Paesaggio, turismo e sviluppo sostenibile

di Grazia Arena e Maria Sorbello

NdA[1]

 

 

 

1. I valori del paesaggio nell’era della globalizzazione e il ruolo dell’educazione geografica

Ambiente, paesaggio, turismo, sostenibilità sono capisaldi geografici di enorme rilevanza che dagli anni Settanta del secolo scorso stimolano riflessioni e dibattiti cruciali in seno alla comunità accademica. Parimenti, rotti gli argini della geografia, hanno cominciato a destare l’interesse di numerose altre discipline, rappresentando, finalmente per tutte le forze intellettuali e politiche concetti fondamentali attraverso i quali declinare il tema dell’insostenibilità dell’azione modificatrice dell’uomo sugli assetti sistemici territoriali. Non vi è dubbio, infatti, che l’interesse per il bene paesaggistico-ambientale scaturisca da una diffusa presa di coscienza, alimentata dai movimenti ecologisti e da varie spinte di matrice legislativa, della pericolosità dei processi di trasformazione, quantitativamente e qualitativamente usuranti, che hanno alterato la fisionomia dei paesaggi. In particolare, tale coscienza collettiva affiora, con accenti critici, in seguito all’aggravarsi del degrado territoriale correlato all’urbanizzazione selvaggia e all’incipiente diffusione del fenomeno turistico in ambiti naturali. Di certo ha avuto un ruolo di rilievo anche la preoccupazione per i cambiamenti climatici e i dissesti naturali del nostro pianeta, che per frequenza, imprevedibilità e incidenza ambientale sono forieri di distruzione e perdita di identità paesaggistica.  Ma, dagli anni Ottanta, la coscienza ecologica fa perno anche sulla globalizzazione, ritenuta responsabile dei processi di omologazione e deterritorializzazione, attraverso i quali vengono cancellati  modelli di vita, forme insediative e valori identitari. Infatti, se da un lato essa seduce perché regala a tutti  l’illusione di poter vivere nello stesso spazio e nello stesso tempo, dall’altro lato produce  modificazioni irreversibili nei paesaggi, indebolendone  progressivamente il dato ecologico e quello simbolico, i caratteri geografico-estetici e il genius loci.

Il potere omologante della globalizzazione fa sì che il paesaggio da identitario, relazionale e storico si trasformi irrimediabilmente in «non-luogo», secondo la nota definizione dell’antropologo Augè, cioè in uno spazio standard, privato del senso delle specificità locali e dunque senza impronte identitarie.

Le società globalizzate, quelle sottoposte alle forze complesse dei  sistemi economici dominanti, hanno manipolato e inesorabilmente trasformato l’ambiente terrestre per soddisfare le loro crescenti necessità materiali, e a tal fine, peraltro, non si sono preoccupate della penuria delle risorse non rinnovabili e della limitatezza di tante materie prime. Piuttosto, grazie ai progressi della tecnologia, hanno sfruttato illimitatamente la natura con effetti ambientali rilevanti e irreparabili anche sui paesaggi. Lo scenario odierno contempla società ricche e capitalistiche in forsennata corsa verso la crescita e il benessere ad alti livelli. Tutto ciò non è stato senza effetti, come è desumibile da numerosi indicatori, primo fra tutti il paesaggio, che appare compromesso, insostenibile e modificato, nelle sue qualità ambientali e nella sua specificità culturale, con i segni deturpanti di ogni forma di inquinamento e degrado. Tali forme di degrado paesaggistico-ambientale altro non sono che le «deiezioni» di una società di consumo per la quale la natura è persino ingombrante,[2] le  «deiezioni» di una umanità  che corre senza freni sospinta dalle ideologie della globalizzazione e dalle logiche del mercato, che vive all’impazzata  il presente «correndo verso il  baratro».[3]
Questo processo invasivo e  inarrestabile di globalizzazione, che annulla barriere e coinvolge merci, popolazioni e luoghi in una osmosi confusa, distrugge non solo i valori storico-culturali elaborati nel tempo da ciascuna comunità e impressi nei paesaggi, ma anche le potenzialità endogene di sviluppo che potrebbero essere innescate da una loro fruizione sostenibile.

La cultura recente, infatti, al di là delle valenze estetiche ed ambientali, riconosce al paesaggio un peso economico, considerandolo una risorsa sulla quale investire per la promozione territoriale. Nelle stratificazioni di cui è depositario si nascondono i caratteri originali e individualizzanti dell’identità locale con la quale oggi si promuove il territorio, se ne assicura la sopravvivenza e lo sviluppo, nonostante alcuni processi orientati dalla globalizzazione. Lo spettro problematico relativo alla sorte dei paesaggi comprende anche il grave danno che potrebbero subire le generazioni future, le quali, a causa delle scelte insostenibili del passato e del presente, finirebbero per ereditare la piatta omogeneità di numerosi paesaggi, vedendo tradito il loro diritto a godere di un bene comune ed universale, che deve essere trasmesso integro di generazione in generazione, come sancito dal principio dell’Equità Sociale che rappresenta lo zoccolo duro del concetto di ‘sviluppo sostenibile’.

Nelle odierne società globalizzate, fluide e senza barriere, travolte da una cultura omologante, diviene dunque urgente il bisogno di ridare valore alla tutela dei paesaggi, in quanto depositari di differenti e millenarie espressioni culturali, che ne fanno spazi di riconoscimento identitario in grado di radicare la collettività ai luoghi e di contrastare, o compensare,  il «nulla della globalizzazione».[4] La risposta alla globalizzazione risiede, a nostro avviso, proprio nel recupero di tali identità con le quali le comunità possono sollecitare dall’interno uno sviluppo locale, senza tuttavia rinunciare alla dialettica dei processi globali.
La crescente domanda sociale di fruizione della natura, l’orgoglio di appartenenza ad una comunità con spiccate fisionomie socio-culturali e le reazioni ai processi di omogeneizzazione che tentano di cancellare tali specificità impongono, oggi, di sottoporre il paesaggio a politiche idonee e socialmente condivise che riportino l’attenzione su alcuni punti con i quali è proficuo confrontarsi:

a) il paesaggio è depositario di una molteplicità di valori territoriali, ecologici e funzionali. Esso è anzitutto un paradigma esemplificativo della forza creativa dell’uomo, poiché reca in sé le tracce millenarie di una identità collettiva di tipo storico-culturale, artistico-monumentale ed archeologico, che è il frutto di un rapporto unico e irripetibile tra l’uomo e il territorio. Il paesaggio possiede anche un insieme di valori funzionali che sono diretta espressione della capacità delle antiche comunità di vivere in perfetta sintonia con la natura, portando avanti il loro sviluppo economico con attività legate alle opportunità e alle risorse della terra oggi definite eco-compatibili. Infine, in molti casi, il paesaggio racchiude valori ecologici rappresentati dalle risorse naturali non rinnovabili e dalla biodiversità;

b) il paesaggio gioca un ruolo straordinario nel sensibilizzare le coscienze, perché è un laboratorio a cielo aperto, di tipo storico, antropico e naturalistico di enorme valenza educativa a cui accostare le nuove generazioni per una fruizione sostenibile. Esso è un contenitore di vita, una narrazione millenaria del legame esclusivo e profondo tra l’uomo e la natura e delle loro  relazioni virtuose. Ed è proprio la riscoperta di queste relazioni che stimola atteggiamenti etici ed impegno civico  e aiuta a ridefinire i progetti dello sviluppo in direzione ecosostenibile;

c) il paesaggio risveglia la dimensione percettiva ed emozionale degli uomini rafforzando il senso dell’identità territoriale e di appartenenza degli abitanti ai luoghi. La presa di coscienza del valore dei paesaggi, oltre a restituire un enorme bagaglio di significati culturali e stimolare il dovere di comportamenti etici verso l’ambiente, risveglia il senso del bello, tocca l’anima con emozioni di meraviglia, traina verso il cambiamento  culturale, verso l’apprezzamento della natura e il bisogno di prendersene cura. Non va dimenticato che alcuni illustri geografi del passato, agli albori degli studi sul paesaggio, sono stati incantati proprio dal “bello” dei paesaggi, a dimostrazione della forza attrattiva, universalmente riconosciuta, della “bellezza paesaggistica”;

d) il paesaggio è la “bussola” che può orientare il nostro agire sul territorio. È il vero «indicatore di sostenibilità o insostenibilità»,[5] perché misura e svela la nostra capacità o incapacità di relazionarci con le risorse ambientali e con la nostra storia. Proprio nel paesaggio dobbiamo ricercare i suggerimenti per modificare i nostri comportamenti.

Questi sono solo alcuni degli elementi distintivi che dovrebbero conferire al paesaggio un peso fondamentale nella pianificazione territoriale, affinché esso diventi uno strumento sostenibile per costruire il benessere durevole delle comunità.

Ci si chiede a questo punto: nel cammino di progressiva “riappropriazione” dei paesaggi, e di ciò che la storia in essi ha sedimentato, che ruolo svolge la geografia? Da tempo i geografi temono per le sorti del paesaggio e danno prova di grande interesse per i temi della conservazione e corretta fruizione del patrimonio paesistico-ambientale. Nell’ultimo ventennio, in particolare, data la pesante incidenza del degrado ambientale, i geografi sono stati tra i primi a far riflettere sui rischi che corrono i paesaggi e sull’importanza della sensibilizzazione delle comunità attraverso l’educazione ambientale. Non a caso la geografia, oggi, è il fuoco di una importante progettualità che la vede interlocutore  privilegiato in un’opera di informazione e sensibilizzazione volta a diffondere i contenuti culturali e ambientali dei paesaggi. Essa è l’unica disciplina che in chiave complessa, articolata e sistemica riesce e leggere le poliedriche testimonianze che fanno di ogni paesaggio un unicum.  Senza dubbio, i temi del paesaggio e dell’ambiente sono di stretta e pregnante competenza della geografia, alla quale dunque va riconosciuta l’indiscussa capacità di educare al rispetto dell’ambiente e di stimolare comportamenti individuali responsabili.

La geografia, inoltre, si avvale del metodo scientifico-matematico per indagare l’articolato insieme di ogni paesaggio e interpretarne la trama complessa dell’organizzazione territoriale,  nelle sue fattezze sensibili e nei valori culturali, etici e simbolici. Questo vuol dire che essa dispone delle conoscenze culturali e degli strumenti scientifici necessari per leggere in modo completo il  rapporto bidirezionale tra gli elementi della natura e le componenti antropiche. In particolare, la geografia sa cogliere le fattezze fisiche dei paesaggi, ma possiede anche quella sensibilità che le consente di leggerne «l’humanitas»,[6] cioè le tracce culturali, i valori prodotti dal susseguirsi di popoli e accadimenti, spesso nascosti, sedimentati e non immediatamente percepibili. La doppia chiave di lettura di cui questa disciplina dispone può restituirci una visione di sintesi di tutte le componenti del paesaggio: ambientali, culturali, storici, simbolici; quale disciplina di intermediazione tra saperi scientifici e saperi umanistici, la geografia garantisce una conoscenza olistica del paesaggio.

Non può essere trascurato, infine, il fatto che la geografia, in quanto scienza del territorio e per il territorio, ha forti connotazioni di scienza applicata e sollecita dunque la conoscenza sul campo. Non si può pensare oggi di comprendere, spiegare e preservare i paesaggi senza averne esperienza concreta. 
L’approccio diretto di conoscenza dei paesaggi deve ritenersi di elevato significato perché è l’unico che possa tradursi nel tempo in un cambiamento culturale, valoriale, etico, che andrà a sostanziare, all’insegna del rispetto delle qualità ambientali, il rapporto uomo-natura. Questo cammino fatto di avvicinamento degli uomini ai paesaggi, di contatto profondo e diretto, è quello che, a nostro avviso, può saldare la frattura tra uomo e paesaggio, ad oggi visibile nelle manifestazioni territoriali di degrado. Invece, la prolungata e complessa elaborazione di leggi, divieti, convenzioni, seppur fondamentale, pare non sia stata sufficiente a diffondere una sensibilità ecologica tale da bloccare l’erosione dei paesaggi che abbiamo ereditato.

Nell’era della globalizzazione il paesaggio ritrova una nuova centralità grazie anche alla geografia che ha efficacemente denunciato, in molti lavori di valore scientifico, come il paesaggio continui ad essere minacciato dall’urbanizzazione dirompente, e, soprattutto, dall’imponenza della progressiva modificazione dell’identità dei luoghi. La geografia, affrontando la questione della salvaguardia paesaggistica, ha generato una sensibilità nuova verso i segni manifesti, o deboli e nascosti, che il paesaggio esprime, e ha indicato una prospettiva di interventi urgenti e di scelte etiche affinché si arresti  la deriva dei paesaggi.
Oggi, grazie a questa presa di coscienza, i paesaggi, sempre più frequentemente, vengono decodificati e rivalutati in seno  alla recente pianificazione territoriale, peraltro ormai a maglie larghe, al fine di includere nella tutela anche quelli di minor  pregio.
Ecco perché l’insegnamento di questa disciplina, spesso tristemente avvilito, dovrebbe invece essere raccomandato vivamente all’interno di ogni ordine e grado della scuola, affinché sin dai primi anni di formazione possa trasmettere ai giovani, ai quali è affidato idealmente e praticamente il futuro del nostro pianeta, i valori dell’ambiente e del paesaggio, quali valori dell’umanità.

Rivolgere la dovuta attenzione alla ricchezza del paesaggio, alla convergenza che in esso si osserva di aspetti naturali, culturali, estetico-percettivi, diffonderne la conoscenza, vuol dire privilegiare un approccio che è veramente ispirato al paradigma ecologico. Non a caso nella Convenzione Europea il paesaggio prende forma come perno culturale, economico ed ecologico delle comunità locali. Sottrarsi invece a queste fondamentali riflessioni sulla centralità del paesaggio nell’educazione all’ambiente vuol dire “allestire” uno scenario di crisi, in cui saranno travolte storia, natura, cultura, decretando la parabola autoconclusiva di paesaggi millenari.

 

2. L’importanza della Convenzione Europea del Paesaggio

La perdita di caratteri peculiari, fortemente identificanti, è l’ovvio dato fisico del degrado dei paesaggi. E in rapporto all’accelerazione di certe forme di degrado (si pensi agli ingenti flussi turistici che da tempo si indirizzano verso le coste e ne usurano i tratti paesaggistici dominanti), molteplici forze sono scese in campo con azioni di tutela.
L’UNESCO, ad esempio, ha proclamato la centralità del paesaggio nelle società contemporanee, inscrivendo una miriade di paesaggi nel Gran Libro del Patrimonio dell’Umanità da tutelare, valorizzare e lasciare in eredità alle future generazioni. Con questa operazione, che fa riflettere sull’importanza di valorizzare il paesaggio in maniera razionale e programmatica, tanti luoghi celebri per connotazioni materiali, valoriali e simbolici,  hanno avuto una consacrazione a scala mondiale, e vengono costantemente tutelati dalla soverchiante e pericolosa minaccia dell’azione umana.
Inoltre, una parte della società, saldamente ancorata ai nuovi valori ecologici, lotta da tempo contro l’intrinseca insostenibilità di un certo modello di crescita economica, che depaupera il territorio dei suoi paesaggi, affinché il “capitale” paesaggistico sedimentatosi nel tempo venga tutelato e goduto dalle generazioni future.  Questo dinamismo di interventi testimonia  la volontà integrata della collettività, degli attori pubblici e privati, dei legislatori e degli intellettuali di far convergere le loro forze e competenze verso una gestione dei paesaggi che ne esalti le valenze e ne innovi le potenzialità.

Benché gli sforzi normativi per tutelare l’integrità dei paesaggi approdino sui tavoli della politica e degli amministratori europei e italiani con lentezza e colpevole ritardo rispetto, ad esempio, all’America, hanno tuttavia una importante storia di contenuti e strumenti e si caratterizzano per la loro stretta correlazione con le singole realtà territoriali e con le differenti vicende di degrado ambientale. Data l’oggettiva difficoltà a tracciare una storia della politica di tutela del paesaggio, si ritiene utile restituire solo succintamente un quadro di quella tappa fondamentale che ha portato alla ribalta, a livello nazionale e sopranazionale, le problematiche paesistico-ambientali e le connesse questioni etiche ed economiche, vale a dire la Convenzione Europea del Paesaggio.[7]

Adottata il 19 luglio del 2000 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, ed entrata in vigore in Italia il 1° settembre 2006 (ma nel 2004 in numerosi altri Paesi), essa è espressione di una cultura internazionale del paesaggio che oggi può dirsi attecchita profondamente, seppur nelle differenti articolazioni che ha assunto nell’esperienza dei singoli Paesi firmatari. La Convenzione fonda i propri dettami normativi sul riconoscimento della centralità del paesaggio in ogni parte del territorio europeo in quanto espressione di specificità e diversità culturale. Il paesaggio, secondo la Convenzione, va quindi sempre difeso da ogni rischio di modificazione, indipendentemente dal valore culturale attribuitogli. A tal riguardo l’articolo 5.a della Convenzione impegna i Paesi firmatari a «[…] riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità».[8] Mentre l’articolo 2 sottolinea che «[…] la Convenzione si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati».[9] In altre parole, il principio base della Convenzione è la protezione giuridica dei paesaggi, in ogni caso e in ogni luogo, anche se non presentano caratteri di pregio. In questo senso tutto il territorio di un paese può assumere rilevanza paesaggistica. Nel riconoscere valore all’insieme paesaggistico-territoriale di un dato Paese, la Convenzione è da ritenersi un documento epocale che si spinge ben oltre le solide interpretazioni di paesaggio formulate, nel 1992,  dal Comitato del Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale dell’unesco, le quali insistono sull’espressione “paesaggio culturale” per sottolineare che la Convenzione dell’unesco non è destinata alla tutela di tutti i paesaggi, ma solo a quella dei paesaggi eccezionali ed universali, cioè di straordinario valore culturale. La Convenzione europea, invece, si rivolge a tutti i paesaggi,[10] di tutto il territorio nazionale, come visto, anche quelli della vita quotidiana, anche se degradati, per salvaguardarne ed esaltarne i valori identitari ancora presenti e accrescere, grazie ad essi, il senso di radicamento delle comunità ai luoghi. E al fine di un reale avvicinamento delle comunità ai loro paesaggi di vita, assai significativo è l’incoraggiamento contenuto nella Convenzione a non imporre scelte dall’alto, ma a coinvolgere costantemente la comunità locale, intesa come insieme di forze politico-amministrative e sociali. In particolare, ai tavoli della concertazione, pur sempre affidati alla responsabilità di politici e tecnici, non deve mancare la condivisione e l’intesa con la componente sociale, perché solo ascoltando le popolazioni e attribuendo il giusto peso alle relazioni che intercorrono tra società e territorio, comunità e luoghi si possono avanzare proposte di interventi efficaci in materia di paesaggio. Questa esigenza di larga condivisione tra le parti interessate è espressa dalla Convenzione attraverso un puntuale  invito, nell’articolo 4, a rispettare il principio di sussidiarietà e autonomia locale  che era stato affermato sin dal 1988, e sotto gli auspici del Consiglio d’Europa, con l’approvazione della Carta europea dell’autonomia locale. Il suddetto articolo recita infatti che «Ogni parte applica la presente Convenzione […] nel rispetto del principio di sussidiarietà, tenendo conto della Carta europea dell’autonomia locale […]». E in tale documento, all’articolo 4.3, si legge che «L’esercizio delle responsabilità pubbliche deve, in maniera generale, incombere, di preferenza, alle autorità più vicine ai cittadini. L’attribuzione di una responsabilità ad un’altra autorità deve tenere conto dell’ampiezza e della natura del compito e delle esigenze d’efficacia e d’economia». E ancora, «Per autonomia locale si intende il diritto e la capacità effettiva per gli enti locali di regolare e gestire, nell’ambito della legge, sotto la propria responsabilità e a vantaggio delle proprie popolazioni, una parte importante degli affari pubblici»[11] (Priore 2005, p. 109).

Nell’odierno dibattito politico e intellettuale sulla valorizzazione  sostenibile dei paesaggi, la Convenzione ha assunto una indiscussa centralità, perché ha affermato un concetto di paesaggio vasto, che abbraccia la vita quotidiana delle comunità, nei suoi aspetti economici, sociali, ambientali e culturali, e che  presuppone una prospettiva di governance pienamente partecipata, volta ad uno sviluppo locale sostenibile e durevole. Questa accezione di paesaggio implica, infatti, come inevitabile conseguenza, alcune precise scelte operative che rendono possibile lo sviluppo sostenibile:

• il riconoscimento del valore primario del paesaggio in tutte le attività che interessano il territorio e che potrebbero profondamente modificarlo;

• il coinvolgimento delle comunità locali nelle scelte che riguardano in generale la tutela, la gestione e la valorizzazione dei loro paesaggi, soprattutto se sono interessati da trasformazioni ai fini economici;

• l’integrazione e la collaborazione tra i diversi livelli politici, da quelli statali a quelli locali, e tra la politica ed altri enti, sia pubblici che privati;

• la sensibilizzazione delle comunità attraverso un intervento educativo che trasmetta i valori del paesaggio e diffonda la consapevolezza dei rischi che li minacciano.

Attraverso la costante applicazione di questo schema operativo, la Convenzione consente di orientare la pianificazione territoriale verso gli obiettivi dello sviluppo sostenibile o, laddove le scelte appaiono più complesse, verso la loro approssimazione. Essa, infatti, per la ricchezza di approcci che le è propria, si pone ad oggi come il più importante strumento giuridico e poilitico europeo in grado di tutelare l’ingente ricchezza identitaria dei paesaggi, materiale e immateriale, e di farne, nel contempo, inestimabile risorsa per uno sviluppo locale durevole, che coniuga benessere economico, sostenibilità ambientale ed equità sociale (i tre pilastri dello sviluppo sostenibile).
Il paesaggio ha finalmente acquistato grande vigoria nel determinare, a livello politico, scelte equilibrate tra attività economica, ambiente e bisogni sociali, imponendosi come “elemento chiave del benessere individuale e sociale”; in particolare, come opportunità prioritaria per promuovere un turismo culturalmente ed eticamente orientato, e quindi sostenibile.

 

3. Il significato, il percorso e gli obiettivi del turismo sostenibile

Il termine “sostenibile” è oggi talmente usato nella vita di tutti i giorni e nei campi più svariati del sapere da aver subito una vera e propria inflazione, perdendo nella maggior parte delle volte il suo significato originale, derivante dal verbo latino sustinere che significa “reggere”. I dizionari della lingua italiana ne danno la seguente definizione: “Che si può sostenere”. I soggetti che dovrebbero sostenere il peso in modo da “non stramazzare a terra” sarebbero i luoghi e il territorio nel suo complesso, che ben lungi dall’essere bestie da soma, sono “soggetti culturali”, che  parlano del lungo processo di antropizzazione attraverso il paesaggio, restituendo identità, memoria, lingua, culture materiali, e messaggi sia simbolici che affettivi.[12]

Delle soluzioni per la salvaguardia dell’ecosistema e per l’attuazione di misure atte a ridurre il gap tra paesi ricchi e paesi poveri o in via di sviluppo si è cominciato a parlare da più di due ventenni, a iniziare dagli anni Settanta del Novecento, quando il problema del degrado ambientale, dovuto all’eccessiva pressione della popolazione, all’abusivismo edilizio, all’inquinamento, al turismo selvaggio, emerse in tutta la sua gravità, tanto che nel 1970 Aurelio Peccei del Club di Roma commissionò una ricerca agli studiosi del MIT dal titolo “I limiti dello sviluppo”, i cui risultati vennero resi noti nel 1972, dal quale anno ebbe inizio una lunga sfilza di conferenze riguardanti le misure di salvaguardia ambientale da adottare attraverso la promulgazione di apposite leggi. La prima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul rapporto ambiente e sviluppo fu indetta a Stoccolma, e negli anni seguenti se ne svolsero molte altre, fino ad arrivare nel 1987 al rapporto commissionato dalle Nazioni Unite intitolato Our Common Future (noto anche come “relazione Brundtland”), nel quale venne usato per la prima colta il termine “sviluppo sostenibile” da parte della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo. Il concetto di sostenibilità fu ribadito cinque anni dopo, nel 1992, alla conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e sullo sviluppo (Unced), nota come Earth Summit, di Rio de Janeiro, nella quale si affrontarono alcuni temi importanti e ancora attuali riguardanti  l’abuso di combustibile fossile ritenuto responsabile del cambiamento climatico globale, la possibilità di produrre energia tramite fonti rinnovabili, la crescente scarsità di acqua, le emissioni dei veicoli, la congestione nelle grandi città e i problemi di salute causati dallo smog.

Ed è in seno a questa conferenza che ufficialmente si manifestò pubblicamente l’auspicio dello “sviluppo sostenibile”, evidente nell’attuazione dei suoi tre principi fondamentali: la salvaguardia dell’ecosistema, l’efficienza economica, da raggiungere con l’uso di fonti energetiche alternative al petrolio e a tutte le risorse non rinnovabili, e l’equità sociale, intra ed intergenerazionale.

 

Le tappe fondamentali delle Sviluppo e del Turismo Sostenibile

 

1972

Stoccolma – Conferenza Onu sull’Ambiente

 

1980

Strategia Mondiale per la Conservazione, IUCN (International Union for Conservation of Nature)

 World Conservation Strategy of the Living Natural Resources for a Sustainable Development

1983

Commissione Mondiale su Sviluppo e Ambiente (ONU)

1987

Rapporto Brundtland, Our Common future, Il nostro futuro comune.

1992

Rio de Janeiro- Earth Summit, Conferenza delle Nazioni Unite (UNCED) sullo Sviluppo Sostenibile. Agenda 21 e Convenzione quadro sui cambiamenti climatici

1993

Italia. Piano Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile

1994

Aalborg. I Conferenza Europea sulle Città sostenibili

1995

Lanzarote. I Conferenza Mondiale sul Turismo (WCST)

1996

Lisbona. II Conferenza Europea sulle Città sostenibili

1999

Italia. Conferenza di Ferrara: istituzione del coordinamento Agende 21 locali italiane. Ministero dell’Ambiente: istituzione del Servizio per lo Sviluppo Sostenibile

2000

Hannover. III Conferenza Europea sulle città sostenibili

2001

Consiglio Europeo di Göteborg.  VI Piano di Azione Ambientale UE 2002-2010: Ambiente 2010, il nostro futuro, la nostra scelta

2002

Johannesburg. Vertice Mondiale sullo sviluppo Sostenibile, Rio+10,  From our origins to the future, Dalle nostre origini al futuro

2002

Québec city. Summit mondiale sull’ecoturismo. WTO,UNEP

 

2003

Djerba (Tunisia). I Conferenza Internazionale sul Cambiamenti Climatici e Dichiarazione di Djerba Turismo, WTO

 

2003

UNEP. Turismo e biodiversità

 

2005

UNEP e UNWTO. Guida di approcci e strumenti efficaci per lo sviluppo e l’implementazione di politiche per il turismo sostenibile

 

2008

Rimini. Conferenza Internazionale sul Turismo sostenibile

2012

Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile (UNCSD) The Future we want denominata anche Rio+20, in quanto tenutasi a 20 anni di distanza dal Vertice della Terra di Rio de Janeiro UNCED del 1992.

2017

Costarica. Conferenza internazionale sul turismo sostenibile

 

 

Parallelamente al concetto di sviluppo sostenibile, venne reso manifesto anche quello di una crescita economica derivante dall’attuazione di un turismo rispettoso dell’ambiente, dei segni culturali e dei territori, in grado di offrire opportunità di lavoro e benessere per le popolazioni locali, in conformità al principio di equità sociale, teso alla riduzione del divario tra ricchi e poveri, paesi del nord e del sud del mondo.

 Come disposto nell’Agenda 21, documento riguardante la linea d’azione da intraprendere per un corretto cammino verso la sostenibilità in tutti i campi, questo nuovo modo di concepire il turismo si fondava e si fonda tuttora su tre importanti pilastri, che, se integrati tra loro, rappresenterebbero la soluzione a quelle forme di turismo selvaggio dai grandi impatti negativi  sull’ambiente:

• la sostenibilità socio-culturale

• la sostenibilità ambientale

• la sostenibilità economica

 Il cammino per un turismo allineato ai principi dello sviluppo sostenibile continuò in modo continuo e costante attraverso altre azioni incisive, quali quella della Conferenza di Lanzarote del 1995, in seno alla quale venne sancita la Carta sul turismo sostenibile con i suoi principi basilari, proiettati verso obiettivi e priorità miranti all’attuazione di un nuovo modo di viaggiare, rispettoso dell’ambiente, promotore di benessere e proiettato nel futuro.[13]

L’esigenza di fare “turismo sostenibile” è stata inoltre espressa persino nei documenti finali di Rio20, The Future we want, sebbene la sostenibilità delle attività legate al turismo risulti abbastanza difficile da definire,[14] in quanto si rivela differente a seconda dei diversi contesti territoriali.

Da quanto accennato sarebbe sostenibile solo quel turismo che tiene conto del fatto che le risorse su cui poggia non sono illimitate, in contrapposizione ad un turismo dalle mete che, pur giuste (parchi o musei),  continua ad appoggiarsi sugli stessi presupposti insostenibili del turismo di massa, e soprattutto, sarebbero sostenibili tutte le pratiche turistiche che non impediscano, o in ogni caso non inibiscano o alterino le potenzialità future della destinazione. Il turismo sostenibile, dunque, non sarebbe un tipo di turismo tra tanti, ma l’unico modo per fare turismo senza distruggere le premesse naturali, culturali e sociali su cui si fonda la capacità attrattiva delle destinazioni.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2015 ha visto più di 150 leader internazionali che si sono incontrati  per contribuire allo sviluppo globale, promuovere il benessere umano e proteggere l’ambiente, approvando l’Agenda 2030,  in cui tra gli elementi essenziali da discutere e programmare, divisi in 17 obiettivi, è presente anche l’argomento riguardante il turismo sostenibile. Infatti, nel punto 12, si dice espressamente di «sviluppare e implementare strumenti per monitorare gli impatti di sviluppo sostenibile per il turismo sostenibile, che crea posti di lavoro e promuove la cultura e i prodotti locali».

 Il 2017 infine è stato dichiarato dalle Nazioni Unite l’anno internazionale del turismo sostenibile, che oggi rappresenta la sfida per uscire dalla crisi economica attuale, valorizzando non solo il patrimonio storico-artistico, ma tutto il territorio con le sue vocazioni economiche, sociali e culturali. E fortunatamente sta diventando un argomento centrale anche nella quotidianità, come rivelano alcuni dati dell’Osservatorio Nazionale sullo Stile di Vita Sostenibile, dai quali si evince come in ambito turistico gli Italiani disposti a spendere di più per organizzare vacanze sostenibili, nel rispetto dell’ambiente e in sostegno delle economie locali siano in aumento, chiaro indice di una maggiore cultura e sensibilità per il benessere psico-fisico e per l’ambiente, visto come un prolungamento del proprio corpo. Il turismo ha dunque cambiato volto: al turismo tradizionale, che predilige luoghi già noti e che viene attuato senza riguardo per il contesto ambientale e territoriale, si preferisce un turismo sostenibile e responsabile che propone itinerari alternativi nel pieno rispetto della natura e del territorio e dell’ambiente.
Oggi il turismo duraturo e rispettoso dell’ambiente è argomento affrontato in tutti i livelli, sia in ambito accademico, che fra gli operatori e i politici del turismo, in ragione della straordinaria crescita a livello planetario del numero di persone in movimento, che all’inizio del nuovo secolo ha superato il miliardo all’anno. E al viaggiare senza arrecare danni agli ecosistemi e ai luoghi in genere con tutte le loro caratteristiche naturali e culturali mirano non solo i turisti, più colti e sensibili ad uno stile di vita in armonia con l’ambiente rispetto quelli di qualche decennio fa, ma tutti coloro che si occupano della salvaguardia attiva del territorio. A volte però i risultati appaiono ancora lontani dalle aspettative e le azioni intraprese non si rivelano corrette e vincenti come pensato. Visto che qualsiasi opera attuata  ha sempre un certo impatto territoriale, questo,  nell’ottica dello sviluppo sostenibile, dovrebbe essere minimo, nel pieno rispetto non solo dell’ambiente ma anche del benessere socio-economico delle popolazioni locali.

Il turismo è un’arma a doppio taglio: se da un lato costituisce uno dei settori mondiali a più alto sviluppo, potenziale promotore di crescita economica per i territori e i loro abitanti, dall’altro una sua crescita rapida e incontrollata potrebbe minacciare le diversità biologiche e le culture indigene. I turisti responsabili ed attenti ai principi della sostenibilità devono mettere in atto gli strumenti più idonei per ridurre di molto le conseguenze della loro presenza, orientati verso il rispetto per le comunità culturali ed il sostegno all’economia dei territori tramite l’acquisto dei prodotti tipici locali.
In definitiva sarebbero sostenibili tutte le pratiche turistiche che non depauperino l’ambiente e il territorio, che al contrario deve essere esaltato e reso appetibile non solo per le popolazioni odierne ma anche per le generazioni  future. Il turismo così cessa di agire come una monocultura che alla lunga “desertifica” il territorio privandolo della sua identità e delle peculiarità che lo hanno reso attraente, e diventa strumento di una valorizzazione che dura nel tempo e non altera le potenzialità future della destinazione.

Nel 2001, l’UNESCO ha ampliato il concetto di sviluppo sostenibile indicando che «[...] la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura [...]. La diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mezzo per condurre una esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale». (Art. 1 e 3, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale, UNESCO, 2001). Da questa prospettiva la diversità culturale costituisce il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile, accanto al tradizionale equilibrio delle tre E (Ecologia, Equità, Economia).

Nel 2004, l’OMT ha inoltre individuato tre prerogative basilari del turismo sostenibile:

1. Le risorse ambientali devono essere protette.

2. Le comunità locali devono beneficiare del turismo sia in termini di reddito sia in termini di qualità della vita.

3. I visitatori devono vivere un’esperienza di qualità.

Questa definizione di turismo sostenibile si rivela chiarificatrice riguardo il parametro di orientamento da seguire, eliminando qualsiasi dubbio sul suo significato, obiettivi e finalità:

 

Lo sviluppo del turismo sostenibile soddisfa i bisogni dei turisti e delle regioni ospitanti e allo stesso tempo protegge e migliora le opportunità per il futuro. Si tratta di una forma di sviluppo che dovrebbe portare alla gestione integrata delle risorse in modo che tutte le necessità, economiche, sociali ed estetiche possano essere soddisfatte mantenendo al tempo stesso l’integrità culturale, i processi ecologici essenziali, la diversità biologica e le condizioni di base per la vita.

 

Tutto questo presuppone l’attuazione di soluzioni di management territoriale e di sviluppo che portino con sé il rispetto di principi base, tra i quali, come già precedentemente accennato, la necessità di soddisfare i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere quelli delle generazioni future e il senso di responsabilità per la tutela dell’ambiente e delle risorse naturali. Non bisogna poi dimenticare il rispetto per l’identità culturale dei territori e le dimensioni culturali e sociali della sostenibilità.
Ma, al di là di questa semplice logica che farebbe apparire il concetto di turismo sostenibile assolutamente nitido, privo di ombre, trapela spesso una marcata confusione, che porta a sovrapporre l’idea di sostenibilità con quella di natura, come se un turismo “naturalistico” o una pratica turistica all’interno di un parco, fossero necessariamente sostenibili.[15] Spesso non solo i cittadini, ma gli stessi operatori sovrappongono il concetto con quello di ecoturismo o perfino con quello di nature based tourism (turismo naturalistico o turismo-natura), senza sottolineare come in realtà non sempre un turismo nature based rappresenti un modo sostenibile di fare turismo. Un esempio calzante sarebbe il turismo attuato in ambienti dal fragile equilibrio, dove la presenza umana, pur con le sue più blande azioni potrebbe essere portatrice di danni anche irreversibili.

Un vero ecoturismo, se coerente con la dichiarazione di Quebec City[16], dovrebbe essere il più possibile compatibile con l’ambiente, pur tenendo conto del fatto che qualsiasi attività antropica non può mai essere a zero impatto. Così come il miglior modo di vivere è quello di avere un basso impatto ambientale, il modo migliore di viaggiare è quello di lasciare sì le proprie tracce sull’ambiente, ma leggere e non foriere di disastri irreversibili.

Turismo sostenibile, turismo responsabile, ecoturismo. In cosa questi concetti si incontrano o si differenziano?

Innanzitutto è da mettere in rilievo come il concetto di turismo sostenibile comprenda quello di turismo responsabile. La differenza tra il primo e il secondo, pur minima, consiste nei diversi oggetti su cui si manifesta l’impatto: se il turismo sostenibile riguarda gli effetti positivi del turismo sull’ambiente, il turismo responsabile si rivela strumento etico di valorizzazione dei territori e delle popolazioni locali per uno  sviluppo economico e sociale sostenibile. Un modo corretto di fare turismo (sostenibile e responsabile) è dunque quello volto all’attuazione della regola delle tre E: Economy, Ethics and Environment.
Per ecoturismo invece la differenza con i due è più netta, in quanto si riferisce al viaggio in ambiente naturale, che non sempre si rivela sostenibile e responsabile. Tuttavia oggi L’International EcoTourism Society definisce l’ecoturismo un modo responsabile di viaggiare in aree naturali, rispettando e salvaguardando l’ambiente e sostenendo il benessere delle popolazioni locali. Ciò significa che l’ecoturismo nel suo odierno significato comprende sia il principio della sostenibilità che quello della responsabilità.

Se è vero che non tutte le forme di ecoturismo sono sostenibili, è pur evidente che non tutto il turismo di lusso è insostenibile,[17] in quanto l’offerta di prodotti e destinazioni “esclusive” non solo consente di applicare forme di gestione turistica sostenibili, ma anche di sperimentare pratiche che poi potranno essere messe a frutto anche in contesti a più elevato impatto.
Le azioni volte all’attuazione di circuiti turistici virtuosi  nelle aree più delicate e fragili devono rispondere a criteri ancora più stringenti. Per questo, è opportuno pensare a modalità di promozione che favoriscano, al di là del semplice marketing, la conoscenza del territorio, anche attraverso il web,[18] sebbene occorra saper distinguere le vere pratiche mirate a incrementare la sostenibilità da quelle azioni di greenwashing, che spesso si nascondono sotto azioni apparentemente “pulite” di marketing  miranti a far leva sulla sensibilità “verde” dell’ecoturista.[19]
 Studiare approfonditamente dal punto di vista storico geografico il territorio, riconoscere, recuperare e valorizzare i segni impressi su di esso dalle culture che si sono avvicendate nei secoli, riscoprire l’identità dei luoghi, coinvolgere la popolazione e renderla partecipe del romanzo identitario[20] del loro luogo di residenza, ricostruttore dei quattro pilastri dell’esperienza umana (tempo, luogo, cultura e sistemi di opinioni locali correnti), appaiono di primaria importanza per la creazione di sinergie, che portino sviluppo e crescita economica attraverso l’attuazione di forme sostenibili di turismo.

Questo per quanto riguarda l’iter per l’avvio, a monte, di percorsi idonei e vincenti di valorizzazione territoriale e recupero dei beni culturali e paesaggistici e l’attuazione, a valle, di un turismo sostenibile a tutti gli effetti. Ma quali sono le mete turistiche maggiormente richieste?

Oggi chi desidera intraprendere un viaggio eco-sostenibile-responsabile preferisce dirigersi verso uno dei Paesi che secondo l’Environmental performance index (Epi) sono i più rispettosi dell’ambiente. Sui 180 presi in esame nel 2016, i primi 10 sono stati in ordine d’importanza Finlandia, Islanda, Svezia, Danimarca, Slovenia, Spagna, Portogallo, Estonia, Malta e Francia (l’Italia è solo 29esima).
Se invece il turista predilige visitare le metropoli sostenibili, sceglierà mete che rientrino nel  Sustainable Cities Index, quali Francoforte, la prima città ecologica al mondo, seguita da Londra, Copenaghen, Amsterdam, Rotterdam, Berlino, Seoul, Hong Kong, Madrid e Singapore.
Se infine dimostra un’aperta preferenza per un turismo responsabile in qualcuno dei più di mille siti Unesco, l’Italia, con i suoi 51 siti patrimonio dell’umanità, potrebbe essere a ragione tra i primi della classifica, divenendo dunque un Paese nel quale un approccio sostenibile aiuterebbe a conservare e a valorizzare singolari realtà culturali ed ambientali, che spesso, secondo l’ente delle Nazioni Unite, sono a rischio sparizione

L’Italia è un unico “museo diffuso”,[21] fatto di natura e tradizioni, di modelli produttivi e insediativi diversi, di ‘borghi” e piccole città che spesso non sono valorizzati in modo corretto, o perché caduti nell’oblio, nell’abbandono, o perché eccessivamente sfruttati dall’urbanizzazione selvaggia e dall’eccessiva pressione della popolazione. Analisi dei territori, riconoscimento e recupero dei loro segni culturali, riscoperta della loro vera identità, e attuazione di una valorizzazione armoniosa che porti a ricchezza alle popolazioni attraverso corrette modalità di turismo sostenibile. Questo sarebbe il cammino da intraprendere per l’attuazione di uno sviluppo reale e duraturo che rispetti i principi della salvaguardia ambientale, dell’efficienza economica e dell’equità sociale. Quello che si deve fare è innanzitutto imparare a “guardare” il proprio paesaggio e, tramite il paesaggio, il  territorio, in modo da valorizzarlo e renderlo più attraente anche agli occhi degli outsider, di coloro che vengono da fuori alla ricerca di tutto quello che è “nuovo” e “diverso”.[22]

Nonostante i passi da compiere per la creazione di sinergie che tendano a valorizzare nel loro complesso tutti i territori italiani suscettibili di sviluppo siano ancora tanti e di non facile soluzione, non si può di certo affermare che non sia stato fatto niente di concreto per il risveglio delle identità territoriali e per l’attuazione di itinerari turistici sostenibili che preferiscano luoghi non conosciuti dal turismo di massa e per questo rimasti quasi integri nelle loro caratteristiche ed attrattive. Dall’inizio del XXI secolo sono state, infatti, intraprese importanti iniziative quali quelle dell’ANCI, con la costituzione nel 2001 dell’associazione privata “I borghi più belli d’Italia”, che promuove i piccoli centri dotati di beni di spiccato interesse storico artistico, dei “parchi letterari”, dei distretti turistici, dell’“albergo diffuso” e infine degli ecomusei, alcune delle quali rivelatisi nel tempo promotrici di ricchezza e benessere per le popolazioni interessate, con ricadute positive sul territorio in termini di occupazione, di risveglio delle economie locali e di affluenze turistiche.

Se l’Italia è un Paese conosciuto in tutto il mondo per i suoi monumenti e opere d’arte, non lo è di certo per altre sue peculiarità altrettanto affascinanti quali per esempio i grandi laghi, le suggestive vallate, i vulcani, i sentieri inesplorati, le coste di inestimabile bellezza, i vigneti rigogliosi, gli agrumeti, le aree collinari, ma anche le testimonianze di archeologia industriale, l’enogastronomia, le feste popolari e religiose. È ovvio dunque che tale contesto di grande suggestività si offra come terreno fertile per la cultura del turismo sostenibile e responsabile, che secondo la linea guida europea, dovrà essere o diventare l’unica forma di turismo possibile, capace di attuare una salvaguardia ambientale attiva, creatrice di ulteriori opportunità lavorative e di favorevoli occasioni per nuovi investimenti in un settore che ha numerosi e ampi margini di sviluppo.

 

 

Riferimenti Bibliografici

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[1] Il presente lavoro è frutto di una riflessione comune tra le autrici, che condividono dunque la responsabilità scientifica. Tuttavia, i paragrafi 1 e 2  sono da attribuirsi a Grazia Arena, il paragrafo 3 a Mariella Sorbello.

[2] Cfr. Turri 2004

[3] Heidegger 1968.

[4] Quaini 2006, p.26.

[5] Manzi 2001.

[6] Mautone 1999, p. 332.

[7] È composta da un Preambolo e 18 articoli ed è suddivisa in 4 capitoli. Nel dettaglio i capitoli comprendono le Disposizioni generali (Cap I, definizioni, campo di applicazione, obiettivi); i Provvedimenti nazionali (Cap. II, ripartizione delle competenze, provvedimenti generali, misure specifiche);  la Cooperazione europea (Cap. III, politiche e programmi internazionali, assistenza reciproca e scambio di informazioni, paesaggi transfrontalieri, il Premio del paesaggio del Consiglio d’Europa, il controllo dell’applicazione della Convenzione); le Clausole finali (Cap. IV, firma, ratifica, entrata in vigore, adesione, applicazione territoriale, emendamenti e notifiche) (Cartei 2007, p. 30).

[8] Cartei 2007, pp. 50-51.

[9] Ibidem.

[10] Naturalmente, l’apparente linearità di tale affermazione non deve indurci a pensare in modo semplicistico che ogni remoto lembo di un territorio nazionale rappresenti paesaggio da tutelare in modo indifferenziato e con le stesse modalità. Esiste in realtà una gradazione della tutela giuridica che è pur sempre legata ai caratteri più o meno singolari di un dato paesaggio. va da sé che i paesaggi di eccezionale valore ricevono molte più attenzioni, anche perché rappresentano beni di interesse economico e turistico. tuttavia il principio ispiratore della Convenzione è quello di fare da ombrello a tutti i paesaggi al fine di evitare che alcuni incisivi processi di trasformazione sociale ed economica possano degradarli irrimediabilmente.

[11]       Priore 2005, p. 109.

[12]       Magnaghi 2010, pp. 127-128.

[13] Niccolini 2010, p.17.

[14]       Cfr. Murphy 1994; Coccossis, Nijkamp 1995; Swaebrooke 1999.

[15]       Cfr. Pecoraro Scanio 2016.

[16] L’ecoturismo in questa prospettiva è caratterizzato da alcuni aspetti peculiari:

•       è mirato alla promozione di uno sviluppo sostenibile del settore turistico
•       non determina il degrado o l’esaurimento delle risorse perché invece minimizza l’impatto
•       concentra l’attenzione più sul valore biocentrico che su quello antropocentrico
•       raccomanda all’ecoturista di accettare l’ambiente così come è senza alterarlo o adattarlo a sua convenienza
•       è fondato sull'incontro diretto con l›ambiente e si ispira alla ricerca sul campo
Una delle definizioni di ecoturismo più calzante è quella dell’International Ecotourism Society che recita: «L’ecoturismo è un modo responsabile di viaggiare in aree naturali, conservando l’ambiente e sostenendo il benessere delle popolazioni locali».

[17]       Cfr. Luppis 2016.

[18]       Cfr. Etzi 2016.

[19]       Cfr. Hall 1997.

[20]       Cfr. Quaini 2006.

[21]       Cfr. Ricci 2016.

[22]       Cfr. Dell’Agnese 2016.


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TURISMO , SOSTENIBILITà , ECOTURISMO , PAESAGGI , ITALIA.


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