Quid est veritas? Ermeneutica e prospettivismo

di Alberto Giovanni Biuso

 

1. Verità

Τί ἐστιν ἀλήθεια; «Che cos’è verità?» (Gv 18,38). Nietzsche riteneva che questa domanda di Pilato fosse l’unica parola del Nuovo Testamento ad avere valore, e che di quel libro fosse la critica più puntuale, il suo stesso annientamento ‒ «seine Kritik, seine Vernichtung selbst» (Der Antichrist, § 46). Si tratta, in effetti, di una domanda che è nello stesso tempo l’orizzonte della filosofia e il suo sorgere. Che cosa sia verità è infatti una delle tre questioni con le quali e attraversando le quali l’indagine filosofica definisce sé stessa, il proprio oggetto, il proprio statuto. Le altre due domande riguardano l’essere e il tempo.
Nella teoresi contemporanea ontologia e gnoseologia – le questioni dell’essere e della verità – hanno assunto una declinazione ermeneutica. Non è infatti possibile parlare di verità al singolare, come un assoluto slegato dalla complessità dell’accadere, ma di verità al plurale, di una ramificazione sempre più complessa e cangiante, di un gioco rizomatico che pullula dagli eventi e cerca di rispettare le loro differenze. Il cuore dell’ermeneutica è costituito dal gioco tra Gegenstand e Bedeutung, tra il dato e il significato, poiché ogni segno è un oggetto/evento composto di significante, significato e riferimento.
E questo accade perché l’umano «is a sign; so, that every thought is an external sign. That is to say, the man and the external sign are identical, in the same sense in which the words homo and man are identical. Thus my language is the sum total of myself; for the man is the thought».[1] Peirce ritiene che la società tutta intera sia linguaggio e cultura, sia campo e dominio dei segni.
Pervasività, varietà e universalità del segno sono state in realtà da sempre oggetto del discorso filosofico. Il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi, un mondo che è sempre temporale. Il divenire si costituisce come una temporalità ermeneutica. Anche per questo il tempo è così difficile da comprendere, da cogliere sul fatto, poiché l’evento è per sua natura cangiante. Temporalità e conoscenza sono inseparabili. Lo sono in particolare per Husserl, per la sua prospettiva fenomenologica e costruttivistica. Le Ricerche logiche – soprattutto la prima, la quarta e la sesta – sostengono una posizione molto chiara, per la quale le percezioni sono dei costrutti, la conoscenza è una sintesi attiva che trasforma il dato (Gegenstand) in oggetto (Objekt).
In ogni caso la complessità della semiotica è tale da escludere ogni riduzionismo logicistico; la sua ricchezza è data anche dal fatto che la creazione e lo scambio di segni costituiscono un ciclo senza fine, sono la vita stessa della comunicazione umana. L’umano stesso è dunque un segno. «Ein Zeichen sind wir, deutungslos» (Hölderlin, Mnemosyne, v. 1), siamo un segno che nulla indica. Nulla, al di là di sé stesso, del proprio indicare, della vita come segno, parola, concetto, significato che abita in noi e non certo nelle cose e nella materia, che bisogno di senso non hanno.

 

2. Gadamer

Ciò che siamo, il corpomente che ci costituisce, è un dispositivo semantico che crea senza posa significati, comprensione, spiegazione, dando in tal mondo senso alle nostre fragili vite. È anche per queste ragioni fondanti e fondative che l’ermeneutica è diventata – come sostenuto da Gianni Vattimo – una κοινή, una lingua comune a gran parte della filosofia contemporanea, anche a posizioni che per il resto sono tra di loro distanti.
Ed è anche per questo che Verità e metodo, pubblicato nel 1960, rimane uno dei libri più importanti del Novecento e del presente. In esso Gadamer raccoglie una tradizione di pensiero per la quale la verità è una questione non di metodo ma di storia, direi – meglio – non soltanto di metodo ma anche di storia.
Heidegger, sulla scorta di Nietzsche per il quale – al di là ogni forma di realismo ingenuo – «contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: ‘ci sono soltanto i fatti’, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto ‘in sé’»,[2] ha fatto di questa posizione critica una ontologia: la verità è storica perché il Dasein, l’esistenza stessa, è tempo.
Con Heidegger e Gadamer l’ermeneutica si trasforma dunque da metodica delle scienze dello spirito in ontologia. Un’ontologia che affonda anch’essa nella temporalità; nell’insieme di rimandi fra il passato della tradizione e il presente della comprensione; nella Wirkungsgeschichte, la «storia degli effetti» che l’opera ha generato e nella quale consiste il suo significato più pieno; nella Horizontverschmelzung, la «fusione di orizzonti» che accade sia fra gli interlocutori del dialogo sia tra loro e il testo che proviene dal passato e parla nell’adesso.
L’ontologia ermeneutica è in grado di confrontarsi con il pragmatismo, con la filosofia analitica, con l’epistemologia di Popper, Kuhn, Lakatos, in quanto per Gadamer «non è il criterio di verificabilità che convalida i discorsi dimostrativi della scienza, ma è la loro conformità a una certa comunità storica, alle sue forme di vita, alle sue attese e ai suoi bisogni».[3]
L’interpretare di cui parla Gadamer non è un atto soltanto umano, l’agire di una volontà singola ma è piuttosto un accadere dentro le cose, un evento che tocca l’essere umano all’interno del più ampio cerchio ontologico. Nessuna interpretazione può insomma fare a meno di una comprensione già data, i due eventi sono inestricabilmente connessi: è questa una delle tesi centrale dell’ermeneutica di Heidegger e di Gadamer.
All’ermeneutica giuridica di Emilio Betti per il quale «sensus non est inferendus, sed efferendus», e per il quale dunque il comprendere è conseguenza di una corretta interpretazione perché il significato e senso di un testo non va introdotto in esso ma va da esso ricavato, l’ermeneutica teologica di Bultmann – influenzata anch’essa da Heidegger – risponde che non è possibile alcuna esegesi che non parta da presupposti già dati. Alla fine del suo libro, Gadamer può pertanto scrivere che

non esiste certamente alcuna comprensione che sia libera da ogni pregiudizio, per quanto la nostra volontà possa proporsi di sottrarsi, nella conoscenza, al dominio dei nostri pregiudizi. […] Ciò che non è dato dallo strumento del metodo, deve invece e può effettivamente essere realizzato attraverso una disciplina del domandare e del ricercare, che garantisce la verità.[4]

In questo modo, la verità non coincide più con l’assoluto ma diventa anch’essa una forma della finitudine. In quanto finita, la conoscenza umana è sempre volta al presente, al qui, all’ora, al questo e alle loro scaturigini nel passato.
Già Droysen, nella sua Historik del 1868 aveva sottolineato che la comprensione storica ha come scopo sempre il presente, anche per poterne orientare le scelte etiche e politiche. Nel 1937 Bultmann ribadiva che la conoscenza storica è possibile soltanto dentro un più ampio contesto culturale che ricostruisce gli eventi del passato in vista degli impegni del presente; così come per Croce la storia è sempre storia contemporanea. Gadamer – estendendo l’interpretare comprendente a ogni forma di conoscenza – conclude che ogni comprensione di un testo scritto che voglia essere feconda non si limita a ripetere ciò che è stato detto ma è la sua partecipazione al senso del presente.
Si dà comprensione di un evento come di un’opera soltanto quando il testo è assimilato da chi legge – o l’oggetto è compreso da chi lo osserva – in modo non estrinseco, dicotomico o ‘neutrale’ ma quando si dispiega per intero quella storia degli effetti che l’opera ha generato e nella quale consiste il reale significato di ogni creazione della mente e della cultura.
Un secondo aspetto centrale dell’ermeneutica è il risultato ultimo al quale Verità e metodo perviene: «L’essere che può venire compreso è linguaggio».[5] In questa fondamentale affermazione Gadamer sembra coniugare i limiti della esprimibilità del mondo che già Wittgenstein aveva messo in luce e l’identificazione heideggeriana di essere e linguaggio.
Lo scarto proprio di Gadamer è rappresentato dalla integrale storicizzazione da lui attuata del linguaggio. Non a caso Gadamer ha affiancato ai testi teoretici più densi e originali tutta una produzione storico-filologica volta a mostrare la fecondità del pensiero greco, e in particolare del platonismo, per la comprensione del sapere e del vivere contemporanei.

 

3. Disseminazioni

La rilevanza teoretica delle tematiche ermeneutiche nella filosofia contemporanea ha numerosi altri testimoni. L’intera psicoanalisi è un itinerario nel profondo attraverso l’espressione linguistica e l’interpretazione di ciò che viene detto. L’archeologia di Foucault indica proprio negli enunciati linguistici il residuo più significativo di ogni cultura. Con la grammatologia Derrida – pur se in forme peculiari – ha restituito centralità al testo rispetto alla onnipotenza delle grandi costruzioni teoretiche. Searle ha sottolineato il radicale limite che sempre caratterizza la maniera in cui una macchina può elaborare linguaggi: un modo del tutto formale e quindi privo di quella dimensione semantica ed ermeneutica nella quale soltanto consiste la comprensione degli enti e degli eventi.
Si torna così alla centralità greca del λόγος, del linguaggio come carattere peculiare dell’essere umano che la filosofia tenta di comprendere e spiegare in forma rigorosa. L’ermeneutica costituisce una comprensione radicale del divenire per almeno tre ragioni:

1. conserva la consapevolezza della stratificazione storica dei linguaggi, senza che questa consapevolezza induca a equiparare in uno sterile relativismo tutte le forme umane di espressione come se fra di esse non ci fossero differenze;

2. sa che il linguaggio è anche un mezzo di comprensione della realtà ma che la natura di questo medium non è soltanto strumentale e richiede anzi un particolare rispetto da parte di chi utilizza una facoltà che filogeneticamente gli preesiste e che gli sopravvivrà;

3. è in grado di comprendere che non è perché pensa che l’uomo parla ma è la parola stessa ad aver generato dal corpo e dalla mente il pensiero.

Anche per questo semiotica, filosofia della mente e filosofia del linguaggio trovano nell’ermeneutica il loro terreno comune. Non è possibile, infatti, comprendere un segno al di fuori del contesto rappresentato dalle forme quotidiane di vita, dalle aspettative sui comportamenti, dalle visioni del mondo dentro le quali i segni in generale e le parole in particolare germinano.
Segno è pertanto un complesso processo di interpretazione: «Qualcosa è segno solo perché viene interpretato come segno di qualcosa da qualche interprete».[6] Questa tesi di Peirce è ripresa integralmente da C.W. Morris. Condizione di un segno, infatti, non è soltanto lo stare al posto di qualcos’altro, indicandolo, ma anche l’offrire una o più possibili interpretazioni di ciò al posto del quale il segno sta.
Diventa dunque fondamentale la distinzione – posta anch’essa da Morris – fra le tre dimensioni del segno: semantica, sintattica e pragmatica; il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi.
È ancora Peirce a esprimere nel modo più vero e radicale la natura semantica del corpomente che siamo. Così Eco sintetizza le tesi del filosofo americano: «L’uomo è il suo linguaggio, perché la cultura si costituisce come sistema di sistemi di segni. Anche quando crede di parlare, l’uomo è parlato dalle regole dei segni che usa».[7]
Un’affermazione, quest’ultima, condivisa da Heidegger, per il quale il linguaggio è «la casa dell’essere, abitando la quale l’uomo e-siste, appartenendo alla verità dell’essere e custodendola».[8]
La natura più profonda del segno consiste in questo suo legame con la verità molteplice del mondo, nel suo saperla dire, indicare, custodire.
Per Heidegger «il λέγειν, il parlare, è lo statuto fondamentale dell’esistere umano. Nel parlare esso esprime sé nel modo del parlare di qualcosa, del mondo. Questo λέγειν era per i Greci talmente onnipervasivo che proprio riferendosi a tale fenomeno e muovendo da esso giunsero alla definizione di uomo, denominandolo ζῷον λόγον ἔχον».[9]
È quindi del tutto evidente che il linguaggio non è soltanto un modo del comunicare, una descrizione di enti e di situazioni, un protocollo di regole. Il linguaggio contribuisce a generare per noi la realtà. L’essere degli umani è sempre storico, temporale, linguistico.
Il che equivale a dire che l’essere degli umani è costitutivamente ermeneutico, vuol dire che l’umano è un Animal Interpretans.

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] C.S. Peirce, Collected Papers, 5. 314.

[2] F.W. Nietzsche, Frammenti Postumi 1885-1887, in Opere, VIII/1, trad. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 1975, 7[60], p. 299.

[3] M.L. Martini, Verità e metodo di Gadamer e il dibattito ermeneutico contemporaneo, Torino, Paravia, 1992, p. 52.

[4] H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. di G. Vattimo, Milano, Bompiani, 1983, p. 559.

[5] Ivi, p. 542.

[6] C.W. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni, a cura di F. Rossi-Landi, Torino, Paravia, 1955, p. 31.

[7] U. Eco, Segno, Milano, Enciclopedia Filosofica ISEDI, 1973, p. 138.

[8] M. Heidegger, Segnavia, trad. di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1987, p. 287.

[9] Id., Il «Sofista» di Platone, edizione italiana a cura di N. Curcio, trad. di A. Cariolato, E. Fongaro, N. Curcio, Milano, Adelphi, 2013, p. 62.


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ERMENEUTICA , PROSPETTIVISMO , SEGNO , VERITà , HEIDEGGER , GADAMER


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Filosofia

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