Quanto è vulnerabile il nostro mondo? La crisi ecologica ed una lenta speranza per l’umanità
 

di Christof Mauch

(Rachel Carson Center for Environment and Society) 
Traduzione di Claudio de Majo
 

 

Domani sarà troppo tardi, poiché il mondo così come lo conosciamo non esisterà più. I semafori smetteranno di funzionare, causando incidenti stradali. I passeggeri notturni sugli aeroplani guarderanno la terra sotto di loro annerirsi improvvisamente. Il cibo marcirà poiché i frigoriferi andranno in tilt ed i pazienti degli ospedali cominceranno a morire perché le loro macchine salvavita smetteranno di funzionare. Ci saranno blackout totali a Roma, Zurigo, in tutt’Europa e nel resto del mondo.

Questo è lo scenario delineato dallo scrittore austriaco Marc Elsberg nel suo thriller Blackout: Morgen ist es zu spät (‘domani sarà troppo tardi’).[1] Il romanzo, in oltre 600 pagine, descrive il collasso delle reti energetiche europee, in seguito ad un attacco di un gruppo di hacker, conferendo ad Elsberg, autore quasi sconosciuto, una fama immediata. Il libro è apparso tra i titoli consigliati dallo SPIEGEL, la principale lista di bestseller tedeschi, rimanendo in classifica per mesi; iBooks lo ha classificato uno dei primi dieci must read dell’estate 2013 ed il popolare magazine scientifico Bild der Wissenschaft ha definito il libro di Elsberg la più eccitante opera di fantascienza dell’anno, letteralmente Wissenschaftsbuch des Jahres.[2] 

 

1. L’incubo di Prometeo e la crisi ecologica contemporanea

La storia di Elsberg è inquietante, apocalittica e ci ricorda il vero significato della parola catastrofe: una serie di improvvisi e scioccanti colpi di scena, tipici delle tragedie greche. Blackout attinge dalle inquietudini dei nostri tempi. Ciò lo ha reso un successo immediato in diversi paesi europei ma ancor di più in Giappone, paese colpito da diverse catastrofi negli ultimi anni. Il successo del romanzo è da attribuire al suo messaggio: è una storia sulla vulnerabilità del nostro mondo, una rappresentazione immaginaria certamente non lontana dalla realtà. Non a caso, l’ufficio di valutazione tecnologica del parlamento tedesco aveva avviato una discussione sulle possibilità di uno scenario futuro simile a quello descritto dall’autore proprio nello stesso periodo in cui il romanzo veniva concepito.[3]  Inoltre, i più severi blackout di larga diffusione della storia si sono verificati nel Ventunesimo secolo. Uno di essi, avvenuto in India nel 2012, ha colpito 620 milioni di persone, mentre le perdite finanziarie derivanti dal blackout del 2003 negli Stati Uniti d’America provocarono un danno complessivo di 6 miliardi di dollari.[4] Di fatto, la maggior parte degli oscuri scenari descritti dal libro di Elsberg sono stati dichiarati plausibili da membri della comunità scientifica. In altre parole, Blackout non è che una semplice espressione del disorientamento e delle paure dei nostri tempi, poiché illustra i reali rischi dei fallimenti e dei collassi a catena.

Curiosamente, dall’inizio del nuovo millennio, i negozi di libri e di film si sono riempiti di titoli che mostrano scenari di estrema vulnerabilità e di apocalisse, mentre film come The Day After Tomorrow hanno avuto un successo istantaneo in tutto il mondo. Tutte queste storie contengono lo stesso messaggio: è da ingenui pensare che il mondo sia un posto sicuro; ci mostrano la negligenza ed il nostro falso senso di sicurezza. Sono storie di vulnerabilità e di disastri che abbiamo attirato su di noi e da cui non possiamo più nasconderci.

Da dove deriva la nostra attrazione culturale per queste storie?

Da dove vengono le nostre paure?

Quanto è vulnerabile il nostro mondo?

Possono esistere società e modi di pensare sostenibili?

Può un modo di pensare sostenibile affrontare queste vulnerabilità ed aiutarci ad evitare le catastrofi?

Prometeo, il titano che rubò il fuoco dagli dei per donarlo agli uomini, rappresenta perfettamente questo dilemma dell’umanità: come punizione per averlo rubato, egli dovette soffrire la tortura di un’aquila che gli strappava il fegato dal suo corpo immortale giorno dopo giorno. La storia di Prometeo ci ricorda che una scoperta positiva come quella del fuoco, con tutti gli avanzamenti tecnologici da esso apportati, ha avuto anche lati negativi per gli esseri umani. La sua è il massimo esempio di storia di rischio e vulnerabilità.
Il mito di Prometeo ha origini antichissime. Ciò suggerisce che ci sia qualcosa di universale, forse di carattere biologico, o addirittura antropologico, riguardo all’impulso umano verso l’osare ed il rischiare. Pertanto, prima di guardare al contesto culturale vorrei chiedermi come gli scienziati della natura spiegherebbero la sindrome di Prometeo.

Nel 2007 Wolfgang Haber, importante scienziato e decano di ecologia tedesca, si rivolse ad un pubblico internazionale in occasione dell’EcoSummit di Pechino, una conferenza dedicata al tema della “Complessità e Sostenibilità Ecologica”. In quest’occasione, Haber sostenne che le lezioni (più tardi da lui definite come “scomode verità”)[5] dell’ecologia «dimostrano che l’evoluzione umana in circa 1.5 milioni di anni ha seguito un corso sbagliato e persino fatale».[6] Come tutti gli esseri biologici, gli uomini seguono i propri istinti di sopravvivenza e sono guidati dalla «competizione, il principio generale ed organizzatore della vita sulla terra». Ciò gli ha consentito di espandersi e moltiplicarsi, creando le condizioni per una vita confortevole, ma ha anche fatto sì che si commettessero «errori di evoluzione» che ci hanno resi estremamente vulnerabili, attirandoci in situazioni che Haber ha definito come «trappole ecologiche».[7] 

Nel corso della sua carriera, Haber ha discusso diverse trappole ecologiche ed è su tre fra queste che mi soffermerò: la trappola energetica, la trappola alimentare e la trappola industriale – tutte in stretta relazione con il fuoco e con il controllo umano sullo stesso.
Quando gli esseri umani hanno iniziarono la grande migrazione dall’Africa attraverso il globo, la cosa più importante che portarono con sé fu il fuoco. Il fuoco consentiva ai nostri antenati di centinaia di migliaia di anni fa di spostarsi in zone più fredde, fuori dai tropici. Inoltre, esso spaventava gli animali selvatici, allontanando gli uomini dagli alberi. Utilizzando il fuoco per cucinare, siamo stati in grado di nutrirci con cibi alternativi a piante e foglie (insalate, se vogliamo, condite da insetti). Il fuoco ci ha aiutati a disintossicare i cibi e ad annientare i batteri, facendoci diventare cuochi. Il fuoco e la cucina ci hanno resi umani più di qualsiasi altra cosa, persino più del linguaggio. Di fatto, la nostra specie può essere definita come «cucchivora».[8]
Nel corso del tempo abbiamo sviluppato una crescente affinità con il legno come materiale di costruzione e specialmente come fonte di energia fino alla sua sostituzione, in epoca industriale, con altri materiali da costruzione e con le energie fossili. Nel complesso, il fuoco ci ha aiutato a migliorare il nostro stile di vita. Tuttavia, dopo aver scoperto che incendiare le piante lignee avrebbe generato carburante, abbiamo creato una dipendenza irreversibile da una particolare risorsa naturale. È stato questo il primo passo verso la trappola energetica. Ancora oggi, più di tre miliardi di persone utilizzano la combustione all’aperto per cucinare e riscaldarsi e più di quattro milioni di persone muoiono ogni anno per malattie attribuibili all’inquinamento domestico che ne deriva.[9] Siamo sempre più invischiati nella trappola energetica ad ogni passo: torba, carbone e petrolio. Ciascuno di essi, sebbene ci abbia portato maggiori confort, progresso e mobilità, ha causato problemi ambientali sempre più seri.

In secondo luogo la trappola del cibo. Come per la scoperta e per l’uso del fuoco, anche la transizione all’agricoltura ha consentito agli esseri umani di assicurarsi la sopravvivenza, producendo un costante aumento della popolazione. Il tasso di fertilità è stato considerevolmente maggiore per le società agricole che per i cacciatori raccoglitori, mentre gli infanticidi e le carestie sono diminuiti. Sempre più persone sono riuscite a vivere su minori porzioni di terra, ma la riduzione della natura incontaminata e la sua conversione all’agricoltura ha provocato nuove catene e dipendenze. Invece di diversificare la nostra dieta con un numero variabile di piante ed animali, siamo diventati dipendenti da un ristretto numero di specie di colture e bestiame. La perdita di biodiversità, iniziata durante la rivoluzione agricola del neolitico, quando gli esseri umani hanno cominciato per la prima volta ad addomesticare gli animali e a coltivare, ha raggiunto livelli altissimi. Con l’aumento demografico e la tendenza alla coltivazione di varietà ad elevato rendimento, la biodiversità di piante e bestiame è andata irreversibilmente perduta ad una velocità persino maggiore. Le monocolture intensive implicano anche l’uso di erbicidi e pesticidi, che distruggono la maggior parte degli organismi animali e vegetali degli ecosistemi agricoli. Delle oltre un quarto di milione di piante commestibili conosciute, gli uomini ne usano oggi meno di 200, mentre più del 75% del cibo del mondo proviene da appena dodici specie vegetali e cinque animali.[10] La maggior parte delle coltivazioni da cui dipendiamo – caffè e mais, tabacco e tè, riso e grano, olio di palma e soia – contribuiscono all’erosione dei suoli. L’uso di grossi macchinari e pesticidi in epoca moderna ha messo in pericolo, o distrutto, la maggior parte della fragile crosta di terra da cui l’intera vita si sviluppa. Di fatto, la metà del terriccio del nostro pianeta, già di per sé un ecosistema vulnerabile a supporto di numerose specie, è scomparso negli ultimi 150 anni. «Non conosciamo più la terra da cui proveniamo», affermava l’ecologista, scrittore ed agricoltore Wendell Berry già diverse decine di anni fa.[11]   

Una terza trappola ecologica è quella generata dall’industrializzazione e la transizione al carbone, intorno all’inizio del Diciottesimo secolo. L’abilità di estrarre il carbone e successivamente il petrolio ed il gas su larga scala, assieme allo sviluppo del motore a scoppio e della rete elettrica, hanno reso gli habitat umani più vivibili, creato enorme benessere (per alcuni) e spronato lo sviluppo di nuovi metodi, ad alto impiego di capitale, di mietitura, estrazione e produzione. Tutto ciò è stato accompagnato da un’espansione su larga scala, spesso di carattere imperialista: gli europei, colonizzatori ed invasori, si sono espansi in quasi ogni parte del mondo, con l’illustre eccezione di Cina e Giappone. «Ad ogni modo, nel discorso ecologico di oggi», sostiene Wolfgang Haber, «spesso discutiamo le dannose conseguenze delle specie aliene, invasori che minacciano quelle native. E tuttavia, non ho mai sentito nessuno prendere in considerazione la sottospecie umana degli europei come esempio di invasore dannoso».[12] La disponibilità di energie non rinnovabili è stata una delle precondizioni di questa espansione e dell’introduzione di tecnologie – dalle automobili ai droni – che hanno attirato gli esseri umani in una enorme trappola ecologica, dalle implicazioni e dagli effetti ben tangibili oggigiorno. Essi includono l’alterazione dei paesaggi, l’inquinamento dell’aria, la produzione di enormi quantità di rifiuti ed i cambiamenti climatici.

In ciascuna transizione, dai cacciatori raccoglitori agli agricoltori, dalle economie agrarie a quelle industriali, la popolazione umana ha continuato ad aumentare sempre più rapidamente. Con la transizione industriale e l’apparentemente infinita disponibilità di energia a basso costo, la nostra popolazione è cresciuta da un miliardo circa nel 1800 a due miliardi nel 1930, quattro miliardi nel 1975, fino a circa sette miliardi oggi. La caccia aveva da tanto tempo contribuito all’estinzione di numerose specie di vertebrati, i contadini ed i fattori avevano cominciato il processo di messa a coltura di numerosi habitat naturali incontaminati, trasformandoli in pascoli per bestiame; e tuttavia gli sviluppi dell’industrializzazione sono stati ben più drammatici. Gli ultimi due secoli hanno visto una trasformazione senza precedenti di intere regioni del pianeta. Più del 50% della superficie terrestre è stata modificata dagli esseri umani;[13] soltanto il 45.6% – e questo include le regioni artiche, i deserti e le grandi catene montuose – non è stato sviluppato.[14] Secondo Vavlav Smil, scienziato ambientale canadese, soltanto il 5% circa dei grossi vertebrati terrestri sul nostro pianeta è costituito da animali selvatici come leoni, zebre e rinoceronti. Il resto è costituito da creature allevate e fecondate da uomini – capre e pecore, maiali e mucche – ed ovviamente noi, l’homo sapiens, che costituisce un terzo delle biomasse terrestri.[15] La crescita delle popolazioni umane è stato il più devastante tra i fenomeni per i nostri simili terrestri, ovvero le numerose specie animali legate ad altrettanti habitat naturali. L’ascesa della popolazione umana e la perdita della biodiversità globale sono inestricabilmente collegate tra loro. Se rappresentate graficamente, esse formano curve che prima aumentavano lentamente e che sono diventate progressivamente scoscesi picchi negli ultimi decenni. Alcuni studiosi, in particolare la celebre Elizabeth Kolbert nel suo libro sulla Sesta Estinzione, predicono l’estinzione di più del 50% della totalità delle specie terrestri entro la fine del secolo.[16]

In più, il mondo attorno a noi sta diventando sempre più artificiale. Ciò è certamente vero per gli animali creati geneticamente per produrre cibo e svolgere altre funzioni specifiche, dalle mucche turbo al pesce d’allevamento (la maggior parte di essi pieni di antibiotici), dai batteri alle larve degli insetti. Ciò è  vero anche nel caso delle sostanze sintetiche e spesso tossiche che utilizziamo per spruzzare e fertilizzare la maggior parte delle terre adibite all’agricoltura. La plastica, nella maggior parte dei casi prodotta con polimeri sintetici, sta adesso apparendo sia nei depositi sedimentari marini che in quelli terrestri, creando un’eredità duratura sulla superficie terrestre. Se mettessimo insieme tutte le buste di plastica che usiamo quotidianamente, esse formerebbero una linea lunga abbastanza da circondare 14 volte l’equatore.[17] Senza considerare che gli habitat da noi costruiti in metallo e cemento, i veicoli che ci trasportano attraverso il pianeta, le reti elettriche che alimentano le nostre vite, i satelliti, i cellulari ed i computer attorno ai quali ruotano le nostre attività quotidiane, richiedono una crescente quantità di pericolosi metalli pesanti per alimentare batterie e sistemi elettronici. Il mondo sintetico ci rende vulnerabili: dipendiamo da questi materiali, che allo stesso tempo danneggiano l’ambiente in cui viviamo.
La consapevolezza del forte impatto umano sull’ambiente è una delle ragioni per cui diversi studiosi, in particolare il chimico e vincitore nel premio Nobel Paul Crutzen, hanno richiesto la designazione di una nuova epoca nella storia del pianeta, la nostra epoca, “l’età degli umani”, o “Antropocene”.[18] Questo termine – non una parola particolarmente bella – contiene la supposizione che le recenti attività umane abbiano danneggiato la crosta terrestre in maniera molto più significativa rispetto alle eruzioni vulcaniche, gli tsunami ed i terremoti.

L’Antropocene è un’invenzione recente. La cosa più intrigante di questo concetto è il livello di attualità che ha guadagnato in poco tempo, in ambito culturale, politico ed in qualsiasi disciplina e sotto-disciplina accademica. Il fascino di questo termine ritengo sia espressione delle nostre paure.
È importante comprendere che ciò di cui abbiamo paura oggi è molto diverso da ciò che ci spaventava nei tempi passati. Non siamo più spaventati dalle montagne selvagge, dalle correnti marine o dagli attacchi di animali feroci, poiché abbiamo “addomesticato” i nostri ambienti naturali ed estinto gli animali selvatici, o li abbiamo confinati in piccoli spazi. Le nostre paure di oggi – proprio come quelle espresse nello scenario di Blackout – sono diverse. Nel progettare, sfruttare e trasformare il nostro habitat abbiamo scoperchiato decine di migliaia di vasi di Pandora e siamo adesso spaventati dalla rottura delle reti elettroniche, dalla fine delle risorse non rinnovabili, dall’avanzare dei deserti, dalla perdita delle isole e dall’inquinamento di aria ed acqua.

Queste paure sono il risultato del nostro potere. Ci spaventa che qualsiasi cosa facciamo per migliorare la nostra condizione possa anche intrappolarci. Ci spaventa, sebbene paradossalmente, sia il nostro potere che la nostra impotenza di fronte a tale potere. Nessun’altra creatura su questa terra ha avuto più successo nella competizione per l’habitat e le risorse degli esseri umani, benché stiamo adesso iniziando a realizzare il prezzo del nostro successo: la nostra vulnerabilità o, per dirla alla Prometeo, la continua sofferenza.
Le nostre paure sono specchio del fatto che abbiamo radicalmente cambiato il mondo attorno a noi e che nuovi abissi – o trappole ecologiche – si spalancano dove speravamo potessimo raggiungere più sicurezza personale e alimentare,  nonché condizioni più agiate. Siamo esseri biologici e come altri animali, specialmente i grandi mammiferi, agiamo seguendo i nostri istinti. Tuttavia abbiamo anche capacità intellettuali ed emotive che utilizziamo nella nostra lotta per la sopravvivenza e per il nostro benessere sulla terra. Di conseguenza, facciamo uno sforzo cosciente nel respingere le implicazioni negative delle nostre azioni. Alle volte seppelliamo la testa sotto la sabbia, fingendo che vada tutto bene. Altre volte siamo spinti dall’altruismo e ci sforziamo di mitigare il danno che abbiamo causato ai nostri ecosistemi. Ma spesso semplicemente respingiamo l’evidenza dei fatti ed esportiamo i problemi da noi creati, come nel caso degli scarti tossici. “Noi” in questo caso significa coloro che compongono il cosiddetto mondo occidentale, o global north, nelle condizioni di decidere cosa fare con i nostri rifiuti. Gli scarti elettronici, per esempio, possono viaggiare per mezzo mondo verso città dell’Africa e dell’Asia, dove vengono processati in modo da recuperarne i materiali di valore, con effetti devastanti per la salute di coloro che li lavorano. Che dire della qualità dell’aria a Pechino? La Cina è il principale emissore al mondo di inquinanti dell’aria antropogenici, ma la maggior parte di essi è collegata alla produzione per il mercato internazionale, e più del 20% dell’aria inquinata in Cina può essere attribuita a prodotti che sono esportati dal paese verso gli Stati Uniti.[19]

 Esportando i rischi stiamo coprendo l’abisso, o la trappola ecologica, da noi creata, scacciando indietro la causa delle nostre principali paure: il pericolo della nostra estinzione. Dopotutto, secondo ritrovamenti fossili, il 98% delle specie che sono esistite sul pianeta sono già estinte. E noi, soli tra tutte le creature, siamo nella condizione di riflettere sulla possibile estinzione della nostra stessa specie.[20]

 

2. Immaginando una società migliore: una lenta speranza per l’umanità

È possibile dunque creare società e modi di pensare sostenibili? Può un modo di pensare sostenibile rispondere alle nostre paure e alle nostre vulnerabilità, aiutandoci ad evitare catastrofi? Di società sostenibili in senso stretto non ne sono mai esistite, anche se alcune di esse sembra siano riuscite a soddisfare in maniera sostenibile le loro necessità basilari per molte generazioni, riuscendo a proteggersi da catastrofi naturali ed innaturali, pur mantenendo un costante flusso di materiali, cibo, energia e risorse naturali.
Il mio principale, sebbene molto arcaico, esempio di società sostenibile è quello degli Hohokam, una cultura indigena pre-colombiana proveniente dai territori che oggi costituiscono l’Arizona. La cultura Hohokam resistette  a lungo di scomparire. Gli Hohokam vivevano in condizioni estreme  in una bassa regione desertica soggetta a disastri, come inondazioni e siccità: scarse precipitazioni per la maggior parte dell’anno ed un alto rischio di inondazioni fatali durante la stagione delle piogge. Nel corso dei secoli, gli Hohokam svilupparono un sistema di irrigazione complesso, alimentato dalla canalizzazione dei fiumi; furono anche in grado di aumentare la proporzione di argilla nei suoli, trattenendo più acqua e rendendo il suolo più fertile.[21] Gli Hohokam, come ci spiegano gli archeologi, svilupparono una società aperta ed una florida cultura, dilettandosi in attività ludiche varie, come giochi con la palla, danze e commercio di ceramiche. Nel corso del tempo divennero più specializzati: il loro benessere e la popolazione aumentarono regolarmente, insieme alle proprietà private. Alla fine, ci riferiscono gli studiosi, fu il successo dell’economia d’irrigazione su larga scala che contribuì al rapido collasso della cultura Hohokam nel Quindicesimo secolo. Piccole inondazioni locali sarebbero state assorbite dal sistema senza difficoltà; il vero problema fu l’aumento della vulnerabilità di fronte a minacce ambientali più grandi, come siccità regionali, grosse inondazioni e cambiamenti climatici, che si verificavano per più lunghi periodi di tempo ed in aree più grandi. In altre parole: la vulnerabilità non fu eliminata dall’espansione del sistema, ma fu trasformata da un rischio di piccola scala ad uno di larga scala. Anche se è difficile estrapolare degli esempi dal passato lontano della nostra società, la storia degli Hohokam ci fornisce numerose lezioni: in primo luogo, possiamo presumere che gli Hohokam siano stati in grado di sostenere la loro cultura per un lungo tempo, poiché erano a conoscenza delle proprie vulnerabilità e delle potenziali minacce ambientali, come inondazioni, siccità e scarse risorse acquatiche. La sostenibilità sembrerebbe essere stata favorita da un alto livello di consapevolezza ambientale e da uno stato di allerta. In secondo luogo, l’espansione, indicatore di successo economico, aumentò la vulnerabilità all’ambiente della cultura Hohokam. Non vi sono prove, né nell’esempio degli Hohokam né in altri casi storici, a sostegno dell’idea che qualcosa possa essere “troppo grande per fallire”.[22] Al contrario, la dimensione del sistema è stata una delle principali ragioni dell’estinzione della cultura degli Hohokam. Non sappiamo se parti della cultura Hohokam siano state distrutte da inondazioni o o da un periodo di maggior siccità. Si può dedurre tuttavia che l’adattamento a condizioni estreme, come il clima e l’aumentata densità di popolazione, sia stata la loro principale sfida di lungo termine. Vi sono prove che gli Hohokam subirono una fine improvvisa, se non catastrofica, mentre forse avrebbero potuto migrare in altre aree del nord America. È questa la terza lezione che ci viene data dalla storia: è di cruciale importanza non mettere tutte le uova in uno cesto. Avere alternative ed essere sicuri di avere un altro posto dove andare nel caso di un collasso sistemico può essere una delle più importanti strategie per un’esistenza umana sostenibile. Non ci vuole molta immaginazione per vedere parallelismi tra la storia degli Hohokam ed il romanzo di Elsberg sul fallimento delle reti energetiche.

Vi sono altri, più recenti, esempi di comunità sostenibili che ci aiutano a comprendere l’organizzazione sociale e le attitudini ambientali. L’economista Elinor Ostrom ha dimostrato che i villaggi e le collettività in Svizzera, Giappone, Spagna e nelle Filippine sono stati in grado di sostenersi in condizioni difficili e per molti secoli. Ciò che queste comunità condividevano erano complesse regole per l’uso e la gestione di terre comuni e risorse. Esse erano generate dalle necessità della comunità e stabilite per assicurarsi che tutti potessero beneficiarne, motivando tutti i membri a supportarsi vicendevolmente. L’inosservanza di queste regole era normalmente punita severamente. Ostrom ha dimostrato che la pianificazione dal basso e la condivisione delle risorse comuni – che implica il rifiuto della gestione privata da una parte e di quella statale dall’altra – erano i fattori chiave che rendevano efficienti queste comunità. Nella nostra età globalizzata, tuttavia, alcune di queste comunità che si erano autosostentate nei secoli e che vivevano in stato di splendido isolamento hanno recentemente iniziato a sgretolarsi.[23]

Imparare dalla storia non significa necessariamente aggrapparsi a tutto ciò che abbiamo stabilito, né tantomeno aspirare a puntare all’indietro le lancette dell’orologio, riproducendo società passate. Cionondimeno, la storia delle collettività intorno al mondo può darci delle lezioni, fornendoci addirittura un orientamento storico per proiettarci in avanti. Possiamo imparare che la sostenibilità ambientale nei paesi studiati da Ostrom è apparentemente basata su una comprensione profonda della fragilità delle relazioni di una società con l’ambiente. L’abisso, ovvero l’imminenza di una potenziale catastrofe, come il rischio di esaurire le risorse, aleggia come uno spettro per gli abitanti dei villaggi alpini, o delle antiche huertas spagnole; non è un concetto astratto. Essi comprendono l’ecologia e l’interdipendenza tra la società ed i sistemi naturali. Ne risulta un sistema produttivo imparziale; questi sistemi sono autosufficienti, non apportando né vantaggi né svantaggi per altre persone e luoghi, e sono basati sul riconoscimento e sull’accettazione delle responsabilità per un futuro condiviso. Poche sono le comunità collettive come quelle studiate da Ostrom presenti oggigiorno sul nostro pianeta. In un mondo globalizzato e capitalista, le collettività sono sempre in pericolo di essere sfruttate dagli opportunisti, alla ricerca di risorse comuni di cui appropriarsi per guadagno privato. Tuttavia, i principi delle risorse comuni possono servirci da guida, se applicati nell’ambito di sistemi più ampi.
Sono sostenibili soltanto le culture in grado di percepire i propri limiti? E si disgregano quando non riescono a vederle e rispettarle? Certamente, le ideologie che oscurano i limiti ed apprezzano le illusioni della infinita disponibilità delle risorse naturali ci accecano rispetto alle vulnerabilità ambientali. Nel suo libro più recente, Shrinking the Earth: The Rise and Decline of American Aboundance,[24] Donald Worster contesta l’idea degli Stati Uniti come “terra dalle possibilità illimitate”, che segnò il sogno americano, e l’idea di uno stile di vita basato sull’abbondanza delle risorse e sulla felicità del benessere. Oggi, a posteriori, riusciamo a guardare le ideologie di crescita ed abbondanza non soltanto come una benedizione, ma anche come una maledizione, poiché ci hanno aiutato a sviluppare l’idea e la filosofia di un mondo senza limiti, alimentando grandi sogni insostenibili, che si sono diffusi dal nuovo al vecchio mondo e successivamente in tutte le direzioni, dalla Corea all’Australia, dal Brasile alla Cina. Le idee di progresso illimitato coprono il fatto che un giorno il pianeta potrà non essere in grado di produrre sufficiente nutrimento ed energia per la popolazione umana. Queste idee hanno anche conseguenze involontarie: ad esempio, la “transizione dell’alimentazione” da diete ad alto contenuto di cereali e vegetali, a cibi spesso processati ad alto contenuto di grassi e zuccheri, è associata a cambiamenti economici e demografici, come maggiore prosperità e minore mortalità. Tuttavia, essa genera l’aumento di malattie croniche, legate proprio alla dieta.

Poche sono state le persone durante il Diciannovesimo secolo ad aver predetto dove ci avrebbero portato le trappole dell’ideologia dell’abbondanza combinata ad un’enorme crescita industriale. Una di esse fu Eugène Huzar, che ne predisse le conseguenze fin dal 1857:

 

Mentre l’uomo diventa più coinvolto nell’industria, utilizzando sempre più carbone, è possibile prevedere che in uno o due secoli, attraversato da rotaie e navi a vapore e ricoperto di fabbriche ed officine, il mondo emetterà milioni di metri cubici di acido carbonico e di ossido di carbonio, e, poiché le foreste saranno state distrutte, questi centinaia di milioni di acido carbonico e di ossido di carbonio intaccheranno l’armonia del mondo.[25]

 

La voce di Huzar rimase isolata e fu sicuramente considerata pessimistica ed ingenua dai suoi contemporanei. Dopo tutte le promesse che avevano accompagnato gli avanzamenti tecnologici e la vasta disponibilità di nuove risorse energetiche, a partire dal Diciottesimo secolo, la velocità con la quale il mondo si è trasformato non ha infatti avuto confronti nella storia. La prima grande accelerazione, alimentata dai motori a vapore, dalle rotaie e successivamente dall’elettricità, è stata enorme ed è continuata ad un ritmo sbalorditivo, ancor di più dopo la Seconda Guerra mondiale, con lo sviluppo dell’energia nucleare. L’aumento del ritmo demografico, l’investimento di capitale, il consumo energetico e le telecomunicazioni hanno avuto un impatto immediato sull’ecosistema terrestre, con emissioni di gas serra, acidificazione degli oceani, degrado dei suoli, sfruttamento eccessivo della pesca e chi più ne ha più ne metta. Oggi conosciamo la connessione tra la crescita repentina dell’iniziativa umana – produzione e consumo – e il rapido degrado della biosfera.[26] Sappiamo anche che l’accelerazione tecnologica, ovvero «il veloce movimento di esseri umani, merci, messaggi e […] proiettili militari attraverso la terra» e «la rivoluzione della velocità di produzione» che «continua con la rivoluzione digitale», ha raggiunto livelli estremi.[27] «La velocità nel processare informazioni» è aumentata di più del cento per cento durante il Ventesimo secolo; «la ferrovia è considerata oggigiorno un lento e pacifico mezzo di trasporto», come indicato da Hartmut Rosa «mentre durante il Diciottesimo secolo sembrava incredibilmente veloce e dannoso alla salute umana». «Certe forme di musica jazz» che una volta «erano vissute come ansimanti, frenetiche, eccessivamente veloci e meccaniche» sono oggi «pubblicizzate come ‘musiche per ore tranquille’ o ‘jazz per un pomeriggio tranquillo’». L’accelerazione tecnologica è stata veicolo non soltanto di un rapido degrado ecologico, ma anche di un’accelerazione della società e della vita quotidiana, con la moltiplicazione delle attività, l’ascesa del multitasking e la perdita del tempo libero.[28]

La storia non è molto cambiata, sembrerebbe. Guardando all’indietro con una prospettiva di lungo termine, fino al primo incontro con il fuoco degli ominidi, sembriamo continuare a cedere all’illusione della stabilità, la finzione di terreno sicuro che troppo spesso si rivela essere sabbie mobili. Non molto è cambiato, semmai il mondo attorno a noi è diventato troppo fragile negli ultimi decenni e le minacce ambientali si sono espanse oltre le barriere regionali, raggiungendo una portata globale, moltiplicandosi ad un ritmo vertiginoso. Ciò che le rende tanto terrificanti e diverse dal passato è che oggigiorno non abbiamo nessun posto in cui trovare rifugio.
Può un modo di pensare sostenibile attecchire in un mondo-carosello che si muove in «cerchi di accelerazione»[29] sempre più veloci?  Esistono isole di speranza in un fiume di sviluppi che disturbano e distruggono i flussi naturali? Vi sono ragioni per ritenere che queste isole possano svilupparsi e diventare qualcosa di più significativo?

Sia il concetto di ‘Antropocene’ che quello di sostenibilità sono tanto validi quanto problematici nel comunicarci in che posizione ci troviamo oggi e dove ci stiamo dirigendo. Il concetto di Antropocene guarda all’indietro nella storia, prendendo sul serio l’idea della distruttività umana, ma non è molto utile come guida per il futuro. La sostenibilità, dall’altro lato, tende ad avere la memoria corta, pur guardando in avanti. Questo perché sostenibilità è un termine profondamente conservativo, dato che suggerisce che possiamo stabilizzare o bilanciare uno stato esistente,  proiettarlo e portarlo avanti nel futuro, come quando ad esempio stabiliamo dei limiti per le emissioni future o per i livelli di temperatura. Esso è tuttavia meno d’aiuto nel suggerire nuove soluzioni per un futuro differente.
Ovviamente abbiamo bisogno di affrontare, discutere e narrare le enormi, convergenti crisi e i pericoli causati dall’interazione tra il dinamismo della natura e la manipolazione umana. Abbiamo anche la necessità di rendere manifesti i parametri legati alla nostra percezione e al nostro uso della natura e di comprendere e spiegare ciò che stiamo perdendo. Ma abbiamo anche bisogno di contro-narrazioni per il futuro, che vadano aldilà della rovina e della malinconia, in poche parole di speranza. Ritengo che gli storici dell’ambiente siano in grado di produrre simili narrazioni.

Prometeo, il Titano che donò il fuoco agli uomini, l’icona del coraggio e della vulnerabilità, dovette soffrire tremendamente per molti anni prima di essere salvato da Ercole, che si manifestò uccidendo l’aquila che lo stava torturando. La storia di Prometeo è d’aiuto poiché combina la volontà di osare con la perdita delle speranze. Alcune delle odierne narrazioni scientifiche sul futuro sembrano suggerire che anche noi saremo salvati da un nuovo Ercole, un ingegnere divino, qualcuno che possa intervenire, manovrare e manipolare il nostro pianeta, attraverso la geo-ingegneria, ad esempio, o la fusione fredda, o le navicelle spaziali più veloci della luce, trascendendo una volta per tutte i limiti della terra, le temperature in rialzo, le crisi energetiche, la scarsità alimentare, la mancanza di spazio, le montagne di spazzatura, l’inquinamento dell’acqua e tutto il resto.
Se siamo alla ricerca di un altro Ercole, o di un altro simile miracolo, come una nuova fonte di energia dalla potenza rivoluzionaria, stiamo guardando nella direzione errata. Il fatto che siamo oggi in grado di immaginare il nostro pianeta per intero non significa che la sua “salvezza” sarà il risultato di un sommo miracolo di larga scala. Se la storia è una valida guida possiamo desumere che qualsiasi grande trasformazione sarà nuovamente seguita da un enorme insieme di conseguenze involontarie. Blackout, sebbene opera di fantasia, ci ricorda che i sistemi di massa sono esposti a pericoli di larga scala. Non dobbiamo dimenticare che il nostro pianeta è unico non solo nella sua interezza ma anche nei suoi molteplici ed estremamente diversi habitat. Abbiamo bisogno di storie individuali di speranza e non di storie di salvezze inaspettate da parte di un eroe sovrumano. Dopotutto, le storie di Ercole non si collegano alle nostre esperienze e non ci rendono più forti come individui.

Invece di una grande narrazione erculea, ci servono molteplici storie. Ci servono sogni, ma non un altro sogno americano che prometta abbondanza illimitata. I sogni futuri potranno anche includere l’idea di nuove frontiere ma dovranno essere improntati al riuso più che all’uso, al restauro più che all’estrazione. Abbiamo bisogno di storie, non soltanto sulla “lenta violenza” del degrado ambientale, ma anche su quella che definisco la “lenta speranza” (slow hope). Rob Nixon ci ha mostrato che le perdite di petrolio, gli scarti tossici ed i cambiamenti climatici hanno causato violenza in tutto il mondo, definendo questo fenomeno “violenza lenta”, poiché spesso invisibile e dal lento e graduale sviluppo. Nixon sostiene che dovremmo essere più attenti all’effetto dannoso che i cambiamenti climatici hanno sulle persone vulnerabili, povere e prive di potere.[30] L’analisi di Nixon è forte e profonda e ci aiuta a comprendere l’insidiosa natura della violenza. Ma abbiamo anche bisogno di storie che possano mostrarci percorsi e sentieri in grado di condurci fuori da queste crisi. Abbiamo bisogno di storie che ci mostrino da dove veniamo (cosa che gli storici dovrebbero essere bravi a fare); storie uniche e da tutto il mondo: storie come quelle di Tsai Jen-Hui, che ha lavorato come architetto alla National Taipei University of Technology, trasformando negli ultimi quarant’anni la sua università in un’oasi verde.[31] Tsai ha fatto abbattere le mura del campus, sostituendole con un canale che funziona come un fossato ed è alimentato da acqua riciclata dalle piogge. Ha dato all’università un sentiero d’entrata alberato, ha creato eco-tetti ed un balcone ecologico in grado di incorporare specie locali ormai estinte; ha inoltre disegnato un bacino idrico e panorami con pavimenti permeabili, tutte misure pensate per raffreddare il campus e tamponare i cambiamenti climatici. Ciò che mi ha colpito quando ho incontrato lo scorso anno Jen-Hui Tsai nella sua casa sull’albero all’interno del campus, non è stata semplicemente la sua visione incredibile, ma anche il suo rammarico. Ha raccontato gli ostacoli incontrati, le tante occasioni in cui gli amministratori dell’università e gli ufficiali della città hanno respinto le sue idee, abbattendo gli alberi o demolendo alcune strutture, mostrando così di non aver compreso appieno le conquiste realizzate dal suo arrivo a Taipei nel 1981. Di fatto, Tsai ha ridefinito il concetto della sua università come istituzione accademica, integrando funzioni ecologiche al suo disegno, ovvero aumentandone la biodiversità e rafforzando le interconnessioni tra le persone che vivono nel campus e l’ambiente circostante.

La storia autobiografica dal distretto urbano della Ruhr tracciata dallo storico ambientale Franz-Josef Brüggemeier mostra diverse correlazioni con quanto descritto sopra. Brüggemeier afferma che negli anni ’70 era impossibile immaginare che Emscher, un canale di drenaggio nella fortemente industrializzata regione della Ruhr, alimentato da boiacce al carbone, si sarebbe mai potuto ritrasformare in un fiume. Descrivendo la sua reazione ai piani per la rinaturalizzazione del fiume, afferma: «Quando ho sentito per la prima volta parlare di questo progetto, mi è sembrato un sogno visionario, un sogno pazzo ed impossibile. Al contrario, consideravo molto più realistici i progetti che nello stesso periodo parlavano di raggiungere Marte in volo». Oggi l’idea che un ex fiume possa essere riportato «indietro all’interno di un ecosistema, che possa nuovamente ospitare pesci e dove esseri umani possano nuotare in sicurezza sembra alla nostra portata».[32] Mezzo secolo più tardi, riaffiora la speranza.
Qualcosa di simile è avvenuto a Londra, in Inghilterra: all’inizio di dicembre del 1952, la città fu colpita dal cosiddetto Great Smog o Big Smoke, il più grande evento di inquinamento dell’aria nella storia del Regno Unito, che provocò circa dodicimila morti premature. In pochi anni, iniziative pubbliche e campagne politiche condussero a regolamentazioni molto serrate ed a nuove leggi, compreso il Clean Air Act del 1956.[33] Negli ultimi decenni Londra, una città rinomata per i suoi fitti nebbioni, detti pea soupers, ha efficacemente ridotto le sue emissioni di traffico attraverso l’istituzione di una zona a traffico limitato (Congestion Charge Zone), mentre è prevista l’introduzione di una zona a basse emissioni (Ultra Low Emission Zone) entro il 2020. Di nuovo, una lenta speranza. 
Ancor più in là, nel Pacifico occidentale, vicino al Guam e nelle immediate prossimità della parte più profonda degli oceani della terra, nel 2009 è stato istituito per iniziativa presidenziale il Mariana Trench, monumento nazionale americano. Il monumento protegge più di 95.000 miglia quadre di terre sommerse e di acque nell’arcipelago di Mariana. Quando fu proclamato Monumento Nazionale Marino nel 2009, divenne la più vasta area marina protetta. Oggi, con molte nuove iniziative di conservazione degli oceani ed il successo dell’iniziativa #OceanOptimism, che ha raggiunto più di settanta milioni di persone in tutto il mondo, il Monumento Nazionale Marino del Mariana Trench è soltanto la quattordicesima più vasta area di conservazione marina del paese.[34] In altre parole: tredici delle più larghe aree di conservazione sono state stabilite negli ultimi sette anni. Una lenta speranza. Allo stesso modo, i ricercatori hanno recentemente scoperto che le popolazioni di polpi che si pensava fossero scomparse completamente si sono riprese velocemente in regioni e paesi che hanno risposto allo sfruttamento intensivo della pesca, stabilendo riserve che gli consentissero di riprodursi a proprio piacimento.

Nei primi anni ’80, alcuni ingegneri del nord della Germania iniziarono a progettare un prototipo di turbina a vento chiamata “GROWIAN” (GROße WIndANlage, ovvero Grande Turbina a Vento), formata da eliche lunghe cento metri di diametro. Fin dall’inizio il progetto era stato criticato dai giornalisti e dagli ingegneri industriali, poiché richiedeva riparazioni costanti ed alcune modifiche. In pochi mesi il progetto fu etichettato come fallimento e dopo quattro anni fu sospeso, molti chiesero che ci si soffermasse maggiormente sulle risorse energetiche convenzionali invece di investire su progetti di energia a vento. Coloro che lo dirigevano non si resero conto del grande potenziale della macchina. Ci voleva pazienza, una lenta speranza, prima che fosse finalmente riconosciuto il potenziale di fonti di energia alternativa ai combustibili fossili. Nel 2015 l’energia eolica ha generato circa il 13% del fabbisogno energetico totale della Germania.[35]
 

Nel 1974, Christopher D. Stone, autorità nel campo della legge ambientale, pubblicò un libro intitolato Should Trees Have Standing?[36] Stone difendeva l’idea dei diritti della natura, spiegando che in qualsiasi epoca storica, quando le persone avevano richiesto pieni diritti per coloro che ne erano privi erano state considerate ridicole, radicali e minacciose. Perché ci è voluto così tanto per le donne, gli schiavi, i bambini e le altre minoranze per guadagnare diritti? Perché finché non guadagnarono i loro diritti erano visti semplicemente come “oggetti”, che potevano essere “utilizzati” da coloro che già ne avevano. Perché dunque la natura non dovrebbe avere diritti? Nel 2008, una generazione dopo l’uscita del libro di Christopher Stone, l’Ecuador è diventato il primo paese nel mondo ad incorporare nella propria costituzione i diritti di natura (derechos de naturaleza). Un paio di anni più tardi la Bolivia ha fatto lo stesso, ed i popoli di questi paesi sono divenuti difensori dell’ecosistema. Nel 2011, la corte provinciale di giustizia di Loja, in Ecuador, ha garantito una ingiunzione costituzionale a favore della natura per la prima volta, specificamente per il fiume Vilcabamba, contro il governo provinciale di Loja. L’allargamento di una strada, secondo il tribunale, aveva violato i diritti di natura, aumentando il flusso del fiume e provocando un disastro potenziale per le vulnerabili popolazioni dei fiumi che vivevano delle sue risorse.[37] Come ci ricorda il filosofo inglese John Stuart Mill «ogni grande movimento deve passare attraverso tre fasi: ridicolo, discussione ed adozione». I movimenti per i diritti della natura che stanno sorgendo oggi in molte comunità attorno al mondo incontreranno senza dubbio repressioni ed ostacoli, ma vi è una speranza che nel tempo i diritti della natura otterranno una base legale più ampia.
Eugène Huzar, il francese che comprese l’impatto ambientale distruttivo degli sviluppi tecnologici e dei combustibili fossili, fu ignorato dai suoi contemporanei. Tuttavia, i suoi scritti sono riapparsi in anni recenti e le sue posizioni figurano nei nuovi dibattiti sull’Antropocene.[38] Più in generale, l’ecologia, la scienza ambientale e la storia ambientale in questo senso, non esistevano ai tempi di Huzar. Oggi, le discipline accademiche comprendono le intricate connessioni tra gli sviluppi tecno-industriali e il mondo naturale. Con lo sviluppo del pensiero ambientalista, c’è una speranza che si possa identificare alcune delle più fatali trappole ecologiche davanti a noi. Vi è una lenta speranza.
Altrettanto incredibile è la storia del Bhutan, una delle nazioni più povere e piccole del pianeta. All’inizio degli anni ’70, il quarto Re Drago del Bhutan, Jime Singye Wangchuck, introdusse l’idea ispirata dal buddhismo di gyal-yong ga’a-kyid pal-‘dzoms, letteralmente “Felicità Interna Lorda” (FIL), un concetto contrapposto alla misura capitalista occidentale di Prodotto Interno Lordo (PIL), tipicamente utilizzato come indicatore di sviluppo. Parte della filosofia del FIL, consiste nell’idea del paese di posizionare il mondo naturale e la sua protezione al centro dell’educazione e della politica. Per implementare questa agenda, la nazione ha abolito le esportazioni di legno ed introdotto un giorno mensile dei pedoni, in cui tutti i veicoli privati non possono circolare. Negli ultimi due decenni il Bhutan ha raddoppiato l’aspettativa di vita e quasi il 100% dei bambini della nazione frequenta la scuola. Ispirate dall’esempio del Bhutan, diverse organizzazioni nazionali ed internazionali, dal Green Happiness Index tailandese al World Happiness Report delle Nazioni Unite, dall’Indice di Benessere di Gallup alle statistiche sul benessere e la felicità del Regno Unito, hanno concordato sul fatto che l’intensa focalizzazione sul PIL nelle economie occidentali è un elemento problematico e certamente inadeguato per lo sviluppo sostenibile del futuro. C’è una speranza che idee provenienti dalla periferia globale possano aiutarci a spostarci nel tempo dall’obbiettivo di valorizzare e misurare un sempre più rapido sviluppo ad una valutazione più soggettiva di ciò che costituisce una buona vita: compreso l’equilibrio tra la vita lavorativa e quella privata, la salute emotiva e la vitalità culturale ed ecologica.[39]

Lavorare per la creazione di una relazione più ecologica tra gli esseri umani e l’ambiente non significa però condannare interamente l’industria. Michael Braungart, chimico tedesco ed ex attivista di Greenpeace (il suo libro, Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, scritto in collaborazione con William McDonough, ha venduto milioni di copie nella sola Cina) ha promosso l’idea di una rivoluzione industriale che non danneggi il mondo naturale. Ha inoltre asserito che la spazzatura non sia nient’altro che il risultato di un design scadente; la sua idea è che dovremmo guardare al mondo come ad un ciclo tecnico di natura biologica in pieno corso. L’azienda con cui ha collaborato ha progettato dei sedili per la Lufhansa e delle buste della spesa commestibili, delle scarpe da corsa in grado di rilasciare nutrienti nella terra e dei libri interamente compostabili.[40] È pur vero che non tutto è riciclabile e che la visione sognatrice di Braungart ha ricevuto molte critiche, ma nei suoi esperimenti, nelle sue idee e nei suoi progetti esiste una speranza.

Portland, in Oregon, è una città del nordest degli Stati Uniti abitata da 2.3 milioni di persone con una lunga storia di utilizzo dei suoi fiumi come terreni di scarico per spazzatura e scarti industriali. Un Club di Studio della città di Portland nel 1927 aveva definito il fiume locale, chiamato Willamette, «sporco e brutto».[41] Infatti durante la seconda guerra mondiale, i cantieri navali Kaiser Shipyards ed altre industrie avevano iniziato ad inquinare in maniera massiccia i fiumi della città, con residui di petrolio, sostanze chimiche tossiche e metalli pesanti. Fin dagli anni ’50, i pesci che venivano pescati nel fiume erano notoriamente sfigurati e deformati, mentre negli anni ’70 Portland aveva registrato violazioni nella qualità dell’aria per 180 giorni all’anno. Sorprendentemente, altro esempio di lenta speranza, Portland ha ribaltato completamente la situazione, trasformandosi negli ultimi vent’anni nella “città più verde degli Stati Uniti”, “la città più vivibile”, uno dei primi dieci posti per trascorrere gli anni della pensione, e la città con la maggior produzione locale di birra.[42] Nel 1974 Portland è stata la prima città degli Stati Uniti ad abbattere un’autostrada urbana trasformandola in un enorme parco con un lungofiume. Negli anni ’80 l’airone blu (blue heron) è diventato il simbolo ufficiale della città; negli anni ’90 Portland è stata la prima città americana ad introdurre piani per l’azione climatica ed un piano regolatore per l’uso delle biciclette; nel 2001 è diventata la prima città a promuovere politiche di bioedilizia ed infine, nel 2015, ha inaugurato il più lungo ponte degli Stati Uniti d’America interdetto alla circolazione di automobili. Diversi fattori hanno avuto un ruolo in questa trasformazione radicale, comprese le iniziative dal basso, i progetti per il restauro comunitario, le visioni eco-topiche di un futuro radicalmente diverso dal presente. C’è una lenta speranza, vista la consapevolezza a livello locale e le iniziative che stanno crescendo in tutto il pianeta, non ultimo ciò che Don Worster ha definito “ecologie domesticate”, ovvero fattorie, giardini e cortili. Nei soli Stati Uniti, il numero dei mercati contadini è più che raddoppiato negli ultimi otto anni: da 4.600 a più di 8.600.[43]

Nel 2015, la COP 21 di Parigi ha stabilito obiettivi climatici piuttosto ambiziosi, in particolar modo per limitare il surriscaldamento globale a soli 1.5 gradi celsius. Benché numerosi critici abbiano osservato come questi obiettivi non siano vincolanti, non dobbiamo dimenticare che essi ci forniscono una potente struttura di cambiamento ed incoraggiamento per gli attori individuali ed istituzionali in tutto il mondo. Chi avrebbe pensato un paio d’anni fa che l’associazione di beneficenza della famiglia Rockefeller, un fondo iniziato dal magnate del petrolio John D. Rockefeller, avrebbe definito la Exxon Mobil, la principale compagnia petrolifera del mondo, “moralmente riprovevole”, ritirando tutti i suoi investimenti da compagnie di combustibili fossili? Tuttavia, è esattamente quel che è successo nel 2016. Chi avrebbe pensato dieci anni fa che il Costa Rica avrebbe soddisfatto tutti i propri bisogni energetici attraverso fonti di energia rinnovabile? È successo per 75 giorni consecutivi nel 2015 ed oggi vi sono tutte le ragioni per credere che il paese raggiungerà lo scopo dichiarato di arrivare al 100% entro il 2021.[44] Potrei continuare ben oltre, e non ho nemmeno nominato Papa Francesco ed il suo invito ad una «conversione ecologica».[45] Vi sono centinaia, migliaia, decine di migliaia di storie  che hanno trasformato visioni ecologiche in realtà, apportando speranze rigeneranti – non da un giorno all’altro, ma lentamente, a volte in maniera invisibile – attraverso una lenta speranza, spesso contro ogni previsione. In quanto storici abbiamo la necessità di spiegare le ragioni del successo di alcuni di questi movimenti, rendendo visibili i motivi di speranza. I politici tendono a trarre le proprie conclusioni soltanto sulla base degli eventi attuali e dei sentimenti politici. Tuttavia, per andare avanti è necessario chiedersi non soltanto a che punto ci troviamo adesso, ma anche come siamo arrivati fin qui.  Abbiamo bisogno di narrazioni e storie e non soltanto di sterili tecnologie, stime economiche e prognosi.

Più specificamente, abbiamo bisogno di due tipi diversi di storie. Da una parte, abbiamo bisogno di narrazioni che ci mettano in guardia sulle nostre debolezze collettive, come Blackout, che ci ricordino che stiamo effettivamente vivendo in quella che Donald Worster ha definito “l’età della vulnerabilità”, o in quello che Rob Nixon ha definito come un mondo di “lenta violenza”.[46] Abbiamo anche bisogno di storie che ci facciano confrontare con il fatto che il nostro potere, per quanto ben intenzionato, sia potenzialmente distruttivo e che la sopravvivenza degli esseri umani su questo pianeta dipenda dalla preservazione di suoli ed acque, degli habitat e dei sistemi ecologici di cui siamo intrinsecamente parte. Abbiamo bisogno di storie di potenziale distruzione e di allarme: queste sono efficaci finché non ci causano un rigor mortis, ovvero una rigidità causata dalla paura. Distorsioni come lo spettro apocalittico di “Waldsterben” si sono verificate nella Germania degli anni ’80, epoca in cui i contemporanei prevedevano che tutte le foreste tedesche sarebbero scomparse, allarme per la morte degli alberi e per le piogge acide che si è rivelato estremamente costruttivo. Le sventurate predizioni sono servite come campanello d’allarme che ha cambiato l’atteggiamento degli europei verso l’ambiente. Ciò ha contribuito a ridurre in maniera radicale le emissioni di solfuri, aiutando a comprendere gli ecosistemi forestali e contribuendo alla fondazione dei partiti verdi.[47]
Tuttavia, è sempre nostro compito dimostrare che queste storie di allarmismo non sono sufficienti. Abbiamo bisogno di storie di speranza, che ci forniscano alternative a sentieri definiti in maniera precisa: di idee che sembravano inimmaginabili prima che fossero espresse e di sentieri che sembravano impercorribili prima di essere percorsi. Abbiamo bisogno di storie che ci diano la forza di diventare pensatori, attori ed attivisti, capaci di immaginare alternative in un mondo dominato da costrizioni tecniche ed economiche. Abbiamo bisogno di idee che si facciano strada tra le maglie di una ancor più stretta rete di sentieri circoscritti e di persone che osino fare a pezzi questa rete.
Infine, abbiamo bisogno di narrative che ci ricordino che la nostra sopravvivenza a lungo termine sul pianeta terra sarà possibile soltanto quando la smetteremo di operare come parassiti che feriscono il proprio anfitrione, e cioè il nostro pianeta, diventando a nostra volta organismi commensali, ovvero nutrendoci delle risorse della terra senza danneggiarne il bilancio complessivo. Abbiamo bisogno di storie che ci aiutino a comprendere come gli esseri umani siano stati in grado di invocare e dirigersi verso visioni positive del futuro, anche se facendo questo hanno  dovuto superare erronee decisioni del passato. Abbiamo bisogno di storie che ci spieghino perché, in un mondo complesso che si muove sempre più velocemente, la speranza possa essere così lenta. Abbiamo bisogno di storie che ci ricordino che le decisioni sulla vulnerabilità sono attualmente dominio di un gruppo selezionato di attori, principalmente governi e grandi corporazioni, e che ci facciano comprendere che molti rischi e vulnerabilità esistono anche per opera nostra. Le vulnerabilità sono reali ma spesso sono costruzioni sociali e politiche. Ci sono ragioni, dopotutto, per cui le popolazioni più povere intorno al mondo sono più esposte a rischi di salute e meno protette dalle conseguenze dei disastri rispetto a quelle più benestanti. Le narrazioni di preoccupazione e speranza interrogano l’autorità di coloro che definiscono i rischi e ci ricordano che i rischi possono essere deviati, ridotti o eliminati, anche se ciò può sembrare un processo lungo e spaventoso. I movimenti per il cambiamento non saranno né rapidi, né facili, ma le nostre speranze possono essere accelerate dalla consapevolezza della nostra vulnerabilità e dei pericoli delle trappole ecologiche: così, storie di catastrofe e speranza possono rinforzarsi vicendevolmente.

Questo è esattamente il modo in cui dovremmo leggere le profetiche parole di Friedrich Hölderlin, poeta tedesco, di più di duecento anni fa: «Ma dove è il pericolo, cresce / anche ciò che salva».[48] I poteri di salvezza di oggi non proverranno da un deus-ex-machina, da una figura erculea che ucciderà l’aquila che tortura Prometeo, e non proverranno da eroi come l’intelligente protagonista del romanzo di Elsberg, in grado di annientare gli hacker-terroristi. In un mondo sempre più complesso e artificiale i nostri poteri di salvezza non proverranno da una sola fonte, e certamente non da un approccio troppo-grande-per-fallire (too-big-to-fail) o da coloro che sono stati gettati nel vortice della nostra era di velocità. I poteri di salvezza, e le lente speranze ad essi associate, proverranno da diverse culture ed iniziative, da pensatori, cani sciolti, o da comunità di varie parti del mondo e nondimeno dagli storici ambientali. I principali fautori saranno coloro che agiranno localmente e penseranno ecologicamente: donne ed uomini che capiscano il potere inerente alla nostra maniera di narrare la relazione tra uomini e natura.

Dovunque ci sarà pericolo, i poteri salvifici verranno rinforzati da immagini di un mondo migliore, finché esse sapranno apprezzare la fragile bellezza che costituisce la base della vita sul pianeta terra.

 

[1] M. Elsberg, Blackout: Morgen ist es zu spät, München, Blanvalet, 2012. (Ed. It.: Blackout:domani sarà troppo tardi, Milano, Narrativa Nord, 2013), traduzione di Roberta Zuppet.

[2] M. Iken, Wenn der Strom ausfällt, «Hamburger Abendblatt», 30 gennaio, 2013, p. 6.

[3] “Gefährdung und Verletzbarkeit moderner Gesellschaften – am Beispiel eines großräumigen Ausfalls der Stromversorgung”, 2016 [ultimo accesso 5 September 2016].

[4] J. R. Martì, The AC Electrical Grid: Transitions into the Twenty-First Century, in R.W. Unger (ed.), Energy Transitions in History: Global Cases of Continuity and Change, Monaco, Rachel Carson Center, 2013, p. 78.

[5] W. Haber, Die unbequemen Wahrheiten der Ökologie. Eine Nachhaltigkeitsperspektive für das 21. Jahrhundert, Monaco, oekom Verlag, 2010.

[6] Id., Energy, Food, and Land – The Ecological Traps of Humankind, «Environmental Science and Pollution Research», 14, (6), 2007, p. 359.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. R.W. Wrangham, Catching Fire: How Cooking Made Us Human, New York, Basic Books, 2009. [Ed. it.: L’intelligenza del fuoco: L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo, Torino, Bollati Boringhieri, 2011; traduzione di D. Restani].

[9] Household air pollution and health, World Health Organization Fact Sheet N°292, 2016 [ultima modifica, Febbraio 2016]. Più del 20% dei casi di morti premature per polmonite tra i bambini al di sotto dei 5 anni di età sono causati dalle inalazioni di fuliggini provenienti dall’inquinamento delle case.

[10] Women – users, preservers and managers of agrobiodiversity, Roma, Food and Agriculture Organization of the United Nations (fao), 1999, p. 2; What Is Agrobiodiversity?, Roma, Food and Agriculture Organization of the United Nations, 2004.

[11] Citazione originale: «we no longer know the earth we come from», dal libro di W. Berry, The Unsettling of America: Culture and Agriculture, San Francisco, Sierra Club Books, 1996, p. 51.

[12] W. Haber, Energy, Food, and Land – The Ecological Traps, cit., p. 362.

[13] P. J. Crutzen, Geology of Mankind, «Nature», 415, 2002, p. 23.

[14] W. Steffen et al., Global Change and the Earth System: A Planet under Pressure, Berlino, Springer, 2004, pp. 81-141.

[15] V. Smil, Harvesting the Biosphere: The Human Impact, «Population and Development Review» 37 (4), 2011, pp. 613-636.

[16] E. Kolbert, The Sixth Extinction: An Unnatural History, New York, Henry Holt & Company, 2014, p. 17. [Ed. it.: La sesta estinzione. Una storia innaturale, Milano, Neri Pozza, 2014; traduzione di C. Peddis].

[17] The Downfall of the Plastic Bag: A Global Picture, «Earth Policy Institute», 1 Maggio 2014 .

[18] J. Crutzen, Geology of Mankind, cit.; C. Schwägerl, Menschenzeit: Zerstören oder gestalten? Die entscheidende Epoche unseres Planeten, Monaco, Riemann Verlag, 2010; J. Zalasiexicz, The Earth After Us: What Legacy Will Humans Leave in the Rocks?, Oxford, Oxford University Press, 2008; P. J. Crutzen, M. Davis, M. D. Mastrandrea, S. H. Schneider, P. Sloterdijk, Das Raumschiff Erde hat keinen Notausgang: Energie und Politik im Anthropozän, Berlin, Suhrkamp, 2011; H. Trischler, Anthropocene: Envisioning the Future of the Age of Humans, Monaco, Rachel Carson Center, 2013.

[19] J. Lin, D. Pan, S. J. Davis, Q. Zhang, K. He, C. Wang, D. G. Streets, D. J. Wuebbles, D. Guan, China’s international trade and air pollution in the United States, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», 111, (5), 2014, p. 1736.

[20] W. Haber, Nachhaltige Entwicklung zwischen Notwendigkeit, Tugend und Illusion, in D. Füsslein (hrg.), Die Erfindung der Nachhaltigkeit. Leben, Werk und Wirkung des Hans Carl von Carlowitz, Monaco, oekom Verlag, 2013, p. 101.

[21] J. M. Anderies, Robustness, Institutions, and Large-Scale Change in Social-Ecological Systems: The Hohokam of the Phoenix Basin, «Journal of Institutional Economics», 2, (2), 2006, pp. 133-155; L. M. Gregonis, K. J. Reinhard, Hohokam Indians of the Tucson Basin, Tucson, University of Arizona Press, 1979.

[22] L’espressione “troppo grande per fallire” (too big to fail), usata in relazione all’industria bancaria, fu resa popolare nel 1984 durante il processo del membro del Congress americano Stewart McKinney, e ricevette diffusione ed attualità alla vigilia della crisi bancaria del ventunesimo secolo. Cfr. G. H. Stern, R. J. Feldman, Too Big to Fail: The Hazards of Bank Bailouts, Washington, DC, Brookings Institution Press, 2004.

[23] M. A. McKean, T. R. Cox, The Japanese Experience with Scarcity: Management of Traditional Common Lands, «Environmental Review ER», 6, (2), 1982, pp. 63-91; E. Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge, Cambridge University Press, 1990; R. Netting, Balancing on an Alp: Ecological Change and Continuity in a Swiss Mountain Community, Cambridge, Cambridge University Press, 1981.

[24] D. Worster, Shrinking the Earth: The Rise and Decline of American Abundance, New York, Oxford University Press, 2016.

[25] E. Huzar, L’arbre de la science, Paris, Dantu, 1857, p. 106.

[26] W. Steffen, W. Broadgate, L. Deutsch, O. Gaffney, C. Ludwig, The Trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration, in Anthropocene Review, 16 January 2015; W. Steffen et al., Global Change and the Earth System.

[27] H. Rosa, Social Acceleration: A New Theory of Modernity, New York, Columbia University Press, 2013, p. 75.

[28] H. Rosa, Social Acceleration, cit., p. 74f. e 85; Id., Full Speed Burnout? From the Pleasures of the Motorcycle to the Bleakness of the Treadmill: The Dual Face of Social Acceleration, «International Journal of Motorcycle Studies», 6 (1), 2010.

[29] Questo fenomeno è discusso nel libro di Social Acceleration di H. Rosa.

[30] R. Nixon, Slow Violence and the Environmentalism of the Poor, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2011.

[31]       J-H. Tsai, Y-T. Tang, National Taipei University of Technology Development of Ecological Campus, in Mitsutaka Matsumoto et al. (eds.), Design for Innovative Value Towards a Sustainable Society, Berlin, Springer, 2011, pp. 1049-1054; J-H. Tsai, conversazione con l’autore, 30 ottobre 2015, Taipei.

[32] F-J. Brüggemeier, Place, Time, and Me, in C. Mauch et al. (eds.), Making Tracks: Human and Environmental Histories, Monaco, Rachel Carson Center, 2013, p. 105.

[33] Cfr. P. Brimblecombe, The Big Smoke: A History of Air Pollution in London since Medieval Times, Londra, Taylor and Francis, 2012.

[34] E. Kelsey, The Rise of Ocean Optimism, «Hakai Magazine», June 8, 2016 [ultimo accesso: 16 Settembre 2016]; Id., Global Facts about MPAs and Marine Reserves, in Protect Planet Ocean, [ultimo accesso: 5 Settembre 2016]; Lo Smithsonian Institute ospiterà il primo Earth Optimism Summit: .

[35] P. Maegaard, A. Krenz, W. Palz (eds.), Wind Power for the World: The Rise of Modern Wind Energy, Singapore, Pan Stanford Publishing, 2013, p. 413; P. Gipe, Wind Energy Comes of Age, New York, Wiley, 1995, p. 108.

[36] C. D. Stone, Should Trees Have Standing? Toward Legal Rights for Natural Objects, Los Altos, CA, W. Kaufmann, 1974.

[37]       N. Greene, «The first successful case of the Rights of Nature implementation in Ecuador,  Global Alliance for the Rights of Nature», 2016 [Ultimo accesso 5 Settembre 2016]; A. Pierce, If Corporations Have Rights, Why Doesn’t Nature?,  «Pachamama Alliance», 11 gennaio 2013.

[38] E. Huzar, La fin du monde par la science, in J. B. Fressoz (ed.), Collection Chercheurs d’ère, Alfortville, Ere, 2008; Id., The Tree of Science, in Libby Robin (ed.), The Future of Nature: Documents of Global Change, New Haven, Yale University Press, 2013, pp. 264-272; C. Hamilton, C. Bonneuil, F. Gemenne (eds.), The Anthropocene and the Global Environmental Crisis: Rethinking Modernity in a New Epoch, New York, Routledge, 2015.

[39] A. Kelly, Gross national happiness in Bhutan: The big idea from a tiny state that could change the world, «The Guardian», 1 Dicembre 2012 .

[40] M. Braungart, W. J. McDonough, Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things, New York, North Point Press, 2002. Edizione italiana: Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Torino, Blu Edizioni, 2003, traduzione di Emanuele Banfi.

[41] W.G. Robbins, Pollution in Paradise, «Oregon History Project», [ultima modifica 2014].

[42] Infographic: Why Portland May Be America’s Greenest City, «Business Insider», March 29, 2013, ; America’s Most Livable Cities, «Forbes», 1 Aprile 2009, ; A. Kryza, The 16 Best Beer Cities in America, «Thrillist», 1 Maggio 2015 .

[43] Farmers Markets and Direct-to-Consumer Marketing, United States Department of Agriculture, 2016 [ultimo accesso 5 Settembre 2016].

[44] T. Wade, A. Driver, Rockefeller Family Fund Hits Exxon, Divests from Fossil Fuels, «Reuter», 24 Marzo 2016; L. Pyeplees, Costa Rica’s Green Energy Feat Shows Hope for the Planet, «Huffington Post», 22 Dicembre 2015.

[45] “Enciclica ‘Laudato Si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune”, 24 Maggio 2015.

[46] D. Worster, The American West in the Age of Vulnerability, «Western Historical Quarterly», 45 (1), 2014, pp. 5-16.

[47] Cfr. R. von Detten, Das Waldsterben. Rückblick auf einen Ausnahmezustand, Monaco, oekom Verlag, 2013; B. Metzger, “Erst stirbt der Wald, dann du! Das Waldsterben als westdeutsches Politikum (1978–1986), Francoforte, Campus, 2015.

[48] Citazione originale: “Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch”, in F. Hölderlin, Patmos. Dem Landgrafen von Homburg überreichte Handschrift, Tübingen, Mohr, 1949. Citazione da edizione italiana: F. Toscani, Poesia e Pensiero nel “Tempo di Privazione”. In cammino con Hölderin e Heidegger, Pistoria, Editrice Petite Plaisance, 2010, p. 19.

 


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ECOLOGY , ANTROPOCENE , SOCIETY , SUSTAINABLE COMMUNITY


Categoria

Storia

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