Le prospettive della critica ecologica

di Niccolò Scaffai

 

 

1. Sebbene la parola Ecocriticism fosse stata coniata già nel 1978 da William Rueckert,[2] la nascita di un filone di studi identificabile con questo termine risale all’inizio degli anni Novanta. Nel dicembre del 1991 si tenne infatti una sessione speciale della Modern Language Association intitolata proprio Ecocriticism: The Greening of Literary Studies, con il coordinamento di Harold Fromm. L’anno dopo, Glen A. Love diresse un simposio della American Literature Association, intitolato American Nature Writing: New Contexts, New Approaches. Risale al 1992 anche la creazione, nell’ambito dell’incontro annuale della Western Literature Association, della Association for the Study of Literature and Environment (asle), presieduta da Scott Slovic, all’epoca docente alla University of Nevada di Reno, dove già nel 1990 era stato istituito un ruolo accademico nella disciplina «Literature and Environment». Obiettivo della nuova associazione era di promuovere «the exchange of ideas and information pertaining to literature that consider the relationship between human beings and the natural world».[3] Nel 1993, Patrick Murphy fondò la rivista «Interdisciplinary Studies in Literature and Environment» (isle), in seguito diretta dallo stesso Slovic, allo scopo di creare «a forum for critical studies of the literary and performing arts proceeding from or addressing environmental considerations».[4] La consacrazione della disciplina fu però sancita soprattutto dall’uscita, nel 1996, di un cospicuo volume, The Ecocriticism Reader: Landmarks in Literary Ecology, curato da Cheryll Glotfelty e Harold Fromm, testo canonico della materia. Il volume raccoglie venticinque contributi di altrettanti studiosi nordamericani, alcuni originali, altri tratti da lavori precedenti ma considerati anticipatori e fondatori dell’Ecocriticism, come il saggio (eponimo) di William Rueckert e gli scritti di Neil Evernden (Beyond Ecology: Self, Place, and the Pathetic Fallacy) e Joseph W. Meeker (The Comic Mode), anche questi risalenti agli anni Settanta. Temi e obiettivi dell’ecologia letteraria sono illustrati da Cheryll Glotfelty nella sua Introduzione:

 

Che cos’è dunque l’ecocriticism? In parole povere, l’ecocriticism è lo studio della relazione tra la letteratura e l’ambiente fisico. Proprio come la critica femminista esamina il linguaggio e la letteratura da una prospettiva di genere, e la critica marxista porta la consapevolezza dei sistemi di produzione e della classe economica nel suo modo di leggere i testi, così l’ecocriticism ha un approccio agli studi letterari incentrato sulla Terra. […] Gli ecocritici e i teorici fanno domande come le seguenti: Com’è la natura rappresentata in questo sonetto? Quale ruolo ricopre lo scenario naturale nella trama di questo racconto? I valori espressi in questo dramma sono in accordo con il sapere ecologico.[5]

 

Nelle tre parti in cui il volume si articola (Ecotheory: Reflections on Nature and Culture, Ecocritical Considerations of Fiction and Drama, Critical Studies of Environmental Literature), non si riflette se non parzialmente, tuttavia, l’ampiezza del programma delineato nell’Introduzione al volume. La Wilderness, da Thoreau a Edward Abbey, resta l’argomento dominante e solo pochi contributi mettono a fuoco il tema della crisi ambientale (tra questi, soprattutto il saggio di Cynthia Deitering, Toxic Consciousness in Fiction of the 1980’s, dedicato al motivo del toxic waste, i rifiuti tossici, nella narrativa di DeLillo e Updike).

Un rinnovamento sostanziale nel campo della critica ecologica (o ambientale) nordamericana è venuto dagli studi di Lawrence Buell. Professore di Letteratura americana ad Harvard, Buell si è occupato, soprattutto nei suoi primi saggi, di Emerson, Thoreau e del trascendentalism.[6] Ma ha esteso il campo oltre i temi della natura incontaminata, emancipando l’ecocritica dal mito originario della purezza e della Wilderness:

 

È sbagliato credere che l’ecocritica riguardi solo la letteratura che parla di luoghi rurali o selvaggi. Al contrario, ogni tipo di ambiente – le aree urbane, suburbane e i villaggi, le zone agricole e quelle industriali, la terraferma e gli ambienti marittimi, gli interni e gli esterni – è promettente per la ricerca ecocritica. Perché, nel senso più ampio possibile, l’oggetto dell’ecocritica dovrebbe essere l’intera gamma dei modi in cui la letteratura (ma anche le altre arti) ha concepito i rapporti tra gli esseri umani e il loro ambiente fisico. Questo è un progetto che, in linea di principio, riguarda tutta la storia letteraria.[7]

 

Nei suoi saggi recenti – soprattutto nella trilogia di studi uscita tra il 1995 e il 2005[8] – Buell ha rilevato i limiti dell’Ecocriticism più ortodosso e ne ha preso le distanze, anche attraverso la rinuncia simbolica all’uso del termine nei titoli dei suoi libri: Ecocriticism osserva Buell, è una parola che rischia ancora di evocare un club di «adoratori della natura» («a club of intellectually shallow nature worshipers»); al suo posto, propone di adottare environmental criticism, che meglio corrisponde allo studio di ambienti ibridi, in cui naturale e artificiale si trovano mescolati.[9]

 

2. Il rinnovamento del pensiero ecocritico ha portato, negli ultimi anni, all’elaborazione del cosiddetto Material Ecocriticism, che ha per oggetto le “narrazioni” prodotte dai fenomeni materiali, in cui la componente umana non è distinta dalla dimensione oggettiva, ma ne è implicata nel quadro di una agency (cioè di una facoltà di azione) complessiva.[10] Le radici dell’ecocritica materiale affondano ancora nel terreno della filosofia della natura, senza rinnegare il presupposto olistico dell’ecocritica tradizionale. Tuttavia, il Material Ecocriticism si emancipa dal tema chiave della Wilderness, dalla linea trascendentalista e dal pregiudizio di naturalezza del primo Ecocriticism. La relazione tra l’umano e il materiale, infatti, orienta l’analisi verso i contesti ibridi in cui natura e artificio si mescolano. È il caso degli ambienti urbani, in cui le soglie tra i diversi ‘mondi’ – quello degli abitanti, quello minerale delle pietre su cui è edificata la città, quello vegetale dei giardini – sono porose, continuamente attraversabili.[11] Una città come Napoli, ad esempio, è definibile come «un corpo poroso abitato da altri corpi porosi, un aggregato minerale-vegetale-animale di corpi porosi» («a porous body inhabited by other porous bodies, a mineral-vegetal-animal aggregate of porous bodies»).[12]
 Ciò che del Material Ecocriticism risulta problematico è semmai il concetto di agency come capacità di azione “narrativa” da parte degli oggetti. Ora, l’interazione tra uomini, piante, elementi inanimati del territorio può produrre un racconto, nel senso che può essere scelta come tema o sfondo di una narrazione, ed è anzi l’argomento essenziale della letteratura ecologica di cui ci occupiamo. In alcune formulazioni, tuttavia, resta ambigua la differenza tra la facoltà attiva di narrare (e dunque esprimere valori, conferire un ordine alle cose e agli eventi) e il potenziale che gli oggetti materiali possiedono ma che resta passivo finché non viene mutato in atto da un narratore. Occorre cioè non perdere di vista il fatto che, quando diciamo che una pietra o un fungo “raccontano” stiamo usando una metafora utile non per rovesciare lo statuto ontologico del narratore ma per mettere in luce, ad esempio, l’importanza dell’ambiente per la nostra esperienza. Tutto ciò può avere e spesso ha un’importanza ecologica e perfino etica, perché favorisce la cura nei confronti dell’ambiente e della dignità di altre specie. Ma non conferisce agency, né possiamo dire che la ripartisce tra uomo e materia, come peraltro spiegano alcuni degli stessi partecipanti alla riflessione sul Material Ecocriticism.[13] Ogni ipotesi di attribuzione di una facoltà narrativa alla materia va considerata esclusivamente sul piano fittivo e può esercitarsi attraverso un dispositivo straniante.

 

3. Le implicazioni etiche del rapporto tra uomo e natura, presenti ma in forma indiretta nel Material Ecocriticism, sono invece il fulcro del pensiero ecologico sviluppatosi in Francia negli ultimi decenni. L’«etica della natura» o «della terra» è un tema che ricorre spesso nella filosofia ambientale e nella riflessione sociologica, nel cui ambito si segnalano intellettuali come Edgar Morin o Philippe Descola. L’espressione «etica della terra» coincide con ciò che già il filosofo americano John Baird Callicot, una delle voci più autorevoli della cosiddetta etica ambientale, ha definito Land Ethic,[14] rifacendosi a sua volta all’opera dello scrittore ecologista americano Aldo Leopold (1887-1948). Esperto di tutela ambientale, Leopold ha contribuito a rinnovare il concetto di Wilderness, intrinseco, come si è detto, alla cultura americana e alla sua visione della natura. L’idea di dominio e affermazione dell’uomo sui territori selvaggi viene sostituita dal valore della conservazione della natura. Il libro più famoso di Leopold (e tra i più influenti nell’ambito della letteratura ambientale) è l’almanacco in cui sono raccolti i suoi saggi, pensieri e schizzi ricavati dall’osservazione diretta della natura: Almanacco di un mondo semplice (A Sand County Almanac: And Sketches Here and There, 1949). Uno dei capitoli del libro è intitolato proprio A Land Ethic; Leopold vi sostiene il diritto alla sopravvivenza degli elementi naturali (animali, ma anche foreste o fiumi) e al mantenimento del loro stato originario, in misura compatibile con un equilibrato utilizzo delle risorse da parte dell’uomo. Riprendendo le idee di Leopold, Callicot ne ha sviluppato e approfondito le implicazioni (e le potenziali contraddizioni): i ‘diritti’ dell’ambiente sono equiparabili a quelli dell’uomo? come conciliare, per esempio, il rispetto per la natura con l’esposizione delle creature (i membri non umani della ‘comunità biotica’) alla violenza che la vita selvaggia prevede?

L’armonia tra uomo e natura, celebrata da Leopold, viene riletta da Callicot anche nel suo valore storico-filosofico, cioè come svolta rispetto al paradigma millenario che esalta l’eccezione spirituale dell’uomo. È soprattutto in questa chiave che l’etica della terra è venuta in auge nel dibattito intellettuale europeo e soprattutto francese. In un recente pamphlet (Écologiser l’homme) Morin ha stigmatizzato la separazione tra umano e naturale, individuandone le origini nella concezione giudaico-cristiana, tutt’ora viva nella cultura occidentale, dell’uomo come immagine del suo creatore, disgiunto perciò dagli altri esseri viventi.[15] Tale separazione, ribadita dalla filosofia cartesiana che attribuisce solo agli esseri umani un esprit, considerando invece gli animali alla stregua di macchine, farebbe sentire ancora i suoi effetti nella separazione delle discipline e dei saperi. La conseguente parcellizzazione della conoscenza nell’epoca contemporanea è causa, per Morin, di una generale incapacità di cogliere la relazione tra uomo e natura e di una particolare debolezza della presa di coscienza ecologica. Concentrandosi su singoli problemi e questioni, come il cambiamento climatico, si rischia infatti di perderne di vista altre non meno gravi (come il degrado del territorio provocato da certi tipi di colture o gli allevamenti industriali) che richiedono di essere affrontate in un quadro complessivo. Occorre cioè, secondo Morin, abbattere le frontiere e rendere il sapere, e l’uomo stesso, sistemi aperti all’interscambio con gli altri elementi dell’ecosistema culturale e biologico.[16] La messa in discussione dei confini tra umano e non umano, tra cultura e natura, è obiettivo centrale anche del pensiero di Philippe Descola, filosofo e antropologo francese, allievo di Claude Lévi-Strauss. Studiando il popolo degli Achuar in Amazzonia, Descola si è reso conto che questi hanno un modo di concepire la separazione tra lo spazio abitato del villaggio e quello della foresta che non segue le stesse coordinate adottate nel mondo occidentale. La distinzione tra la dimora e il territorio selvaggio, tra umano e naturale appunto, non è netta; esistono zone intermedie, organizzate in cerchi concentrici, la cui determinazione è comprensibile alla luce di una ‘ecologia delle relazioni’ che Descola interpreta in base a due coppie di concetti: l’interiorità (interiorité) e la fisicalità (physicalité), da un lato; la somiglianza (ressemblance) e la differenza (différence) dall’altro. Incrociando le categorie si ottengono diversi tipi di relazione tra umano e non umano; per esempio, l’animismo diffuso in Amazzonia si basa su una somiglianza sul piano dell’interiorità tra l’umano e gli elementi naturali, che pure differiscono sul piano della fisicalità. I lavori di Descola confermano come il rapporto tra uomo e natura, cui siamo culturalmente assuefatti, non sia predeterminato e possa perciò variare in base ai valori e alle credenze dei diversi popoli.[17] Esistono forme di conciliazione e mediazione tra i due poli – natura e cultura – che non sempre il pensiero occidentale, tendenzialmente dualistico e gerarchico, prevede.[18] Il paradigma olistico – che, come si è visto, non si ricava solo dalla Land Ethic ma riguardava già la dottrina naturale di von Humboldt, l’idealismo e il trascendentalismo americano – si scontra infatti con i paradigmi separativi, influenti nel pensiero occidentale: per esempio, la disgiunzione cartesiana (già evocata da Morin) tra res cogitans e res extensa; o la relazione, centrale nella filosofia di Spinoza, tra natura naturans (la sostanza eterna e infinita, cioè Dio) e natura naturata (ciò che deriva da quella sostanza necessaria, senza la quale le manifestazioni contingenti della natura non potrebbero esistere).

 

4. Un rinnovamento nelle prospettive dell’ecologia letteraria può venire anche dal confronto con la geocritica, che studia la rappresentazione dello spazio nella letteratura. La geocritica ha guadagnato un crescente consenso negli ultimi anni, o decenni – nell’ambito di un’evoluzione negli studi letterari che è stata definita spatial turn – e che può fornire strumenti ed esempi per raccordare il tema ambientale alle strutture e ai valori espressi nel testo, colto nella sua singolarità e nella dimensione (linguistica, geografica, temporale) che le è propria. Elaborata dal comparatista francese Bertrand Westphal, docente all’Università di Limoges, la geocritica ha le sue premesse teoriche nella relazione tra spazialità e temporalità e nella referenzialità, cioè nel legame tra il referente e la sua rappresentazione, tra il mondo e il testo.[19] Oggetto di interesse per la geocritica è lo studio dei luoghi rappresentati nelle opere letterarie, ma anche l’impatto di tali opere sull’immagine dei luoghi che esse descrivono. La relazione che si può instaurare con la critica ecologica è quindi abbastanza diretta, dal momento che ogni ambiente è prima di tutto uno spazio, ha cioè un referente concreto in un luogo, ampio o ristretto. Ma non è solo questa generica analogia a fare della geocritica un terreno di confronto teorico. Un punto d’incontro consiste anche nella multifocalità della prospettiva geocritica:

 

Ogni rappresentazione è assimilata in un processo dialettico nel quale l’alterità cessa di essere una qualità intrinseca alla sola cultura guardata, dal momento che essa stessa si fa a sua volta cultura guardante. Il punto di vista geocritico, plurale perché situato all’incrocio di rappresentazioni distinte, contribuisce così a determinare uno spazio comune. L’essenza identitaria dello spazio di riferimento non può che essere il frutto di un incessante lavoro di creazione e ricreazione. Da questa constatazione deriva uno dei perni della metodologia geocritica: la multifocalizzazione degli sguardi su uno spazio di riferimento dato.[20]

 

È vero che la critica ecologica non può essere assimilata alla geocritica o a essa ricondotta. Tuttavia, la natura del referente – cioè, nel caso dell’ecologia, l’ambiente come Umwelt molteplice, percepibile da punti di vista e àmbiti di esperienza diversi – ha un’importanza primaria, come per la geocritica. Da entrambe le prospettive, lo spazio non è oggetto dell’osservazione, né tantomeno della semplice proiezione, di un singolo soggetto; perché si produca lo sguardo ecologico sull’ambiente è necessario che lo spazio venga osservato da soggetti diversi, per mezzo di coordinate diverse.

Nell’illustrare gli elementi della geocritica, Westphal ne sottolinea la distanza dagli studi di imagologia, «in cui l’oggetto rappresentato scompare a vantaggio del soggetto che lo rappresenta». L’imagologia trascurerebbe «completamente la questione del referente per concentrarsi esclusivamente sulle modalità con le quali lo scrittore trascrive il realema».[21] Ora invece, per la critica ecologica, la modalità attraverso cui il referente viene rappresentato è cruciale, perché ne determina la specificità rispetto al semplice studio del tema naturale o ambientale. È vero però che anche la critica ecologica, come la geocritica, «non si limita allo studio della rappresentazione dell’Altro, percepito in un ambiente monologico, ma pone l’artista […] al centro di un universo di cui egli non è che uno degli ingranaggi».[22] Ma, a fronte di queste differenze, la critica ecologica e l’imagologia hanno almeno un punto in comune, cioè l’interesse per gli stereotipi. L’imagologia, come metodo dotato di una sua specifica riconoscibilità negli studi di comparatistica, si occupa infatti delle immagini culturali che i popoli costruiscono su sé stessi e sugli altri.[23] Anche attraverso il contributo di discipline come l’antropologia e l’etnopsicologia, nell’ambito imagologico rientra perciò l’individuazione di images e mirages (miti e clichés, stereotipi appunto), per mezzo dei quali rappresentiamo l’altro (e proiettiamo la nostra rappresentazione verso di lui). Perché le immagini stereotipiche vengano riconosciute come tali, è inevitabile l’adozione di un procedimento di tipo straniante, come quello che interviene nella letteratura ecologica. Nelle narrazioni distopiche a sfondo fantascientifico, ad esempio, il soggetto può essere rappresentato come uno straniero (nemico, alieno), agli occhi di un’altra creatura; o può risultare straniero a sé stesso, se la sua Umwelt è stata sconvolta (è quanto avviene per esempio in The Road di McCarthy). Certo, l’impegno ecologico non può prescindere dall’importanza del proprio referente, cioè l’ambiente, l’ecosistema; ma la letteratura a sfondo ecologico conta sugli stereotipi per attivare la dinamica della narrazione. Più canoniche e familiari sono le immagini di partenza o gli sfondi su cui si muovono i personaggi, più efficace sarà l’effetto di straniamento che contraddice la rappresentazione abitudinaria. Vale anche l’opposto, ovvero: più straniante appare il contesto, più clamorosa sarà la rivelazione che il luogo, gli oggetti, le creature di cui il racconto parla non vengono da un altro mondo, ma appartengono allo stesso ambiente che abitiamo. Il procedimento può essere calato tanto nella dimensione fantastica (o fantascientifica, come nel celebre racconto di straniamento Sentinella, ‘Sentry’, 1954, di Fredric Brown, in cui si scopre alla fine che la mostruosa creatura cui il protagonista dà la caccia è un essere umano e che l’‘eroe’ è un alieno),[24] quanto in quella realistica (un paesaggio associato all’immagine stereotipica della solarità e della fertilità mostra un rovescio corrotto e intossicato, come la Terra dei fuochi raccontata da Saviano in Gomorra).

 

5. Pur fondandosi sullo studio di procedimenti testuali, la critica ecologica condivide con la geocritica e l’imagologia sia la vocazione interdisciplinare, sia l’investimento sul mondo fuori dal testo, che conta come dimensione di confronto e impegno. Proprio su quest’ultimo piano, la critica ecologica può entrare in rapporto anche con la riflessione postcoloniale, che ha tra i suoi oggetti d’interesse il modo in cui le culture dominanti rappresentano quelle subalterne, attribuendo loro un’idea di natura che dipende in realtà dalle coordinate culturali dei colonizzatori. La rilettura di opere canoniche in questa chiave mette in luce la componente ideologica, tutt’altro che neutra o innocente, attraverso cui la natura viene evocata. A mostrarlo è specialmente Gayatri Chakravorty Spivak nella Critica della ragione postcoloniale (A Critique of Postcolonial Reason, 1999), in cui prende in considerazione ad esempio un racconto di Kipling, Guglielmo il conquistatore:

 

Dunque l’incantesimo dei nomi, lungi dall’essere una composizione di luoghi, è esattamente una combinazione di specificità e peculiarità cancellate che potremmo definire come violazione. Quest’ultima comincia ben presto, in maniera benevola, non appena incontriamo l’eroe che sta indossando l’abito da sera: “Scott andò senza fretta in camera sua, e indossò l’abito da sera richiesto dal clima e dal paese: lino bianco e immacolato da capo a piedi, e annodata alla vita, un’ampia cummerbund si seta” (p. 195, corsivo mio). “L’abito richiesto dal clima e dal paese”, sutura natura e cultura e inscrive appropriatamente la natura. Dunque “patria” e “esterno” diventano termini di una distinzione tra i vecchi e i nuovi britannici in India. Le parole “Punjabi” e “Madrassee” vengono usate continuamente per i britannici che prestano servizio in quelle parti dell’India. La parola “nativo”, che si suppone significhi “autoctono”, è paradossalmente ricodificata come paraumanità non-identificata che non può aspirare a una dimora adeguata.[25]

 

L’ecologia può costituire perciò un argomento che oppone i sostenitori e gli avversari di una globalizzazione orientata a favore dei Paesi più sviluppati. È su questa base, per esempio, che Spivak ha criticato le previsioni del sociologo canadese Marshall McLuhan riguardo all’«esplosione» del Terzo Mondo. Spivak decostruisce il discorso di McLuhan, individuando, nella logica degli aiuti al Sud del mondo in difficoltà, un atteggiamento neoimperialista, assunto per di più a carico della donna, della cui subalternità quella logica si giova. Una questione ecologica come l’esaurimento delle risorse può divenire così oggetto di strumentalizzazione, e fatta pesare come argomento di colpevolizzazione verso un Sud che continuerebbe ad aver bisogno della missione civilizzatrice del Nord, o dell’Occidente:

 

Quando McLuhan scrive che “(l’)ecologia” sposta il ‘Fardello dell’Uomo Bianco’ sulle spalle dell’‘Uomo della Strada’ […], anticipa precisamente la logica del paiuolo delle attuali politiche di controllo demografico internazionali. La colpa per l’esaurimento delle risorse mondiali viene attribuita all’esplosione demografica del Sud: e quindi alle donne più povere del Sud. Questo a sua volta, producendo una questione delle donne, viene assunto a giustificazione dei cosiddetti aiuti, e deflette l’attenzione dall’iperconsumo del Nord: le due facce della globalizzazione.[26]

 

In effetti, dal punto di vista postcoloniale, ciò che è rimproverato all’Ecocriticism tradizionale riguarda proprio l’assunzione di una prospettiva dominante,[27] in parte corretta dal cosiddetto postcolonial ecocriticism,[28] che non sempre però rinuncia a una prospettiva biocentrica, difficilmente conciliabile con i presupposti e gli obiettivi della critica postcoloniale. Il rapporto con la natura e la sensibilità ambientale che l’ecocritica americana o europea esprimono non possono non essere condizionate dalle rispettive tradizioni culturali e dalle rispettive condizioni economiche e sociali; tradizioni e condizioni per lo più estranee al mondo postcoloniale, e inevitabilmente soggette a discussione, elaborazione o rifiuto. Il valore della Wilderness, per esempio, è una costruzione ideologica passibile dell’accusa di nazionalismo,[29] perché improntata a un’idea di dominio, non solo sulla natura ma anche sui popoli nativi che abitavano il territorio americano, tutt’altro che vergine prima dell’arrivo dei pionieri.[30] Inoltre, l’approccio postcoloniale e quello ecocritico rischiano di trovarsi in opposizione, dal momento che il primo concepisce i luoghi come spazi di attraversamento e incrocio di culture, il secondo – almeno nella sua versione precedente alla svolta ‘materiale’ – come territori da preservare nelle loro caratteristiche originarie o addirittura da celebrare in base a un’idea romantica di purezza.

Una proposta per superare le reciproche contraddizioni viene dallo sviluppo di un’ecocritica del Global South. Il termine, che ha sostituito quello di Terzo Mondo, definisce una condizione, oltre che un’area transcontinentale estesa dall’Africa all’America latina, dai Caraibi ad alcune regioni mediterranee. Lo spazio del Global South viene declinato anche come prospettiva letteraria, cioè come luogo, non solo geografico, a partire dal quale gli scrittori provenienti dal “Sud del mondo” – da Pablo Neruda a Édouard Glissant, da Derek Walcott a Amitav Ghosh – prendono la parola e producono una rappresentazione degli ambienti non più euro- o americano-centrica.[31] I teorici del Global South tendono a interpretare il ruolo dell’ecologia attenuandone gli aspetti conflittuali, auspicando una «confluenza tra storia umana e storia naturale».[32]

Il nesso tra l’ecologia (o meglio, l’uso strumentale di argomenti a sfondo ecologico) e subalternità è stato di recente riproposto da Naomi Klein, in un articolo comparso sulla «London Review of Books», Let Them Drown. The Violence of Othering in a Warming World e basato sul discorso in commemorazione di Edward Said tenuto alla Royal Festival Hall di Londra il 4 maggio 2016.[33] Nel commentare l’indifferenza e, in certi casi, l’insofferenza di Said nei confronti della causa ambientalista, Klein osserva innanzitutto come la tutela e l’espansione delle aree verdi nello Stato di Israele siano state finalizzate all’occupazione di territori a spese dei palestinesi e abbiano perciò danneggiato le coltivazioni preesistenti. Così, ad esempio, la campagna per «far fiorire il deserto», condotta dal Jewish National Fund, avrebbe alterato un ecosistema dove le piante di olivo e pistacchio sono state sostituite da specie non originarie come il pino e l’eucalipto. Questo genere di “colonialismo verde”, diffuso anche in altre regioni del mondo, dalle Americhe all’Africa, è interpretabile – secondo Klein – alla luce della categoria di ‘orientalismo’ elaborata da Said, e in particolare di quel processo chiamato othering, che consiste nell’invenzione dell’altro.[34] Una volta che l’altro è stato “creato”, si possono trovare più facilmente le giustificazioni o per la diretta affermazione di un controllo autoritario, o per una sopraffazione mascherata da civilizzazione. L’alterazione degli ecosistemi, dannosa per le popolazioni che ne fanno parte, è dovuta principalmente allo sfruttamento di risorse, ma anche all’incremento di colture i cui prodotti sono destinati per lo più all’esportazione, dalla quale gli abitanti del luogo non traggono che scarso profitto. Questa condizione ha un alleato nello sguardo orientalista sulla natura; gli ideali di purezza, spontaneità, esotismo alimentano il mito di un altrove verso cui tendere, da raggiungere in solitaria scoperta. Ma è da questa visione, così frequente e tradizionale nell’immaginario letterario e cinematografico, che deriva una percezione della natura puramente estetica e deresponsabilizzata. La tensione verso la natura va cioè in una sola direzione: dal qui della civiltà a un altrove di cui sfugge la complessità; natura come spettacolo, non come Umwelt. A questa cattiva distanza, si può opporre una distanza cognitivamente produttiva, basata su un principio di reciprocità, com’è quella misurata dallo straniamento.

 

6. Il confronto con alcune delle prospettive teoriche incentrate sulla questione dello spazio e sulla rappresentazione dell’altro – Ecocriticism, imagologia, critica postcoloniale – ha fatto emergere le analogie ma anche i tratti specifici di una critica ecologica della letteratura. Quest’espressione – critica ecologica – può sostituire ‘ecocritica’, che richiama più da vicino l’Ecocriticism, da cui è stato necessario prendere le distanze. Tra gli aspetti problematici messi in luce nell’ecocritica ci sono soprattutto: il vincolo con la tradizione culturale americana (in particolare con il mito della Wilderness), che rende difficilmente estensibile ad altre letterature la prospettiva olistica di radice trascendentalista; la conseguente genericità delle letture ecocritiche esercitate su testi diversi e lontani, che porta spesso a sovrapporre l’ecologia alla natura tout court; la scarsa attenzione per la situazione storica dei testi e per la stessa specificità dei referenti, vale a dire degli ambienti e delle loro qualità, che mutano appunto in base a variabili storiche, così come mutano le modalità di rappresentazione. Queste modalità sfuggono spesso all’Ecocriticism: la scelta delle opere, dettata dalla presenza di una tematica legata alla natura e all’ambiente, non prende infatti in considerazione i procedimenti retorico-cognitivi attraverso cui l’ambiente entra in relazione con il soggetto. Per la critica ecologica, invece, la presenza della natura come argomento di un’opera è solo una condizione, e non sufficiente: il livello tematico può suscitare l’interesse critico, infatti, ma non soddisfarlo. L’esercizio di una critica vera e propria si attiva infatti quando il tema reagisce con i procedimenti, e quando i referenti sono filtrati attraverso i codici. Occorre perciò che le costanti, su cui s’imposta lo studio comparatistico, provengano tanto dalla dimensione dei codici (nella quale rientra per noi il dispositivo dello straniamento), quanto da quella dei referenti concreti.

Ma qual è il referente di una critica ecologica della letteratura? Se il tema della natura non è una condizione sufficiente all’esercizio di questo tipo di critica, forse non è neppure una condizione necessaria. Il punto è intendersi sul significato di natura, ammissibile come referente solo se vi rientrano anche immagini ibride e rappresentazioni problematiche. La natura, cioè, non è un’entità che sta fuori di noi, non è un oggetto delimitabile, dato una volta per tutte e immutabile; è piuttosto l’effetto di un’inquadratura. Opere diverse danno inquadrature diverse, cosicché ‘natura’ può essere una foresta vergine, un terreno contaminato, un margine in cui le strade non sono più città e non sono ancora campagna. Diciamo allora che il vero referente è la Umwelt, il territorio di coesistenza che può sfociare nell’incontro, nel conflitto, nel rovesciamento di prospettive fra agenti che hanno valori e percezioni diversi. Due fra i maggiori ambiti tematici dell’immaginario ecologico contemporaneo – l’apocalissi e i rifiuti – non si risolvono infatti nella rappresentazione della natura come idillio, come dimensione di purezza, come obiettivo di una tensione positiva; ma neanche come ecumenica fusione di naturale e artificiale. Al contrario, la natura vi entra in gioco per lo più come teatro di una rottura di equilibri (che è, peraltro, un’immagine più realistica del referente, cioè dell’ambiente in cui viviamo tutti oggi). La costante tematica, per determinarsi, ha bisogno perciò sia della presenza di costanti formali, sia del sostegno di una costante pratica, che riguarda l’azione svolta contro o a favore dell’ambiente o di uno dei suoi elementi (potremmo anche considerare questa terza costante come un tema in movimento, un tema cioè che si fa trama contemplando in sé già una relazione e uno sviluppo). Se il suo vero referente consiste dunque in una relazione, anche la critica ecologica tenderà a interpretare il testo letterario come ecosistema, come complesso di viventi relazioni.

 

[1] * Il presente contributo riprende, con alcune variazioni, una parte del capitolo 2 del mio Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci, 2017.

[2] W. Rueckert, Literature and Ecology: an Experiment in Ecocriticism, «Iowa Review», 9, 1, 1978, pp. 71-86, poi ripubblicato in C. Glotfelty, H. Fromm, The Ecocriticism Reader: Landmarks in Literary Ecology, Athens (GE)-London, The University of Georgia Press, 1996, pp. 105-123. Di ‘ecologia letteraria’ aveva già parlato però, alcuni anni prima, J. W. Meeker, The Comedy of Survival: Studies in Literary Ecology, New York, Scribner, 1972.

[3] C. Glotfelty, H. Fromm, The Ecocriticism Reader, cit., p. xviii.

[4] Ibidem.

[5] «What then is ecocriticism? Simply put, ecocriticism is the study of the relationship between literature and the physical environment. Just as feminist criticism examines language and literature from a gender-conscious perspective, and Marxist criticism brings an awareness of modes of production and economic class to its reading of texts, ecocriticism takes an earth-centered approach to literary studies. […] Ecocritics and theorists ask questions like the following: How is nature represented in this sonnet? What role does the physical setting play in the plot of this novel? Are the values expressed in this play consistent with ecological wisdom?» (ivi, pp. xviii-xix; mia la trad. ital. a testo).

[6] Cfr. L. Buell, Literary Transcendentalism: Style and Vision in the American Renaissance, Ithaca, Cornell University Press, 1973; Id., The Thoreauvian Pilgrimage: The Structure of an American Cult, «American Literature», 61, 2, 1989, pp. 175-199; Id., Emerson, Cambridge (Mass.)-London, Harvard University Press, 2003.

[7] Id., La critica letteraria diventa eco, in C. Salabè (a cura di), Ecocritica. La letteratura e la crisi del pianeta, Roma, Donzelli, 2013, p. 4.

[8] Id., The Environmental Imagination Thoreau, Nature Writing, and the Formation of American Culture, Cambridge (Mass.)-London, The Belknap Press of the Harvard University Press, 1995; Id.,Writing for an Endangered World. Literature, Culture, and Environment in the U.S. and Beyond, Cambridge (Mass.)-London, The Belknap Press of the Harvard University Press, 2001; Id., The Future of Environmental Criticism. Environmental Crisis and Literary Imagination, Malden-Oxford-Victoria, Blackwell Publishing, 2005.

[9] Id., The Future of Environmental Criticism, cit., p. 8.

[10] cfr. S. Iovino, S. Oppermann (eds.), Material Ecocriticism, Bloomington&Indianapolis, Indiana University Press, 2014, p. 1.

[11] Cfr. C. Schliephake c. (ed.), Urban Ecologies. City Space, Material Agency, and Environmental Politics in Contemporary Culture, Lanham-Boulder-New York-London, Lexington Books, 2014.

[12] S. Iovino, Bodies of Naples. Stories, Matter, and the Landscapes of Porosity, in S. Iovino, S. Oppermann (eds.), Material Ecocriticism, cit., p. 102.

[13] «It is quite clear that matter itself does not model. Matter might have history, it might save traces and even produce copies of objects – as mud reproduces the image of the foot, for example – but it does not model in the sense of using forms to produce a representation of specific aspects of the object» (T. Maran, Semiotization of Matter. A Hybrid Zone between Biosemiotics and Material Ecocriticism, ivi, p. 148).

[14] J. B. Callicot, In Defense of the Land Ethic: Essays in Environmental Philosophy, Albany, University of New York Press, 1989; Beyond the Land Ethic: More Essays in Environmental Philosophy, Albany, University of New York Press, 1999.

[15] E. Morin, Écologiser l’homme. La nature du futur et le futur de la nature, Paris, Lemieux Éditeur, 2016, p. 21.

[16] Ivi, p. 25.

[17] Ph. Descola, Oltre natura e cultura, ed. ital. a cura di N. Breda, trad. di E. Bruni, Firenze, Seid Editori, 2014 (ed. or. Par-delà nature et culture, 2005).

[18] Id., L’ecologia degli altri. L’antropologia e la questione della natura, trad. ital. di P. Mussano, Roma, Linaria, 2013 (ed. or. L’écologie des autres. L’anthropologie et la question de la nature, 2011).

[19] Cfr. B. Westphal, Geocritica. Reale Finzione Spazio, a cura di M. Guglielmi, trad. ital. di L. Flabbi, Roma, Armando, 2009 (ed. or. La Géocritique. Réel, fiction, espace, 2007); Géocritique mode d’emploi, Limoges, Pulim, 2001.

[20] B. Westphal, Geocritica, cit., p. 161.

[21] Ivi, p. 159.

[22] Ivi, p. 160.

[23] Testi classici dell’imagologia sono J.-M. Carré, Les écrivains français et le mirage allemand (1800-1940), Paris, Bovin, 1947; M. F. Guyard, La littérature comparée, Paris, puf, 1951. Tra gli studi più recenti, cfr. G. Puglisi, P. Proietti Il grado zero dell’immagine. Rispecchiamenti dell’Io nell’Altro, Palermo, Sellerio, 2007.

[24] «Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame»: C. Fruttero, S. Solmi (a cura di), Le meraviglie del possibile, Torino, Einaudi, 1973 (1a ed. 1959), p. 72. Il racconto venne anche inserito da Primo Levi in La ricerca delle radici, Torino, Einaudi, 1981, con una significativa intestazione: «Gli alieni siamo noi».

[25] G. C. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, ed. ital. a cura di P. Calefato, trad. ital. di A. D’Ottavio, Roma, Meltemi, 2004 (ed. or. A Critique of Postcolonial Reason, 1999), p.176.

[26] Ivi, p. 394.

[27] Cfr. S. Slovic et alii (eds.), Ecoambiguity, Community, and Development: Toward a Politicized Ecocriticism, Lanham-Boulder-New York-London, Lexington Books, 2014.

[28] Cfr. G. Huggan, H. Tiffin, Postcolonial Ecocriticism. Literature, Animals, Environment, London-New York, Routledge, 2010.

[29] Cfr. F. Specq, Henry D. Thoreau et la naissance de l’idée de parc national, «Écologie&Politique», 36, 2008, pp. 29-40.

[30] Cfr. W. Cronon (ed.), Uncommon Ground: Rethinking the Human Place in Nature, New York, W. W. Norton & Cie,1995.

[31] P. Kumar, The Environmentalism of «The Hungry Tide», in Slovic et alii (eds.), Ecocriticism of The Global South, Lanham-Boulder-New York-London, Lexington Books, 2015, pp. 11-34.

[32] G. B. Handley, Down Under: New World Literatures and Ecocriticism, «The Global South», 1, 2007, 1-2, p. 97.

[33] N. Klein, Resistenza climatica, «Internazionale», xxii, n. 1169 (2/8 settembre), 2016, pp. 38-45 (ed. or. Let Them Drown. The Violence of Othering in a Warming World, 2016).

[34] Cfr. E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, trad. ital. di S. Galli, Milano, Feltrinelli, 1999 (ed. or. Orientalism, 1978).


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ECOCRITICISM , letteratura , AMBIENTE , UMANO , CULTURA.


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Letteratura

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