un primo momento sembrano simboli ermetici, man mano si rivelano sempre più quali metafore ‘fatali’ formanti un’unica allegoria della contrapposizione tra impotenza e possibilità di agire, guardare, leggere e capire con lucidità e profondità quello che assomiglia sempre più ad un nuovo terribile olocausto.

Come un romanzo, l’opera di Rosi »perseguita la realtà fino ne’ suoi verecondi latiboli»; il suo è un ritmo lento, nel quale si nasconde un crescendo che arriva al momento della collisione, laddove vita e morte si incontrano e si sfiorano, ma con un prima e soprattutto con un dopo che permette una catarsi che non è oblio, bensì un invito e forse un’occasione. E anche se il mare inesorabilmente si tinge di rosso come il fuoco, tra suoni e immagini continua a scorrere una pietà immanente, né gridata né ostentata, bensì frutto dello scarto tra l’assenza della parola autoriale e la forza di una realtà che supera il fascino di qualsiasi finzione e che riporta alla mente il desanctisiano «Sunt lacrimae rerum».

 


Tags

GIANFRANCO ROSI , DOCUMENTARIO , ISOLA , MIGRAZIONE


Categoria

Arte e spettacolo

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