Disastri, trasformazioni urbane e nuovi affari: l’alluvione del 1951 e la nascita del quartiere Santa Maria Goretti a Catania

di Francesco Mannino

 
 
 

L’alluvione del 1951

Dopo un agosto relativamente fresco, il settembre siciliano del 1951 si rivelò da subito un mese straordinariamente piovoso, lasciando il passo ad un ottobre ancor più caratterizzato da precipitazioni intense. Oltre all’intensità, ciò che preoccupava era la continuità delle piogge, a cui seguiva inevitabilmente una condizione dei suoli intensamente imbimbiti, con coefficienti di deflusso piovano alquanto elevati: in altri termini, i terreni inzuppati e saturi d’acqua divenivano impermeabili, e dunque trasferivano altrove la pioggia in eccesso.

La notte del 15 ottobre la situazione precipitò, aggravata da un nubifragio di eccezionale intensità e da una tromba d’aria sulla Piana di Catania e sulla città: a questa si aggiunse una mareggiata che devastò le coste ioniche (Riposto in particolare), in alcuni tratti trasformandone la morfologia. Da un punto di vista idrologico,[1] nei quattro giorni fino al 18 ottobre, nell’area della Sicilia orientale (circa 12.300 kmq., il 48% dell’intera isola) caddero in media 500 mm di pioggia (dove la media fino a quel momento era stata di 250 mm), ovvero circa un terzo di tutta la pioggia dell’anno. Durante la notte il Simeto, principale arteria fluviale della Piana, esondò allagando tutti i terreni agricoli a sud e a nord, fino alle porte di Catania. L’esondazione fu generata dalla decisione del gestore dell’Invaso Pozzillo (il cosiddetto lago, posto – in provincia di Enna – a sbarramento del fiume Salso, a circa 20 km dalla confluenza con il Simeto) di aprirne le paratoie, generando una devastante onda di piena a valle.[2]

Nel frattempo a Catania diverse abitazioni venivano danneggiate dal vento e dalla pioggia, ma il disastro che sarebbe rimasto per decenni nella memoria dei catanesi riguardò un edificio all’angolo tra le nuovissime via Libertà (oggi viale Vittorio Veneto) e via Giacomo Leopardi, nella zona est della città. Una intera ala della palazzina di quattro piani collassò, non prima di avere dato segnali di cedimento che permisero a parte degli abitanti di fuggire. Il saldo delle vittime, definitivo solo alcuni giorni dopo la tragedia, ammontò a 19 morti, a cui si aggiunsero due persone annegate in un’automobile caduta nelle acque del porto di Catania; 35 furono i decessi in tutta la Sicilia orientale. In questa parte dell’isola i danni materiali maggiori furono determinati dall’allagamento dei circa 190 kmq. del Pantano di Lentini, nella Piana di Catania: centinaia di famiglie rischiarono la vita per giorni, del tutto isolati e in attesa dei soccorsi. Un treno, il Direttissimo 86, rimase bloccato per due giorni con il suo carico di passeggeri, immerso in un paesaggio del tutto inedito e surreale: una Piana inondata con case coloniche distrutte, agrumeti e piantagioni devastate, carcasse di animali affioranti dalle distese d’acqua. Solo il 19 i mezzi anfibi dei vigili del fuoco riuscirono a raggiungere i coloni della Piana, portando viveri di conforto.

Lo stesso giorno il Consiglio dei Ministri, presieduto da Alcide De Gasperi, disponeva un primo contributo di 2 miliardi per i sinistrati dell’alluvione siciliana. Due giorni dopo, il 22 ottobre, il Presidente della Repubblica Einaudi visitava Messina, su un treno presidenziale carico di generi alimentari e di attrezzature di soccorso. Gli organi di stampa[3] si districavano tra la conta dei morti e dei danni da un lato, e l’elenco degli interventi istituzionali previsti a tutti i livelli, dall’altro. Il 21 veniva infatti annunciata l’immediata ricostruzione delle “opere pubbliche e le abitazioni dei meno abbienti distrutte dal nubifragio”, e un “Contributo regionale del 60 per cento agli agricoltori più danneggiati”.

L’estate del 1951 era stata per Catania un periodo di pausa dopo una primavera di importanti novità. Sotto la neo-sindacatura dell’autonomista Gallo Poggi la città aveva visto nel novembre del 1950 la costituzione dell’Istituto Immobiliare Catania (ISTICA),[4] seguito da quella dell’IST-Berillo (3 marzo 1951),[5] organo finalizzato al risanamento dell’omonimo rione degradato e prossimo alla piazza Stesicoro: si inaugurava una stagione di investimenti immobiliari ad “alta densità”, che le regionali del 3 giugno ’51 avrebbero reso ancora più di sicuro successo.[6] Catania vide infatti l’elezione al parlamento regionale degli ingegneri Claudio Majorana e Francesco Costarelli, già a capo di un importante blocco di interessi edilizi:[7] con la presidenza di Franco Restivo, affiancato ai Lavori Pubblici da Silvio Milazzo, si consolidava un governo regionale democristiano che avrebbe contribuito, di lì a poco, a mettere insieme i quattro miliardi e mezzo di fondi complessivi destinati all’edilizia convenzionata catanese, un “imponente pacchetto” preludio delle fortune politiche e del potere democristiano etneo.[8]

Pertanto Catania, investita dal disastro di ottobre nella fase crescente della sua febbre edilizia, si trovò sgomenta davanti a scenari calamitosi che non poteva aspettarsi: in una città dove i cantieri edili cominciavano a proliferare modificandone progressivamente il paesaggio urbano, proprio i suoi “quartieri nuovi” restituivano ora un’immagine di distruzione e morte. Il crollo di via Libertà scosse profondamente l’opinione pubblica, che seguiva le angoscianti cronache del recupero delle salme sulla stampa o addirittura recandosi fisicamente sul posto. E tanto fu lo sgomento quanto altrettanto il bisogno di liberarsi rapidamente di quei macabri scenari, per riprendere la poderosa attività edilizia[9] senza macchie che ne potessero offuscare l’eccezionale portata: a distanza di un anno, e poi ancora all’anniversario successivo, il disastro di via Libertà sarebbe scomparso dalle pagine dei giornali, inutile tentativo di cancellare tale orrore dalla memoria collettiva.
E la città ripartì, pronta al boom demografico del decennio successivo, che avrebbe contato solo dall’apporto migratorio un incremento di più di 57.000 persone, provenienti principalmente da Enna, Siracusa e Messina.[10]
Non senza l’indispensabile aiuto dello Stato, il cui parlamento si trovò, di lì a poco, a fronteggiare un altro disastro meteoclimatico, l’alluvione del Polesine in novembre, con le sue circa 100 vittime. Il 20 novembre (sei giorni dopo il disastro) il Parlamento si riunì per discutere le misure da adottare per tutti gli alluvionati italiani. Il dibattito parlamentare divenne presto l’occasione per l’opposizione di criticare – a varia misura – l’intervento del Governo. Se infatti il PCI con Pajetta accusò il Ministro dei Lavori Pubblici Aldisio, il Ministro dell’Interno Scelba e per tutti il Presidente del Consiglio De Gasperi di avere reagito lentamente e male, intralciando addirittura i soccorsi volontari sugli argini del Po con decreto prefettizio (il caso “Rovigo”), Nenni (riferendosi esplicitamente alle «alluvioni che colpirono alcune province della Sicilia, della Sardegna e della Calabria», e più in particolare al più grave caso del Polesine) fu più cauto, facendo presente che il PSI, riconosciuta l’eccezionalità del momento, chiedeva prioritariamente di non lasciare insabbiare le iniziative, ma di coordinarle e dirigerle, di predisporre un immediato piano di emergenza per opere da compiersi prima della primavera e infine un piano nazionale che fosse adeguato alla situazione. Tra le diverse argomentazioni che De Gasperi pose a difesa dell’operato del Governo, il Presidente del Consiglio annoverò – leggendola – una lettera a lui indirizzata dal Presidente della Repubblica Einaudi, scritta dopo la visita siciliana, di cui vale la pena evidenziare almeno uno stralcio: «Caro Presidente, ritornato ieri dall’ultima - ed auguro e spero sia l’ultima - delle mie visite nelle zone delle Calabrie, della Sicilia della Sardegna, del Piemonte e del Polesine tanto duramente provate dalla furia distruggitrice delle acque, ho il dovere di recarti testimonianza di fede e di gratitudine. Di fede nella ferma risoluzione dei danneggiati nel dare opera essi medesimi, per i primi, alla riparazione dei gravi danni ricevuti ed alla ricostruzione dei patrimoni morali e materiali perduti. Di gratitudine verso quanti, in nobile gara di solidarietà, si adoprano per lenire la sventura, per trarre a salvamento uomini, donne, bambini, per apprestare ad essi i primi soccorsi».[11]

Il dibattito, esempio concreto del clima di tensione istituzionale maturato nel secondo dopoguerra, portò all’approvazione in poche settimane delle leggi 10 gennaio 1952, n. 3 e n. 9, per le “Provvidenze in favore delle zone disastrate dalle alluvioni e mareggiate dell’estate e dell’autunno 1951 in Calabria, Sicilia, Sardegna, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana, nelle Puglie e in Campania”.[12] Oltre agli aiuti economici, che ammontavano a 50 milioni per Catania e a 2,5 miliardi per la sua provincia,[13] fondi che avrebbero contribuito alla ricostruzione degli edifici e delle attività produttive”[14] in percentuali stimate tra il 40 e il 90%, già si pensava a come affrontare e risolvere il grave problema degli alloggi per gli “alluvionati”.[15] Il problema era serio e si collocava in un contesto nazionale, in quanto in quegli anni molti interventi pubblici erano indirizzati ai profughi di guerra, una fetta ancora consistente di popolazione. Il Governo nazionale decise quindi di equiparare i profughi alluvionati a quelli di guerra, fornendo loro vitto, alloggio e sussidi. Discorso diverso fu fatto per i sinistrati, demandando agli Enti Comunali di Assistenza (E.C.A.) le opere di intervento edilizio e assistenziali necessarie.

 

Il villaggio ESCAL, poi S. M. Goretti

Catania non si presentò impreparata all’appuntamento con le operazioni di ricostruzione. Già il 7 dicembre del 1951 l’ingegnere del Comune Biagio Miccichè, in coppia con l’Ing. Salvatore Crisafulli, presentò alla Giunta Comunale uno Studio urbanistico per la sistemazione della zona destinata al Villaggio ESCAL, San Giuseppe La Rena, che lo approvò il 17 dello stesso mese. Il 10 gennaio del ’52,[16] mentre a Roma si approvavano le leggi sugli aiuti agli alluvionati, il Ministro Aldisio visitava Catania accompagnato dall’Assessore Milazzo, effettuando un sopralluogo laddove – in tempi brevi – sarebbe sorto il “Villaggio” che avrebbe compreso «25 alloggi in pannelli di legno verniciati alla nitrocellulosa, 10 alloggi in blocchetti di cemento, 50 alloggi in muratura».[17] alcuni di questi sarebbero stati consegnati  già per la festa della patrona S. Agata, il 5 di febbraio.

E così fu: con una cerimonia ufficiale di consegna il 6 febbraio, presenti il presidente della Regione Restivo, l’assessore Milazzo, il sottosegretario ai Trasporti Bernardo Mattarella, il deputato Majorana e l’Arcivescovo Bentivoglio, furono inaugurati i 25 alloggi prefabbricati promessi, destinati ai sinistrati dell’alluvione ricoverati al palazzo degli Elefanti e all’ospedale Garibaldi. La cerimonia fu l’occasione per l’annuncio, da parte dell’assessore Milazzo, della imminente costruzione degli edifici dell’ESCAL (Ente Siciliano Case dei Lavoratori), per un appalto di 120 milioni di lire. Concluse la manifestazione l’Arcivescovo, che comunicò la donazione di mobili per 70.000 lire (dalla Pontificia commissione di Assistenza) e che propose l’intitolazione del Villaggio alla “giovanissima martire romana” Maria Goretti, canonizzata appena l’anno precedente e “icona” diffusamente venerata da contadini e diseredati di tutta Italia: a lei sarebbe stata dedicata una chiesetta in quartiere. Da luglio la città ebbe un nuovo sindaco: con il democristiano Magrì sarebbero arrivati nei mesi successivi i già citati 4,5 miliardi per l’edilizia sovvenzionata, di cui circa 100 milioni per l’ECA, e 1150 milioni per l’ESCAL.[18] L’ex sindaco, l’avvocato Gallo Poggi, diveniva presidente del “Comitato civico per i sinistrati dalle alluvioni”. La macchina della ricostruzione trovava il suo carburante e partiva, divenendo ulteriore fonte di introito per la intensa attività edilizia di quegli anni.

Il 12 settembre del 1953 partiva definitivamente la consistente operazione del Villaggio Santa Maria Goretti, con l’approvazione da parte della Giunta Comunale del “Progetto per nuova costruzione palazzine ESCAL, San Giuseppe La Rena” (qui ancora con la denominazione del contiguo quartiere, preesistente all’alluvione): a poche centinaia di metri dall’aeroporto civile Fontanarossa su terreno di proprietà comunale, delimitato dai torrenti Forcile e Acquicella (Canale Bummacaro), sarebbero stati costruiti 114 alloggi “di tipo popolare” destinati, così come citava la Legge Regionale n. 1 del 1949, a “lavoratori in locazione o da destinare agli assegnatari con patto di futura vendita e di riscatto”.[19] Ma anche, sul versante occidentale dell’area, agli alluvionati del 1951. A questi se ne sarebbero presto aggiunti altri 152 dell’Istituto Autonomo Case Popolari.

Il 21 novembre del 1953, in seguito all’elezione del Sindaco Magrì quale deputato nazionale, assunse la carica di nuovo sindaco della città Luigi La Ferlita, suo fedelissimo e già assessore comunale ai Lavori Pubblici. La Ferlita avrebbe condotto il governo cittadino ininterrottamente per sei anni, concentrando sui lavori pubblici gran parte degli sforzi della Giunta, in particolare sulla Zona Industriale, sul Mercato ortofrutticolo, sul risanamento di altri quartieri, Antico Corso in testa, e sulla pubblica illuminazione. Ma la città, in assenza del Piano Regolatore, che sarebbe arrivato solo dieci anni più tardi, visse un vero e proprio “sacco edilizio”, che la stampa locale elesse come “sano pragmatismo” contro le “utopie programmatorie”. L’intellighenzia cattolica catanese mescolava abilmente assistenzialismo e municipalismo, dando vita a figure di “politici-faccendieri” capaci di intrecciare trasversalmente le diverse istituzioni in campo nel confuso quadro post-bellico, per fornire nuovi servizi in nuovi scenari sociali. La città si preparava a difendere orgogliosamente il proprio titolo di “Milano del sud”: eppure risultò più intestardita a dipingersi quale “metropoli mediterranea” che strutturalmente pronta a tale ruolo.[20]

Nel frattempo, il “Villaggio” si costituiva socialmente. Se al 1951, il Censimento contava per il quartiere “Divino Amore” – che includeva anche Santa Maria Goretti[21] – 3187 abitanti, lo stesso territorio avrebbe contato 6022 abitanti nel 1961 e 15748 nel ’71. Nel 1976 gli abitanti del “Villaggio” erano composti per il 27,9% da casalinghe, il 22,4% da operai, il 20,3% da studenti, il 9,4% da minori di 6 anni, il 7,4% da pensionati e altrettanti disoccupati, e il 3,2% da impiegati.[22] La famiglia media era quindi composta da una casalinga e da un operaio (solo raramente da un impiegato; spesso un disoccupato), da due figli di cui un bambino piccolo e da un anziano. Il 75% di queste famiglie risultava essere catanese, il 15,3% proveniva da fuori Catania e il 9,7% era mista: una percentuale di “forestieri” corrispondenti alle famiglie alluvionate della Piana.

Ma i circa 1500 abitanti del Villaggio si sarebbero presto trovati davanti ad un paradosso davvero enorme, che li colpì in pieno. Il rione infatti era stato collocato in un’area agricola e depressa rispetto al piano di campagna circostante,  con un dislivello negativo compreso tra il mezzo metro e il metro e mezzo. Per di più, esso si trovava in una “conca” alla base delle colline argillose che negli anni ’70 avrebbero poi ospitato Librino, il famoso quartiere satellite da 90.000 abitanti. Le acque piovane di questi quartieri soprastanti e quelli delle aree circostanti dovevano essere smaltite dai torrenti Forcile e Acquicella (i limiti geologici del Villaggio), con il Canale Bummacaro, profondo circa un metro: ben mezzo metro più in alto del fondo del Villaggio stesso.[23] Le conseguenze di questo enorme errore di progettazione furono presto visibili e pagate dalla popolazione: il Villaggio avrebbe subìto sino a tutt’oggi, in determinate condizioni meteoclimatiche, intensi allagamenti con serie conseguenze per le abitazioni, per le cose e per le persone, tanto da essere presto ribattezzato dagli abitanti la “Venezia di Catania”. Non sono rare le immagini che raffigurano i residenti intenti a raggiungere le proprie abitazioni mediante l’utilizzo di barche o pontili, o i mezzi di soccorso impegnati nel drenaggio delle vie del quartiere.

Solo nel 2011 una società coinvolta nella costruzione di un vicino centro commerciale ha proposto di contribuire con fondi propri alla soluzione del problema, intervenendo sui letti dei canali: e solo tra pochi mesi sarà possibile valutarne l’efficacia.
Resta il fatto che, a sessant’anni dall’alluvione che colpì la Sicilia orientale, parte di quella popolazione disastrata paga ancora colpe non sue. La condizione sociale del Villaggio Santa Maria Goretti, caratterizzato da una diffusa e profonda dignità e dalla voglia di normalizzazione, rimane però critica. La collocazione a poche centinaia di metri dall’aeroporto, il confine stradale a sud tracciato da una assai trafficata arteria che collega la città  all’aeroporto e alle tangenziali dirette verso le altre provincie, i continui allagamenti, hanno ridotto verticalmente il valore immobiliare della zona, ma soprattutto hanno provocato nei residenti un sentimento misto di rabbia e rassegnazione.

Uno degli ultimi prodotti, purtroppo non isolato, del “sano pragmatismo” della Catania anni ’50, forse troppo impegnata a trasformare il mattone in oro ma incapace di gettare solide basi per la crescita futura delle generazioni che l’avrebbero abitata nei decenni successivi.

 

[1] «Annali Idrologici», Ministero dei Lavori Pubblici, Servizio Idrografico – Sezione autonoma del Genio Civile con sede in Palermo, per i bacini con foce al litorale della Sicilia, Palermo, 1951.

[2] L’enel, gestore del Pozzillo, sarà coinvolta in lunghe vicende giudiziarie a causa di questa decisione. Informazioni estratte dall’intervista di S. Pappalardo al Prof. S. Indelicato, Ordinario d’Idraulica Agraria, Direttore dell’Istituto di Idraulica Agraria c/o Facoltà di Agraria dell’Università di Catania, in Consiglio nazionale delle ricerche ‒ Gruppo nazionale per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche, Progetto AVI Aree Vulnerate da Calamità Idrogeologiche - Regione Sicilia.

[3] Si veda ad esempio «L’Unità», 22 ottobre 1951, p. 1 e segg.; «L’Unità», 23 ottobre, p. 1.

[4] F. Mannino, M. Nucifora, Un piano per Catania. Vicende urbanistiche di una città italiana, in G. Giarrizzo (a cura di), CATANIA: la città moderna, la città contemporanea, Catania, Maimone, pp. 181-195.

[5] P. Malfitano, Un caso di gestione politica e di speculazione edilizia nel mezzogiorno d’Italia: il quartiere San Berillo di Catania, «Annale 1997- 1998: l’attività di ricerca scientifica del Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna», Bologna 2000.

[6] G. Dato, La città e i piani urbanistici, Catania 1930-1980, Catania, CULC ed., 1980.

[7] G. Giarrizzo, Catania, Bari, Laterza, 1986, p. 276

[8] Ivi, p. 278

[9] N. Nicolosi, La poderosa attività edilizia e sociale dell‟Istituto Autonomo Case Popolari. Un originale prospetto per la costruzione di una chiesa a Nesima Superiore, «Rivista del Comune di Catania», serie II, a. III, n. 4, ottobre-dicembre 1955, pp. 119-122.

[10]       A. Di Blasi, La dinamica demografica della provincia di Catania dal 1861 al 1961, «Archivio Storico della Sicilia Orientale», a. LXIII, a. XX s. IV, 1967, I-III, p. 189.

[11]       Tutto il dibattito è tratto dal paragrafo Per l’esame dei provvedimenti a favore delle popolazioni colpite dalle alluvioni in Atti Parlamentari - Camera dei Deputati, seduta pomeridiana di martedì 20 novembre 1951, pp. 33302 e sgg.

[12]       Per un approfondimento sul dissesto idrogeologico e le alluvioni in Italia, e sul rapporto tra fattori naturali ed antropici, si veda W. Palmieri, Dissesto e disastri idrogeologici nell’Italia unita in G. Corona e P. Malanima (a cura di) Economia e ambiente in Italia dall’Unità a oggi, Milano-Torino, Bruno Mondadori, 2012, pp. 125-145.

[13]       Per ricostruire il dibattito locale su questi interventi, si veda «La Sicilia», 5 gennaio 1952, p. 1

[14] “Per le aziende agricole alluvionate contributi fino al 70 percento sui danni”, «La Sicilia», 20 gennaio 1952.

[15]       «La Sicilia», 11 gennaio 1952.

[16]       “Case prefabbricate nascono a San Giuseppe La Rena”, in «La Sicilia», 10 gennaio 1952.

[17]       «La Sicilia», 6 febbraio 1952.

[18]       G. Giarrizzo, Catania, cit.

[19]       Legge Regionale n. 1 del 18/01/1949, Istituzione dell’Ente Siciliano per le case ai lavoratori, Gazzetta Ufficiale Regione Siciliana 21 01 1949 n. 3.

[20]       G. Giarrizzo, Catania, cit.

[21]       Il 4 novembre 1951, data del primo censimento dopo il II conflitto mondiale (il IX dall’Unità d’Italia: il precedente risaliva al 1936), l’Istituto Centrale di Statistica adottò per la prima volta la suddivisione del territorio in quartieri, mutuando la perimetrazione di pertinenza delle chiese cittadine, fino ad allora “filiali curate”, giunte quasi al termine di un intenso processo di concessione dei diritti parrocchiali. L’Arcivescovo Patanè aveva avviato tale processo a partire dal 1939, ratificando i confini delle nuove parrocchie: il 7 marzo del 1950 l’Istat approvò un “Piano topografico di suddivisione in quartieri del territorio della Città”, consegnando agli amministratori cittadini un nuovo ed ufficiale ritaglio, che individuava esattamente 36 quartieri (raggruppati in 9 zone di censimento), il cui nome veniva associato alla parrocchia di riferimento. 

[22]       E.D. Sanfilippo, P. Busacca, F. Faro, Urbanistica e quartieri: l’abitazione nell’area catanese, Catania, Documenti I.D.A.U., 1976.

[23] Ibidem.


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