Ambiente e storia in Italia: temi, questioni, periodizzazioni

di Gabriella Corona

 
 
 

1. Ambiente e storia

Nonostante sia cresciuto già dagli anni Novanta un filone di studi storici su questi temi, l’Italia è molto indietro sia dal punto di vista storiografico che accademico rispetto ad altri paesi che hanno conosciuto non solo un grande sviluppo di questo filone storiografico ma anche una diffusione di Corsi di laurea e insegnamenti specifici di Environmental History. I motivi di questo ritardo sono molti e sicuramente in gran parte riconducibili alla rigida separazione che in Italia caratterizza le tre culture secondo la rivisitazione portata avanti da Jerome Kagan[1] del libro The Two Cultures di Charles Percy Snow.[2] Per quanto riguarda le tematiche ambientali, infatti, la tripartizione si giustifica e risulta decisamente appropriata se si pensa che, ad esempio, anche la sociologia dell’ambiente e l’economia dell’ambiente hanno il riconoscimento ministeriale e rappresentano degli insegnamenti autonomi. Oltre a non essere riconosciuta come insegnamento, la storia dell’ambiente ha da sempre incontrato una resistenza molto forte da parte degli storici, con particolare riguardo a quelli dell’età contemporanea, a far rientrare i temi che le sono propri nell’ambito del loro disciplinare, ad accogliere e a sviluppare questo filone di studi.[3]

Non c’è dubbio che il modo di cui comunemente parliamo di “ambiente” e in cui questo termine è impiegato nel dibattito pubblico risente con forza del modo in cui esso è stato interpretato dall’ambientalismo fin dalle sue origini. E dunque esso associa immediatamente ad una serie di temi come l’inquinamento, la questione dei rifiuti, l’abuso di prodotti chimici e la desertificazione, il cambiamento climatico e cioè tutte quelle problematiche legate ad un modello di sviluppo fondato sulla diffusione del sistema urbano-industriale, sul produttivismo, sul consumismo, sulla standardizzazione dei prodotti, sulla perdita di biodiversità, su un modello di crescita illimitata e così via. A ben vedere anche questo modo di guardare al rapporto tra l’uomo e la natura è un prodotto della storia.

Se nel corso del Diciannovesimo secolo, lo vedremo meglio in seguito, si sono venuti affermando nel discorso pubblico concezioni del rapporto tra uomo e natura che hanno messo al centro la salute e l’igiene, il paesaggio e le bellezze naturali, il territorio e lo spazio urbano, solo negli anni successivi alla seconda guerra mondiale si è venuta affermando una concezione di questo rapporto molto vicina a come la intendiamo noi oggi.  Solo a partire dagli anni Cinquanta del Ventesimo secolo, infatti, si è affermato  un concetto di Environment che rimanda alle sue matrici originarie e che si sviluppa contestualmente alla nascita dell’ambientalismo più propriamente politico. Non c’è dubbio, infatti, che è questa una fase in cui si assiste ad un cambiamento epocale nel modo di percepire i problemi del rapporto tra l’uomo e il suo habitat. Il dibattito che si sviluppa negli Stati Uniti all’interno della comunità scientifica sugli effetti prodotti dall’esplosione della bomba atomica non solo sulla salute ma anche sulla biosfera in generale, ebbe un ruolo fondamentale nella teorizzazione di una categoria di “ambiente” che si ispira ai principi dell’ecologia.

 

L’ambiente – scrive Donald Worster - arrivò a significare soprattutto le influenze naturali che circondano le persone, tra le quali la flora, la fauna, il clima, l’acqua e il suolo; era ormai chiaro che gli essere umani non erano vittime passive dell’ambiente circostante, bensì interagivano con esso e producevano degli effetti. Di conseguenza ambientalista divenne colui che si preoccupava di proteggere l’ambiente biofisico dall’inquinamento, lo sfruttamento e il degrado.[4]

 

Si tratta di un modo di intendere il rapporto tra uomo e natura che si innestava nella tradizione del pensiero ecologico così come si era sviluppato negli Stati Uniti fin dalla seconda metà dell’Ottocento incentrato sull’idea di Wilderness e dell’uomo inquinatore. Un modo che si ispirava in particolare alle opere di due autori che sono diventati un punto di riferimento importante dell’ambientalismo mondiale e cioè il libro intitolato Walden, or Life in the Woods pubblicato nel 1854 del filosofo Hanry David Thoreau che contiene il racconto dei due anni di vita trascorsi in una capanna sulle sponde del lago Walden nel Massachusetts e Man and Nature, or Phisical Geography as Modified by Human Action di  George Perkins Marsh pubblicato nel 1864.

 L’Environmental History negli Stati Uniti nasceva proprio dall’esigenza di storicizzare l’idea della natura incontaminata che pure aveva conosciuto una straordinaria importanza all’interno dei movimenti di protezione della natura nei paesi del mondo occidentale soprattutto in relazione all’elaborazione delle politiche pubbliche e dei parchi nazionali. All’inizio degli anni Sessanta del Novecento Roderick Nash pubblicava Wilderness in the American Mind dando avvio ad una riflessione incentrata sull’analisi degli aspetti culturali del rapporto tra l’uomo e il suo habitat e che sarà ripresa anche successivamente dando vita a testi fondamentali come quello di William Cronon Uncommon Ground del 1996 in cui vari autori decostruiscono le rappresentazioni astoriche del concetto di natura. 

Ma cosa s’intende quando si parla di Environmental History? Donald Hughes individua tre principali approcci allo studio del rapporto tra uomo e ambiente in una prospettiva storica.[5] Si tratta di quello che studia l’influenza dei fattori ambientali sull’azione umana, quello che prende in considerazione l’impatto dell’azione umana sull’ambiente ed infine quello che predilige l’analisi delle politiche e cioè del modo in cui si è tentato di “governare” questo rapporto. Si tratta dunque di un ampio spettro di opere e di autori di cui non è possibile dare conto in queste note per la loro ampiezza e si rimanda per questo alle rassegne che di questi studi sono state realizzate.[6] Se ne ricordino qui solamente alcuni tra i più noti in Italia e i cui testi sono stati in molti casi tradotti come Pascal Acot, William Cronon, Alfred Crosby, Mike Davis, Samuel Hays, Donald Hughes, Robert Marks, John McNeill, David Keyes, Christian Pfister, Kenneth Pomeranz, Eric Jones, Donald Worster.

Non bisogna tuttavia dimenticare che accanto agli approcci individuati da Hughes, si sta affermando sempre più, prevalentemente tra gli storici europei, una concezione della storia del rapporto tra uomo e natura che è quello dell’ecological inheritance, secondo il quale ogni generazione lascia sul territorio un segno, un marchio a quella successiva, che rientra nel processo di selezione naturale.[7] Questa è una concezione molto lontana da quella di wilderness, che invece guarda all’ambiente come l’”impasto” che si è venuto a creare nel tempo tra l’azione umana e quella naturale, tra la società e il suo habitat. Si prenda, ad esempio, il suolo e la sua storia. Se da una parte esso è risorsa naturale e sostanza organica e vegetale, è base per la biodiversità, fornisce materie prime, regola il ciclo dell’acqua, lo scambio tra aria e manto vegetale, al contempo però l’uomo interagisce con il suolo in vario modo attraverso il pascolo, la selezione dei semi, la fertilizzazione, l’irrigazione e così via. Esso è eredità ecologica. In un bell’articolo Verena Winirwater[8] racconta come anche nel bacino dell’Amazzonia, che è davvero il simbolo della natura incontaminata, gli studi di archeologia e di etnologia nonché i rapporti degli ufficiali delle colonie e dei viaggiatori hanno mostrato che quelle terre sono il frutto di intense attività antropiche fin da tempi a noi remoti, come l’uso da parte delle popolazioni indigene di strumenti rudimentali, di forme di coltivazione e di attività agricole, di processi di combustione.

Il secondo aspetto importante che deriva da questa concezione della storia dell’ambiente è il carattere storico delle problematiche ambientali.  È questa una storia che vuole scardinare un’idea molto diffusa non solo nel dibattito pubblico ma anche in molta letteratura soprattutto ambientalista secondo la quale le emergenze ambientali sono un problema delle società contemporanee. Le emergenze ambientali ci sono sempre state e sono cambiate nel tempo, sono state differenti a seconda delle diverse fasi storiche. L’inquinamento atmosferico, ad esempio, era un problema anche nelle società premoderne. Esso era una parte integrante della vita degli abitanti di Atene e di Roma per le emissioni provenienti dalle abitazioni, dalle fornaci, e da altre attività preindustriali che implicavano la combustione. Nelle società antiche erano diffuse malattie polmonari legate a questa tipologia di inquinamento. Esse erano presenti in Egitto come in Perù, nel bacino del Mediterraneo come in Bretagna.[9] Questo è un passaggio fondamentale poiché lascia in qualche modo aperto il tema delle soluzioni. Così come nel passato anche oggi i problemi ambientali possono essere risolti. La differenza rispetto al passato risiede nel loro carattere globale e impongono dunque soluzioni globali: le piogge acide, il global warming, i cambiamenti climatici, gli effetti dei clorofluorocarburi sulla biosfera, il commercio illegale di rifiuti, il rischio tecnologico, e così via.

E se l’idea della storia dell’ambiente come storia dell’eredità ecologica delle generazioni del passato conduce ad una visione di lungo se non lunghissimo periodo, il ragionamento storiografico si fa più ampio e complesso se guardiamo all’età contemporanea. La storia dell’ambiente negli ultimi due secoli potrebbe essere definita in due modi. Il primo potrebbe definirsi più “largo”: essa studia le trasformazioni del rapporto uomo e natura in una fase storica che chiamiamo Antropocene secondo la categoria diffusa da Paul Crutzen e ripresa dal biologo Eugene Stoemer, per cui l’azione umana è diventata uno dei principali agenti di trasformazione degli ecosistemi. Una seconda definizione più “stretta” prende in considerazione il rapporto tra economia e ambiente: la storia dell’ambiente studia le trasformazioni del rapporto tra l’uomo e la natura nella fase del trionfo del sistema urbano-industriale, un sistema che implica una crescita economica continua fondata sulla produzione e il consumo illimitato di risorse e sulla loro trasformazione in merce.

 

2. La storia dell’ambiente in Italia

Per quanto riguarda l’Italia, comunemente si fa risalire la nascita dell’Environmental History alla fine degli anni Ottanta quando Alberto Caracciolo organizzò nella primavera del 1989 a Roma una mostra intitolata L’ambiente nella storia d’Italia. Nelle pagine introduttive al catalogo dell’evento, lo storico sosteneva che pur essendo l’esigenza di studiare l’ambiente in una prospettiva storica indubbiamente resa urgente dalla gravità delle problematiche ambientali del presente, è pur vero che esse non sono altro che l’esito finale di processi che affondano le loro radici molto più indietro nel tempo.[10] Ma se negli Stati Uniti la storia dell’ambiente nasceva con una forte componente culturale che deve confrontarsi con i grandi del pensiero ecologico ottocentesco, nel nostro Paese essa si è dovuta confrontare con alcuni filoni storiografici che si sono sviluppati a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, che hanno avuto un forte radicamento nella storiografia italiana soprattutto marxista e che hanno al contempo risentito dell’influenza della scuola francese delle Annales molto attenta al ruolo dei mondo fisico nei fatti storici: la storia del paesaggio agrario, la storia dell’agricoltura, la storia urbana e la letteratura di matrice urbanistica, la geografia storica,  la storia forestale, e gran parte della storia del Mezzogiorno che ha posto una grande attenzione alle problematiche territoriali. Si pensi ai contributi contenuti in alcuni dei volumi della Storia delle Regioni pubblicati dalla casa editrice Einaudi, il volume di Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario in Italia pubblicato nel 1962 e il saggio di Lucio Gambi intitolato I valori storici dei quadri ambientali nel primo volume della Storia d’Italia Einaudi.[11] Molte di queste ricerche e di questi contributi rappresentano una fonte importante e preziosa anche per un approccio più curvato sull’ecologia storica.

Questa letteratura ha il merito di avere studiato la storia d’Italia dal punto di vista del rapporto tra aspetti materiali e aspetti sociali anche se con una sensibilità lontana da quella della storia dell’ambiente. La natura viene qui guardata come una combinazione di fattori biologici con aspetti sociali come le forme del lavoro, le tecnologie, i saperi,  i rapporti di produzione e così via e vengono utilizzate categorie come territorio e paesaggio, spazio e salute.

Un tratto caratteristico della storia dell’ambiente è quello dell’analisi interdisciplinare e della miscela di saperi, del ricorso a linguaggi e strumenti concettuali che appartengono alle scienze sociali e alle scienze dure. Lo sforzo in questo senso è stato davvero intenso e si è lavorato soprattutto a potenziare il dialogo con le scienze del territorio: l’agronomia, la geologia, le scienze forestali, l’urbanistica, l’ecologia del paesaggio, le discipline idrauliche. Ma se questo è uno degli aspetti culturali più rilevanti di questa storiografia, è nello stesso tempo il principale ostacolo al suo riconoscimento da parte della storia generalista. Sulle resistenze degli storici a “riconoscere” anche a livello accademico questo filone di studi,  ha giocato anche un ruolo importante il loro carattere spesso militante, l’inclinazione ad essere espressione dei movimenti ambientalisti e dei partiti verdi, la tendenza a farne uno strumento di lotta politica più che un racconto di verità. Non c’è dubbio che, in generale, l’interesse a studiare il rapporto tra uomo e ambiente in una prospettiva storica nasca dai problemi legati alla questione ambientale e al dibattito che a livello mondiale si è sviluppato su questi temi  a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Questa storiografia pur seguendo una vasta pluralità di direzioni nasce sulla base di sollecitazioni del presente, e sull’esigenza di capire e di spiegare la crisi ambientale anche in una prospettiva storica.

È dunque un filone di studi che corre il rischio di scivolare nella storia ideologica e di perdere la sua funzione che è quella di fornire un contributo di conoscenza. Diversamente si deve guardare con favore alla sua spiccata funzione di uso pubblico che invece è auspicabile. Essa può dare un contributo scientifico in grado di travalicare il carattere spesso superficiale, manipolatorio e a volte polemico con cui questi temi sono rappresentati nel dibattito pubblico in tutte le sue articolazioni, dal senso comune, dalla retorica politica, dai media. È interessante notare come alcune recenti considerazioni svolte dagli studiosi statunitensi David Armitage e Jo Guldi che hanno avuto una larga eco nella comunità degli storici non solo italiani riguardano proprio l’idea che l’analisi di lungo periodo delle problematiche ambientali e degli effetti del cambiamento climatico insieme a quella sulle disuguaglianze e sulla governance internazionale, rappresentano gli unici campi di ricerca in cui gli storici possono ancora ambire ad avere una funzione pubblica dopo un periodo di ripiegamento su analisi specialistiche di breve periodo e chiuse in ambiti strettamente accademici.[12]

Volendo generalizzare, in Italia si possono individuare due approcci che spesso si sono confusi, intrecciati e sovrapposti, uno che potremmo definire di storia economica dell’ambiente e l’altro di ecologia storica. I due approcci per certi versi sono simili e soprattutto condividono alcuni aspetti strutturali come la periodizzazione e la presa in considerazione della transizione demografica e di quella energetica come principali motori del cambiamento. Ma se su questi grandi temi esiste una convergenza tra questi due approcci essi se ne discostano sulle questioni storiografiche più profonde e sul senso culturale complessivo del lavoro dello storico.

Mentre infatti a quella che abbiamo chiamato storia economica dell’ambiente interessa capire le modalità con cui la natura ha contribuito alla definizione di un modello di sviluppo che comunque ha garantito ampi benefici a varie parti del mondo, l’altro approccio pur condividendo questa analisi tende ad analizzarne gli aspetti distruttivi, i costi, i rischi, i limiti, le disuguaglianze, i problemi di sostenibilità,  ponendosi di fronte ad esso con una lettura critica. La differenza consiste dunque proprio nel modo di guardare al concetto di natura. Nel primo caso la natura è capitale al pari di una macchina e nel secondo è “risorsa”, ed è un “agente storico” al pari dell’azione dell’uomo.[13]

Da questo punto di vista la storiografia ha fortemente risentito dell’influenza di un sottofilone dell’economia che ha tracciato le basi scientifiche della sostenibilità, critico nei confronti dell’economia mainstream e che ha preso il nome di Ecological Economics (Georgescu Roegen, Herman Dely, Partha Dasgupta, Robert Costanza, Enzo Tiezzi). Secondo questo filone, la costruzione di un modello economico distruttivo di risorse naturali è stato preceduto e accompagnato da una rivoluzione culturale che ha separato le scienze economiche da quelle fisiche, biologiche, chimiche, il mondo della produzione e del consumo da quello degli ecosistemi naturali. I saperi economici sono dunque in gran parte responsabili della crisi ambientale così come si è venuta configurando a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, poiché hanno finito con il negare valore alla natura e con il sancirne la sua trasformazione da risorsa rinnovabile a materia inerte.[14]

In altre parole il dibattito economico ha mutuato la contrapposizione tra la visione sistemica propria del pensiero ecologico a partire da Charles Darwin e il meccanicismo e cioè il paradigma che si è affermato con la rivoluzione scientifica. Un pensiero che si è sviluppato in contrapposizione a quella visione meccanicistica (Cartesio, Bacone, Newton) che separa l’uomo dalla natura, concependo quest’ultima come una macchina in cui ogni elemento svolge una sua funzione.[15] Il libro di Carolyn Merchant intitolato The Death of Nature e pubblicato nel 1990 fa proprio riferimento a questo e cioè la visione meccanicista ha provocato la morte della natura, la sua trasformazione da materia vivente in materia inerte, e gettato le basi per la sua manipolazione e il suo impiego illimitato.

 

3. Storia nazionale o storia globale?

Che senso ha una storia nazionale in un campo di studi e di ricerche che tradizionalmente nasce dall’osservazione di fenomeni globali o comunque che travalicano i confini degli stati nazionali e privilegiano dimensioni non istituzionalizzate e non definiti da confini politici?  La storia dell’ambiente è uno di quegli indirizzi che più degli altri si è sviluppato come world history e global history.[16] Pensiamo ai tanti testi molto noti di storia dell’ambiente in una dimensione planetaria come quello di Clive Ponting, di John McNeill e di Donald Hughes, di Joachim Radkau e di Stephen Mosley, di Piero Bevilacqua e di Federico Paolini e molti altri ancora.[17] La storia dell’ambiente si è configurata prevalentemente con un approccio volto a ricostruire il sistema di relazioni che si è creato tra la dimensione globale e quella locale e non solo come esportazioni di modelli e di saperi ma anche come forme di contagio: la circolazione di uomini, prodotti, saperi, competenze, tecnologie.[18]

Nonostante ciò la storiografia internazionale ha visto la pubblicazione di molte storie nazionali come quella di Madhav Gadgil e Ramachandra Guha per l’India  e Ted Steinberg per gli Stati Uniti, di Ian Simmons per la Gran Bretagna e di Robert Marks per la Cina e altri ancora.[19] Ci sono due aspetti che ne giustificano l’esistenza: sia il ruolo delle fonti e di una documentazione che fa capo nella maggior parte dei casi a burocrazie statali, sia il ruolo fondamentale che gli stati nazionali hanno svolto nel governare e regolare il rapporto uomo e natura nell’era dell’Antropocene. Oltre a ciò per quanto riguarda l’Italia, la letteratura ha tenuto conto anche di alcuni grandi tratti strutturali propri della penisola che ne caratterizzano l’identità e con i quali le dinamiche di mutamento si sono venute ad intrecciare come la fragilità e la vulnerabilità, l’alta sismicità, la ristrettezza delle aree di pianure (23%) e il complesso rapporto tra montagna e pianura, le problematiche legate ai diversi sistemi idrografici (il disordine idraulico e le piene nella Pianura Padana, l’interramento dei fiumi nel nord-est, il sistema torrentizio nell’Appennino centro-meridionale).  Ci si muove dunque verso una pratica storiografica che con grande sforzo dovrebbe cercare di tenere insieme tutte e tre le dimensioni: globale, nazionale e locale.

 

4. Una periodizzazione a geometrie variabili e la lunga fase dell’ecopolitics

Entro quali fasi storiche si articolano i processi che caratterizzano l’Antropocene in Italia? Nel mio testo Breve storia dell’ambiente in Italia ho preso le mosse da una partizione temporale molto rozza fondata su motivazioni di carattere politico-istituzionale ed economico: i decenni a cavallo dell’Unità nazionale, quelli tra Ottocento e Novecento a partire dall’avvio della crescita moderna, quelli successivi al secondo dopoguerra e il periodo dagli anni Ottanta del Novecento in poi.  Si tratta di una divisione convenzionale e di comodo per agevolare l’organizzazione del racconto storico poiché la periodizzazione è molto più complessa. Essa si può definire, “a geometrie variabili” e le scansioni temporali cambiano a seconda dei processi presi in considerazione all’interno di esse. A partire dall’unificazione nazionale l’intervento dello Stato crea i presupposti al pieno dispiegarsi dell’Atropocene. Mutuando Michel Focault si potrebbe sostenere che in questo periodo inizia la fase dell’ecopolitics.[20] L’Antropocene è legato alla costruzione dello stato nazionale, al national state building. E ciò è avvenuto sia creando le condizioni per un uso economico della natura e per la possibilità di costruire i mercati delle risorse, ma al contempo svolgendo una funzione di ordinatore e regolatore,  al fine di impedire alle forze di mercato di operare in maniera distruttiva sulla società e sull’ambiente. Lo Stato liberalizza e al contempo regola e ordina l’uso delle risorse. Con gli anni Ottanta del Novecento e il neoliberismo l’ecopolitics si indebolisce dando vita ad una fase molto più complessa e contraddittoria.

Per quanto riguarda lo studio dell’Ottocento nel suo complesso molti sono i filoni che si sono sviluppati a partire dall’analisi del diverso rapporto delle popolazioni con i differenti caratteri dei sistemi idrografici e con le loro peculiari problematiche (rischi di piene al nord, di insabbiamento dei fiumi nel nord-est e di dissesto idrogeologici nel Sud), e delle interrelazioni con le differenti configurazioni dei sistemi sociali. E qui rientra tutto il filone di studi sulle bonifiche. Sempre relativamente all’Ottocento un corposo filone di studi si è occupato delle modalità con cui i grandi processi globali di trasformazione, i motori del cambiamento sono andati ad impattare con i caratteri originali e in questi studi rientrano quelli sul basco e la deforestazione, sui cambiamenti del paesaggio agrario, sul dissesto idrogeologico.[21]

Tra questi occorre ricordare la definizione di un regime proprietario diretto a rendere la terra un bene commerciabile e privo di vincoli e lo smantellamento dei sistemi di uso collettivo delle risorse.[22] È interessante notare che il tema dei “commons” e della loro funzione ambientale ha avuto nel corso degli ultimi decenni una crescente attenzione nell’ambito di questi studi anche sulla scia delle opere di Elinor Ostrom, vincitrice del Nobel per l’Economia nel 2009.[23] Ed è dagli anni Ottanta del Novecento che si è sviluppata anche in Italia una letteratura storica che ha profondamente cambiato rispetto al passato il modo di guardare ai beni comuni e alla loro storia.[24]

Un aspetto centrale che emerge dalla letteratura storica è che i beni comuni sono stati forme locali di governo e di gestione del territorio. A fronte dei conflitti sociali e fazionali anche drammatici e violenti di cui erano oggetto, essi comunque hanno garantito forme di protezione delle risorse naturali e degli equilibri ambientali tali da preservarne le riproducibilità, e tali da tutelare il territorio da processi di distruzione e di devastazione: il sistema di vincoli e di regole che riguardava moltissimi ambiti (poteva cambiare da zona a zona), l’accesso del bestiame nei boschi e nei terreni coltivati, le aperture e le chiusure stagionali relative ai diritti di pascolo, l’uso delle tecniche di pesca, la raccolta e il consumo della legna, la costituzione di riserve forestali destinati a usi particolari a beneficio della comunità, l’uso esclusivo del bosco ceduo per l’approvvigionamento energetico, la regolamentazione che riguarda i forestieri e così via.

Per quanto riguarda i decenni tra Otto e Novecento è questa una fase in cui si fa più intenso l’intervento dell’azione umana nel modificare l’ecosistema Italia. E qui prendono avvio alcuni processi storici la cui analisi ha dato vita a importanti filoni di studio e di ricerca.

a) Il primo riguarda il cambiamento nel rapporto tra città e ambiente che è stato preso in considerazione da un sottofilone di questa storiografia più concentrato nella ricostruzione delle dinamiche che hanno caratterizzato l’Urban Environmental History e la presa in considerazione delle realtà urbane come ecosistemi.[25] Uno dei principali effetti della trasformazione che ha interessato il mondo occidentale grzie alla transizione demografica e a quella energetica ha riguardato l’espansione delle città, ecosistemi complessi che assorbono risorse (acqua, prodotti alimentari, combustibili) ed espellono residui (acque luride, gas inquinanti, rifiuti). Pur con tempi e ritmi differenti le istituzioni pubbliche realizzarono un vasto insieme di interventi ispirati al principi della cultura igienista dando vita alla sanitary city, momento fondante della città contemporanea.  Essa non si limitava alla realizzazione dei processi di infrastrutturazione urbana come la costruzione degli acquedotti e dei sistemi fognari ma rappresentava un modo di ripensare la città tutelando la salute pubblica nel quale rientra la nascita dell’Urbanistica.[26] Un’operazione dalle dimensioni epocali che ha messo al centro del dibattito pubblico e delle politiche d’intervento il tema delle risorse naturali come questione di igiene.[27]

b) Lo studio dell’impatto della prima industrializzazione che prende direzioni diverse. Una che si concentra sulle più generali trasformazioni del territorio indotte dall’insediamento delle fabbriche e una seconda direzione che ha un più spiccato carattere sociologico che guarda maggiormente al rapporto tra le comunità e i problemi dell’inquinamento. Si tratta di studi che in molti casi si prolungano anche a periodi successivi al secondo dopoguerra.[28]

c) Lo studio del movimento di protezione della natura ampiamente studiato da Luigi Piccioni che ha avuto come risultati oltre all’istituzione dei due Parchi Nazionali nel corso degli anni Venti anche l’approvazione nel 1922 della legge intitolata “Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico”. Queste norme prevedevano non solo di porre sotto tutela una serie di bellezze naturali di proprietà privata ad autorizzazione ministeriale, ma anche di non danneggiare il paesaggio e il panorama. Il carattere di questa forma di proto-ambientalismo fortemente centrata sull’idea che la consapevolezza pubblica delle bellezze del Paese potesse rafforzare l’identità nazionale, sulla concezione estetico-culturale del rapporto tra natura e società, sul concetto di “paesaggio” condizionerà con forza tutta l’impalcatura protezionista anche nell’Italia repubblicana. Non solo tali principi saranno riconfermati con la legge 1497 del 1939 intitolata “Protezione delle bellezze naturali”, ma il concetto di tutela del paesaggio verrà sancito nel secondo comma dell’articolo 9 della Costituzione.[29]

d) Un’ulteriore dinamica di trasformazione riguarda gli interventi messi in atto nell’ambito della tecnocrazia riformista e che erano finalizzati all’impiego della risorse idriche in un paese povero di carbone per promuovere l’industrializzazione italiana e colmare il gap tra Nord e Sud del paese. Questo tema, forse uno dei più classici e trattati dalla storiografia anche non strettamente ambientale, è guardato da questo particolare approccio storiografico con uno sguardo più attento all’analisi delle modifiche territoriali prodotte dall’insediamento dell’industria elettrica e dalla costruzione dei laghi artificiali. Oltre a ciò, non si può dimenticare il rilievo storico giocato dagli aspetti politico-culturali di una concezione degli equilibri eco sistemici che ha tentato di coniugare il tema della tutela a quella dello sviluppo. L’idea di Francesco Saverio Nitti e di Angelo Omodeo relativamente alla possibilità di recuperare nell’Italia meridionale le acque per l’industrializzazione solo attraverso una riforma generale del territorio in cui andavano a confluire rimboschimento, ripopolamento delle pianure e scomparsa del paludismo e della malaria, sarebbe stato il nucleo dal quale il gruppo di tecnici che si formarono in questi anni avrebbe dato vita ad una serie di interventi per la realizzazione della bonifica integrale nell’Italia meridionale[30]. Si lega a questo tema un filone di studi sul Mezzogiorno e la bonifica integrale che sarebbe in gran parte stata realizzata nel secondo dopoguerra grazie alle politiche d’intervento straordinario e all’azione della Cassa per il Mezzogiorno.[31]

e) Un filone a parte, ma comunque importante per quanto limitato è quello della sismologia storica che da un punto di vista cronologico abbraccia un arco temporale molto lungo e ha studiato i terremoti come “antirisorsa”. Gli studi più significativi sono quelli che fanno capo alla SGA (Istituto di Storia Geofisica e Ambiente di Bologna) e ad Emanuela Guidoboni ed il suo gruppo, e riguardano i forti terremoti e le trasformazioni del ruolo dello stato nei processi di ricostruzione dei territori dopo gli eventi sismici.[32] A questi studi che risalgono agli anni Ottanta e Novanta si affianca un approccio che ha dato vita recentemente ad un nuovo filone di studi che fa capo a Gabriella Gribaudi sull’intreccio tra storia e memoria dei terremoti e sull’impiego della categoria sociologica della “resilienza” e cioè la capacità di gestire il cambiamento da parte delle comunità coinvolte.[33]

Nel periodo successivo al secondo dopoguerra, siamo nel pieno dell’Italia dell’Antropocene. Si moltiplicano i fattori di trasformazione dell’ecosistema Italia. I processi di cambiamento hanno riguardato una molteplicità di ambiti che si sono manifestati in vario modo e sull’analisi dei quali si sono intrecciate vecchie e nuove ricerche, vecchie e nuove storiografie: l’Italia diventa una grande potenza industriale, cambiano i modelli di consumo e gli stili di vita, cresce la quota di consumi energetici fornita dal petrolio, si espandono le grandi e medie realtà produttive, si accentuano i fenomeni di inquinamento idrico e atmosferico, l’agricoltura si industrializza, si porta a compimento il cambiamento del rapporto tra montagna e pianura, si realizzano le bonifiche nell’Italia meridionale, si ripopolano le aree costiere e pianeggianti nel sud fino a quel momento infestate dalla malaria, cresce la popolazione urbana e si allargano le aree metropolitane. Con questa fase si aprono immensi campi di ricerca per la storia ambientale su cui gli storici italiani hanno lavorato poco. Non mancano tuttavia studi importanti sul rapporto tra sistemi urbano-industriali e ambiente, sull’industrializzazione dell’agricoltura, sulla nascita dell’ambientalismo politico italiano e le sue caratteristiche, sui rapporti tra ambientalismo e partiti di sinistra[34]. Pochi contributi hanno riguardato invece la storia della biodiversità e la storia dell’energia che è ancora un terreno di ricerca in gran parte inesplorato.[35] Per quanto riguarda quest’ultima il contributo più importante proviene dagli storici economici e dagli studi sui consumi energetici. Mancano invece studi come quelli che si sono sviluppati negli Stati Uniti nel corso degli ultimi dieci anni, studi di grande interesse e che si avvicinano ai temi dell’energia con un approccio politico-culturale come una serie di opere che mettono in relazione le scelte energetiche con quelle relative alle politiche e agli assetti istituzionali. Si tratta di testi come Carbon Nation di Bob Johnson, Carbon Democracy di Timothy Mitchell, Coal and Empire di Peter Shulman e altri ancora.[36]

Per quanto riguarda gli anni Ottanta, si tratta di un periodo fortemente contraddittorio. Sono gli anni della globalizzazione e della deindustrializzazione. In generale questa fase segna una svolta importante per quanto riguarda la maturazione di una consapevolezza pubblica dei problemi ambientali e la ricca produzione legislativa che copre un ampio spettro di temi e di questioni: la difesa del suolo, la promozione delle fonti rinnovabili di energia, l’istituzione delle aree protette, le acque, i rifiuti, le bonifiche delle aree ad alto rischio di inquinamento. Un effetto non solo del grande successo dell’ambientalismo politico, ma anche del crescente interesse della legislazione comunitaria verso la salvaguardia dell’ambiente e della salute umana oltre che verso un’utilizzazione razionale delle risorse. Un tema, quello del rapporto tra politiche europee e politiche nazionali che potrebbe offrire agli studi di storia dell’ambiente un campo di ricerca ancora poco arato. A fronte di questo successo che è sia politico-culturale che istituzionale, si è affermata nella società e nell’ambito dei poteri pubblici sia nazionali che locali una tendenza a contrastare il sistema di regole e a non applicare i principi e le politiche poste in essere. A ciò si aggiunga che le imprese hanno spinto ad un allentamento dei vincoli destinati alla tutela dell’ambiente, a limitare il ricorso alle politiche di “comando e controllo” e a indebolire di fatto il principio “chi inquina paga” da sempre l’ispiratore di tutta l’impalcatura del sistema europeo di norme sull’ambiente.[37] Quella dagli anni Ottanta ad oggi è una fase in cui si assiste ad una accelerazione del consumo del suolo, dell’abusivismo edilizio, dell’intensificarsi dell’inquinamento urbano, dell’espansione di ampie periferie prive di adeguati sistemi di infrastrutturazione sanitaria e trasportistica, del problema dei rifiuti con l’esplosione di gravi emergenze e dello sviluppo del fenomeno eco mafioso.

Concludendo non c’è dubbio che se la nuova categoria di ambiente ha conosciuto una diffusione importante soprattutto dopo gli anni Ottanta del Novecento, è pur vero che essa ha posto un reale problema di governance, poiché si è andata ad affiancare, sovrapporre e intrecciare con gli altri modi con cui storicamente, si è visto, l’ambiente è stato concepito: “paesaggio”, “igiene”, “territorio”. E qui si è venuta ponendo una problematicità che riguarda i rapporti di continuità/discontinuità tra queste categorie, l’intreccio e la sovrapposizione che non riguarda solo gli studi ma che è esso stesso un campo di ricerca importante che coinvolge la storia delle istituzioni preposte al controllo ambientale, le diverse forme di pianificazione (urbanistica, paesaggistica, ambientale, igienico-sanitaria). È urgente studiare e capire come la presa in considerazione della natura in quanto risorsa in sé e che rimanda alle matrici ambientali originarie abbia sostituito gli altri modi di “pensarla” nella legislazione e nelle politiche e abbia dato vita non solo ad un nuovo sistema di controlli, ma anche a contraddizioni ed inerzie. Una storia culturale dell’ambiente in Italia dovrebbe tenere conto del modo in cui si sono intrecciate e sovrapposte queste categorie e come esse siano andate a confliggere all’interno di istituzioni pubbliche sempre più complesse, trasformando spesso la preoccupazione per la tutela dell’ambiente in mera retorica incapace di agire concretamente sulla realtà.

 

 

[1] J. Kagan, The Three Cultures: Natural Sciences, Social Sciences ad Humanities in the 21st Century, Cambridge University Press, 2009.

[2] C.P. Snow, The Two Cultures, Cambridge University Press, 1959.

[3] Sulle difficoltà della storia dell’ambiente ad affermarsi in Italia come riflesso delle più generali resistenze culturali proprie delle scienze umane nel loro insieme ad affrontare tematiche che riguardano il ruolo della natura nelle vicende storiche si vedano le interessanti considerazione di Piero Bevilacqua in Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Roma, Donzelli, 1996 con particolare riguardo al paragrafo intitolato La natura imprevedibile e l’umana imprevidenza. Terremoti e disboscamenti, pp. 73 e sgg.

[4] D. Worster, Storia delle idee ecologiche, Bologna, il Mulino, 1994, p. 429 (ed. originale 1977).

[5] D. Houghes, What is Environmental History?, Cambridge, Polity Press, 2006.

[6] A tale proposito rimando alla rassegna contenuta in L. Di Fiore, M. Meriggi, World History. Le nuove rotte della storia, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011, in particolare pp. 65-73. Gli autori prendono in considerazione l’Environmental History come una delle più appropriate  applicazioni della storia globale e ne analizzano le principali opere.

[7] Su questo rimando a M. Agnoletti, S. Neri Serneri (eds.), A Basic Environmental History, Springer, 2014. Il volume contiene i saggi di Paolo Malanima, Enric Tello, Gabriel Jover-Avellà, Verena Winirwater, Stéphane Frioux, Stephen Mosley, Dieter Schott, Sabine Barles, Gianni Silei.

[8] Si veda V. Winirwater, Environmental History of Soils, in A Basic Environmental History, cit., pp. 79-120.

[9] Su questi aspetti rimando a S. Mosley, Environmental History of air pollution and protection, nello stesso volume, pp. 143-170.

[10] A tale proposito si veda A. Caracciolo, Continuità ed evoluzione delle problematiche ecologiche, in Fondazione Lelio e Lisli Basso, L’ambiente nella storia d’Italia. Studi e immagini, Venezia, Cataloghi Marsilio, 1989, pp. 5-6.

[11] Accanto a questo saggio vi erano quelli di G. Haussmann, Il suolo d’Italia nella storia, E. Sereni, Agricoltura e mondo rurale in Storia d’Italia, 1° vol., I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1972 rispettivamente pp. 5-60, pp. 63-132 e pp. 135- 252.

[12] Il riferimento è a J. Guldi, D. Armitage, The History Manifesto, Cambridge University Press, 2014 pubblicata in italiano da Donzelli nel 2016 con il titolo Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi.

[13] A tale proposito è stato pionieristico il volume di P. Bevilacqua, Tra natura e storia: ambiente, economie, risorse in Italia, cit..

[14] Per una ricognizione delle opere di questi autori rimando a E. Tiezzi, N. Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile? Le basi scientifiche della sostenibilità e i guasti del pensiero unico, Roma, Donzelli Editore, 1999.

[15] Si rimanda ancora una volta a D. Worster, Storia delle idee ecologiche, cit..

[16] A tale proposito rimando ancora una volta a L. Di Fiore, M. Meriggi, World History. Le nuove rotte della storia, cit..

[17] C. Ponting, Storia verde del mondo, Società Editrice Internazionale, 1992 (ed. originale The green history of the world, 1991); J. R. McNeill, Something new under the Sun. An Environmental History of the Twentieth-Century World, The Global Century Series, 2000; J. Radkau, Nature ad Power: A Global History of the Environment, Cambridge University Press, 2008;  D. Hughes, An Environmental History of the World: Humankind’s Changing Role in the Community of Life, London New York, Routledge, 2001, S. Mosley,  The Environment in World History, London New York, Routledge, 2010; P. Bevilacqua, La terra è finita. Breve storia dell’ambiente, Laterza, Roma-Bari 2006; F. Paolini, Breve storia dell’ambiente nel Novecento, Roma, Carocci, 2009.

[18] Da questo punto di vista rimangono due modelli di straordinario interesse i volumi di A. Crosby, The Colombian Exchange. Biological ad Cultural Consequences of 1492, Praeger, 2003 (ed. originale 1972) e Ecological Imperialism. The biological expansion of Europe 900-1900, Cambridge University Press, 1993.

[19] M. Gadgil, R. Guha, The Fissured Land. An Ecological History of India, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1993; I. G. Simmons, An Environmental History of Great Britain: from 10.000 years ago to the present, Edinburgh, Edinburgh University press, 2001; T. Steinberg, Down to Earth: Nature’s Role in American History, New York-Oxford, Oxford University Press, 2002; R.B. Marks, China. Its Environment and History, Rowman & Littlefield Publishers, 2011.

[20] Il riferimento è al testo di M. Focault, The Birth of Biopolitics. Lectures at the Collége de Frace, 1978-79, Michel Senellart (ed.), New York, Palgrave Macmillan, 2008.

[21] Anche in questo caso la bibliografia di riferimento è essenziale. M. Agnoletti, Osservazioni sulle dinamiche dei boschi e del paesaggio forestale italiano fra il 1862 e la fine del secolo XX, «Società e storia», 108, 2005, pp.377-396; M. Armiero, Il territorio come risorsa. Comunità, economie, e istituzioni tra i boschi meridionali, Napoli, Liguori, 1999; W. Palmieri, Il bosco nel Mezzogiorno preunitario tra legislazione e dibattito e R. Sansa, Il mercato e la legge: la legislazione forestale italiana nei secoli XVIII e XIX, entrambi in P. Bevilacqua e G. Corona (a cura di) Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo, Corigliano Calabro, Meridiana Libri, 2000, pp. 27-62 e 3-26; P. Tino, La montagna meridionale. Boschi, uomini, economie tra Ottocento e Novecento, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea a cura di P. Bevilacqua, I, Spazi e paesaggi, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 677-754.  Ricordo anche un volume collettaneo composto dai saggi di numerosi autori e cioè A. Lazzarini (a cura di), Disboscamento montano e politiche territoriali. Alpi e Appennini dal Settecento al Duemila, Roma, Franco Angeli, 2002.

[22] Per una ricognizione sui commons in Italia rimando al mio G. Corona, Declino dei “commons” ed equilibri ambientali: il caso italiano tra Otto e Novecento, «Società e storia», 104, 2004, pp.357-383. Per una visione europea si veda M.D. Demélas, N. Vivier (eds.), Les propriétés collectives face aux attaques libérales (1750-1914). Europe occidentale et Amèrique latine, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2003.

[23] Di questa studiosa ricordo qui E. Ostrom, Governing the Commons. The evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge, Cambridge University Press, 1990.

[24] Tra i prodotti collettivi il numero 81 di Quaderni storici, preceduto nei numeri 63 e 79 da articoli di Osvaldo Raggio ed Edoardo Grendi, il numero 70 di «Proposte e Ricerche» del 2012 in cui appaiono saggi di Luca Mocarelli e di Augusto Ciuffetti, i volumi di Renata Ago, Marina Caffiero, Bernardino Farolfi. E poi il libro collettaneo G. Alfani e R. Rao (a cura di) La gestione delle risorse collettive. Italia settentrionale, secoli XII-XVIII, Roma, Franco Angeli, 2011.

[25] Non si può dare conto in queste pagine interamente di questo filone di studi storico-ambientali. Un testo fondamentale della produzione europea è sicuramente il classico C. Bernhardt, G. Massard-Guilbaud (eds.), Le démon moderne. La pollution dans les sociètès urbanes et industrielles d’Europe/The modern Demon. Pollution in Urban and Industrial European Societies, Clermont-Ferrand, Presses Universitaires Blaise-Pascal, 2005.

[26] Sulle origini dell’urbanistica si veda E. Salzano, Fondamenti di urbanistica: la storia e la norma, Roma-Bari, Laterza, 1998.

[27]  Il capostipite di questo filone è considerato Martin Melosi di cui ricordiamo qui The Sanitary City, Baltimore-London, The John Hopkins University Press, , 2000. Per l’Italia si vedano i particolare  S. Neri Serneri, Incorporare la natura. Storie ambientali del Novecento, Roma, Carocci, 2005. Anche i numerosi saggi in G. Corona e S. Neri Serneri (a cura di) Storia e ambiente. Città, risorse e territori nell’Italia contemporanea, Roma, Carocci, 2007.

[28] Su questo rimando a due testi: S. Adorno e S. Neri Serneri (a cura di), Industria, ambiente e territorio. Per una storia ambientale delle aree industriali in Italia, Bologna, il Mulino, 2009 e P.P. Poggio e M. Ruzzenenti (a cura di), Il caso italiano. Industria chimica e ambiente, Milano, Jaca Book, 2012.

[29] L. Piccioni, Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia 1880-1934, Trento, Tipografia editrice TEMI, 2014 (ed. originale 1999). Dello stesso autore si veda Paesaggio della Bella Epoque. Il catalogo delle bellezze naturali d’Italia 1913-1926, in Il caso italiano. Industria, chimica e ambiente, cit., pp.99.121.

[30] Su questo passaggio rimando al bel libro di G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Torino, Einaudi, 1997. Con una maggiore attenzione agli aspetti di storia dell’ambiente A.F. Saba, Angelo Omodeo, Roma-Bari, Editori Laterza, 2005.

[31] Di questi due autori mi limito a citare L. D’Antone, L’“interesse straordinario” per il Mezzogiorno (1943-60), «Meridiana», 24, 1995, pp.17-64;  G. Barone, Stato e Mezzogiorno (1943-60). Il “primo tempo” dell’intervento straordinario, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni cinquanta, Torino, Einaudi, 1994, pp. 293-409.

[32] Ricordo qui solo due testi: E. Boschi, E. Guidoboni, G. Ferrari, G. Valensise, P. Gasperini, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 al 1990, Bologna, Istituto Nazionale di Geofisica-Sga, 1997 e E. Guidoboni, F. Mulargia, V. Teti (a cura di) Prevedibile/Imprevedibile. Eventi estremi nel prossimo futuro, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015.

[33] A tale proposito G. Gribaudi e A.M. Zaccaria (a cura di) Terremoti. Storia, memoria, narrazioni, numero monografico di «Memoria/Memorie», n.8, 2013.  Per quanto riguarda il dissesto idrogeologico, le frane e le alluvioni rimando a W. Palmieri, Dissesto e disastri idrogeologici nell’Italia unita, in G. Corona e P. Malanima (a cura di), Economia e ambiente in Italia dall’Unità a oggi, Milano, Bruno Mondadori, 2012, pp.125-145.

[34] Sulla bibliografia relativa a questo periodo rimando al mio Breve storia dell’ambiente in Italia, Bologna, il Mulino, 2015.

[35] Si pensi agli studi di Paolo Malanima. Ricordo qui il suo Le energie degli italiani. Due secoli di storia, Milano-Torino, Bruno Mondadori, 2013. 

[36] Ci si riferisce ai seguenti volumi: T. Mitchell, Carbon Democracy in the Age of Oil, London-New York Verso, 2011; B. Johnson, Carbon Nation: Fossil Fuels in the Making of American Culture, University Press of Kansas, 2014; P. A. Shulman, Coal and Empire. The Birth of Energy Security in Industrial America, Baltimore, John Hopkins University Press, 2015.

[37] Su questi temi si veda M. Franzini, Ambizioni e timidezza delle politiche ambientali europee, in G. Corona e R. Realfonzo (a cura di), Le politiche dell’ambiente in Italia, Milano, Franco Angeli, 1917, pp. 53-64.

 


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