«Herbariis Disciplinis Augendis Schola»:
intervista a Gianpietro Giusso del Galdo, Direttore dell’Orto Botanico di Catania

di Federica Maria Chiara Santagati

 

Una risposta alla necessaria educazione all’ambiente ed alla sua sostenibilità, ormai percepite da tutti come ineludibili, deve inevitabilmente muoversi nella direzione di un approfondimento dell’informazione naturalistica a trecentosessanta gradi, messo in atto attraverso particolari strumenti come centri di educazione e di cultura ambientale (accademie, associazioni naturalistiche, musei, etc.), ed anche ricorrendo a metodi di ricerca e di comunicazione transdisciplinari. Ed in particolare, la riflessione sui temi impliciti nella concezione di biodiversità – in quanto valore di riferimento di ogni odierna questione naturalistico-ambientale che necessiti di una politica di protezione e di una corretta educazione e formazione – contempla il ricorso obbligato ad una visione interculturale di scienze diverse: la loro applicazione richiede, nel caso di una divulgazione aperta a più interlocutori e pubblici di varie fasce generazionali, la sinergia di più indicatori scientifici.

Ci sembra possa essere, tale sinergia, chiamata in causa nella prospettiva di una “declinazione umanistica della domanda ambientale”, che come analisi applicativa dell’incontro interdisciplinare tra scienze umane e scienze naturali si rivolga anche all’osservazione di un sistema istituzionale in grado di offrire la duplice chiave di lettura transdisciplinare, come ad esempio un museo naturalistico od un orto botanico. Gli orti botanici sono da considerarsi una particolare categoria di museo, secondo le linee-guida indicate nello Statuto dell’ICOM (International Council of Museums) del 2001; gli orti botanici, al pari dei musei, sono definiti «… al servizio della società e del suo sviluppo» e conservano «le testimonianze materiali dell’umanità e del suo ambiente», cioè «esemplari viventi di vegetali» (Statuto dell’ICOM 2001, art. 2, b, ii).

Ci rivolgiamo, per saperne di più, al Direttore dell’Orto Botanico dell’Università di Catania, docente di Botanica presso il Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche ed Ambientali dell’Ateneo. L’Orto Botanico catanese fondato nel 1858, nell’ambito degli studi di Medicina e Farmacia, da Francesco Tornabene di Roccaforte, monaco benedettino, titolare della cattedra di Botanica dell’Università di Catania, nonché bibliotecario del Monastero benedettino di San Nicolò l’Arena. Ci rechiamo nell’elegante edificio neoclassico progettato dall’architetto Mario Di Stefano, che vi predispose come «edifici dello Stabilimento» l’Aula, l’Erbario e la Biblioteca, tre spazi deputati alla didattica, conservazione ed esposizione, e allo studio delle piante.

È possibile ravvisare nell’Orto Botanico di Catania l’aspetto bidimensionale di museo e orto botanico, sul doppio versante umanistico-scientifico?

Giusso del Galdo: Certamente, visto che le nostre strutture, l’Hortus Generalis e l’Hortus Siculus, nonché il Tepidarium (la Serra Tropicale), sono delle vere e proprie collezioni vegetali: l’Hortus Generalis ospita piante disposte secondo un ordine sistematico e mantiene l’impostazione originale di tipo formale all’italiana (articolazione in sezioni quadrangolari) con molte collezioni, particolarmente ricca quella delle succulente, delle palme, come pure quella delle antichissime e primitive Cicadeae; l’Hortus Siculus, dedicato alla coltivazione della flora spontanea della nostra isola, è organizzato, invece, per ambienti, cioè vi sono stati riprodotti alcuni degli habitat naturali più caratteristici della Sicilia. Inoltre, l’orto siculo costituisce una preziosa area per la conservazione di specie endemiche, rare e/o in via di estinzione. Il Tepidarium custodisce più di 160 specie tropicali, tra piante ornamentali e di interesse alimentare. Una parte cospicua del nostro patrimonio è costituita dall’Erbario: da intendersi sia come museo, il cui nucleo iniziale risale sempre al fondatore Tornabene, sia come raccolta di collezioni storiche e recenti (più di 400.000 campioni in totale).

Filosofia, erbari e rappresentazioni grafiche; può aiutarmi a individuare il filo rosso che li lega?

Giusso del Galdo: Le prime indagini a carattere filosofico sul mondo vegetale risalgono ai greci del VI-V secolo a.C., basti pensare a Teofrasto, il primo botanico che ci abbia tramandato la morfologia e l’evoluzione di tante specie. Gli erbari, in quanto raccolta di campioni essiccati, sono una fondamentale testimonianza degli studi del mondo vegetale e persino di una prima forma di sperimentazione delle piante come risorsa alimentare o terapeutica. Nel Medioevo furono i monaci a mantenere nei loro horti conclusi le piante per uso farmacologico ed alimentare, trasmettendoci anche notizie sulle piante coltivate nei loro codici-Herbaria. La trasmissione di tali documenti corredati da rappresentazioni grafiche –ed è qui che i due saperi si incontrano ancora– costituì un impegno sia scientifico sia artistico, soprattutto se ci riferiamo al precedente sistema rappresentativo, costituito dall’impronta del campione vegetale su di un foglio; sistema che, ai fini di una resa quanto più fedele, condizionò anche le tipologie tecniche dell’editoria a stampa dei testi figurati, che nel tempo soppiantarono i codici-erbari medievali.

 

Voi chiamate l’Orto Botanico un «museo verde», destinato all’educazione ambientale ed alla tutela delle specie vegetali; facciamo un passo indietro, qual è l’origine degli orti botanici?

Giusso del Galdo: Gli orti, come pubbliche istituzioni a carattere scientifico, sono nati in Italia in epoca rinascimentale. Prima di tale istituzione, si trovavano più spesso forme del cosiddetto giardino dei semplici, cioè un orto in cui venivano coltivati “i semplici”, piante base della farmacopea. Circa nel 1543 Luca Ghini organizzò il primo orto botanico a Pisa, fatto impiantare per volontà di Cosimo I de’ Medici, e poco dopo nel 1545 l’Università di Padova istituì il primo Horto Medicinale con scopi didattico-scientifici. In quella fase le piante medicinali si studiavano e costituivano materiale didattico anche per gli studenti; era evidentemente un’esigenza molto sentita all’epoca, tanto che l’esempio italiano venne seguito a stretto giro in molte città straniere, come Leida, Lipsia, Heidelberg, Parigi, Utrecht, Oxford, e così via.

 

Padova, mi dice… quell’orto nell’Ottocento era ancora molto noto tra gli stranieri, visto che il romanziere americano Nathaniel Hawthorne ambientò un suo celebre racconto, «La figlia del dottor Rappaccini», proprio in un giardino botanico di Padova. Beatrice Rappaccini veniva mitridatizzata dal padre, ai fini scientifici, con la dipendenza quasi simbiotica da una pianta velenosa, finché l’amore per uno studente non interruppe drammaticamente il legame della fanciulla con la pianta, causandone la morte. Chissà che non si possa considerare questa parabola ‒ e l’esplicito insegnamento hawthorniano che non si debba violare la natura ‒ come un modo trasversale di penetrare nella sfera degli eco-saperi.

 

Mi viene in mente che nelle Kunst und Wunderkammer, forma di museo eclettico molto comune soprattutto fra XVI e XVII secolo, si raccoglieva di tutto, anche libri e stampe rare, raccolte di foglie essiccate, quadri, cammei e coralli, nonché reperti scientifici; in base alla logica di un sapere enciclopedico, certamente si concepì uno spazio in cui i due saperi, per ovvii motivi, coabitavano in modo armonioso e senza cesure.

In base ad un simile processo osmotico, mi pare che i botanici siano stati i benvenuti anche in occasioni di viaggi in avanscoperta di nuove terre, o mi sbaglio?

Giusso del Galdo: Sì, certo, ad esempio nel viaggio di J. Cook in Oceania (1768-1771) i botanici J. Banks e D. Solanders fecero parte del gruppo della spedizione; oppure P. de Beauvois si recò col capitano Landolphe ad esplorare la Nigeria (1786); J. D. Hooker esplorò con Ross la Patagonia (1839-1843). Questi sono solo alcuni degli esempi che ora mi sovvengono, ma ce ne sarebbero certo altri da menzionare.

 

Queste sono esperienze del passato; Lei contempla oggi come possibile e/o auspicabile una maggiore connessione tra scienze umane e scienze naturali?

Giusso del Galdo: Direi di sì, possibile ed assolutamente auspicabile, se non addirittura necessaria per avere un quadro di conoscenze più ampio, soprattutto del passato. Un esempio su tutti: i greci portarono la Salvia fruticosa, invece il Sarcopoterium spinosum è legato al traffico commerciale dei fenici e dei greci; senza la collaborazione del botanico con l’archeologo non potremmo fare quadrare il cerchio, nasce così una nuova disciplina a metà fra le due competenze, l’archeo-botanica, che per mettere a fuoco l’interrelazione tra l’uomo ed il suo ambiente vegetale ha bisogno di rapportarsi con più competenze specialistiche.

 

Ringraziamo Gianpietro Giusso del Galdo e nell’avviarci all’uscita riflettiamo sulla lungimiranza del monaco Tornabene che, per l’acquisto di quel terreno, aveva dato precise indicazioni: «non verso il centro del paese né molto distante dal medesimo per l’accesso degli studiosi e per l’utile del pubblico». Il fondatore aveva chiara sin d’allora l’importante valenza di studio e di servizio sociale dell’Hortus Botanicus Regiae Universitatis Studiorum Catinae.

Uscendo notiamo l’iscrizione dettata dal Tornabene: Herbariis Disciplinis Augendis Schola, all’origine di tutto.



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