Proteggete le nostre verità. 
Una lettura di «E questo sonno...» di Franco Fortini

di Tommaso Di Dio

 

 

1. Fra i millenni

«Proteggete le nostre verità».[1] Con questi versi, lapidari, perentori, pronunciati però – così sembra – con l’ultimo fiato a disposizione, Fortini consegnava il suo ultimo libro di poesie, Composita solvantur, edito da Einaudi pochi mesi prima della sua morte, avvenuta nel novembre del 1994.
Possiamo partire da questi versi, lasciati da un poeta e da un uomo alla fine di un millennio, per provare a mettere in luce alcune figure che possano costruire un’idea, una visione del rapporto che oggi, a quasi trent’anni dalla morte del suo «custode immaginario», la parola della poesia può avere con lo spettro sempre in fuga della verità. Diciamo subito che con questi versi Fortini consegna un testamento incompiuto; o meglio un testamento che si lascia leggere soltanto in un’incompiutezza problematica, composto da strofe che intenzionalmente stridono fra loro e cozzano e acquistano potenza dalla loro esplicita non volontà di essere accolte in una ricomposizione organica e quieta. Come è stato sottolineato,[2] questa poesia rimanda ad «un dialogismo agonistico e drammatico, ad un conflitto di voci e riflessioni» che non solo non trova stabilità nella composizione, ma il cui impossibile montaggio ne è «nascostamente» il tema, «l’epigramma latente».[3] Per provare a fare un passo avanti, oggi, per noi inoltrati ormai nel secondo millennio, non sarà forse un esercizio vano ripercorrere il contenuto di questi versi per provare non a capirne il movente, ma ad approfondire la loro posizione paradossale. Lo faremo senza acribia filologica ma – si spera – senza superficialità, appoggiandoci alla lettera del testo quanto basta per condurci oltre il guado e provare a dire la nostra, in un confronto libero con il testo, ma non liberato dall’ossessione per la forza della parola. Qui più che altrove, Fortini non solo intende ricapitolare la sua posizione di uomo e di poeta, ma anche parlare direttamente a noi, uomini d’oggi, che nella poesia ancora credono, e credono in essa di poter trovare ancora un senso, ovvero – come l’etimo suggerisce – la direzione di una possibile eredità in cammino.

 

2. «Un bene ci mosse»

Nella prima strofa il poeta si mette la maschera. Quasi rovesciando il celebre sonetto proemiale di Petrarca in cui il poeta, fattosi saggio, rammemora il «giovenile errore»,[4] Fortini si presenta come un «fatuo vecchio»[5] che ripercorre le illusioni che in gioventù nutriva verso quello che, con l’ironico arcaismo di un’anastrofe, egli stesso indica come «dell’avvenire il disperato gesto». Subito dopo, nella seconda strofa, ci porta diritti nel baratro: ci offre, con un brusco montaggio, tre versi che sono l’epitome di un radicale nichilismo. Ribadisce che «nessun vendicatore sorgerà / l’ossa non parleranno e / non fiorirà il deserto».[6] Il poeta sembra dunque voler ricordarci che per i torti della storia, per le vittime innocenti, per le miriadi di morti senza colpa, non ci sarà alcuna possibilità di giustizia. A confermare questa amara sentenza, giunge la più lunga strofa seguente. Spezzata da una verso scalettato, mostra come sia nel mondo animale, che nel mondo minerale, non è che ribadita la medesima legge: «tutta la creazione»[7] è uno massacro invendicato. Le forme minerali sono infatti «carcerate» e poi «tradite»;[8] la vita animale, rappresentata dai «ghiri gentili», non fa che chiedere, con le «zampette in posa di pietà», una grazia che non ha posto nella vita che non ha più nulla del dono della «creazione»; parola che ora suona ironica, un malevolo ghigno in controcanto. Sebbene alluda ad un ambiguo rapporto filiale, nel contesto acquista il profilo cieco e adeterministico tipico dell’evoluzionismo darwiniano.
A metà del testo però qualcosa muta radicalmente. La poesia trova uno scatto imprevisto e imprevedibile. A questa «catabasi spirituale»[9] si oppone, introdotta dalla potenza della congiunzione avversativa, che già Fortini riconosceva essere tratto centrale dell’amato lombardo Clemente Rebora,[10] una seconda parte, contraddittoria, altrettanto problematica della prima parte. Leggiamola:

Ma voi che altro di più non volete
se non sparire
e disfarvi, fermatevi.
Di bene un attimo ci fu.
Una volta per sempre ci mosse.

Non per l’onore degli antichi dèi,
né per il nostro ma difendeteci.
Tutto ormai è un urlo solo.
Anche questo silenzio e il sonno prossimo.

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.
«Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava
Klockov.

Rivolgo col bastone le foglie dei viali.
Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.
Proteggete le nostre verità.

Che il poeta avesse in mente un destinatario preciso o no,[11] la lettera del testo apre a molteplici letture. Partiamo con ordine dai primi versi di questa seconda parte. Fortini qui sembra in prima istanza rivolgersi, in maniera stranamente accorata, a coloro che non credono nella storia e alla sua tensione etica; e che invece vivono senza un orizzonte di senso collettivo, in un’ottica di radicale individualismo. Per loro, il movimento della storia è solo biologia: altro non c’è che il proprio disfacimento, la propria sparizione. È dunque un «voi» quello a cui si rivolge che è tutt’altro che una comunità, un partito; è piuttosto una pluralità indistinta, sconnessa, di interessi in conflitto perenne. È l’idea di una società di singoli che lo sviluppo terminale della logica centrifuga del capitalismo avanzato ha diffuso in Occidente, la quale è a sua volta una conseguenza di un’ideologia antropologica netta: l’uomo alla fine della storia. È infatti di pochi anni prima, del 1992, il celebre e chiacchieratissimo saggio di Francis Fukuyama The end of history and the last man,[12] che proponeva l’idea che, dopo la caduta del muro di Berlino, il capitalismo fosse lo stadio terminale e globale della dialettica storica, la quale invece di concludersi – come molto del Novecento aveva sperato – con il socialismo realizzato, trova la propria fine (e il proprio fine) nella possibilità, propugnata e realizzata dalla logica del capitale, di esprimere senza riserve il proprio desiderio singolare. Per Fukuyama, il capitalismo esprime al meglio le due componenti fondamentali dell’uomo, ovvero il desiderio e il bisogno di riconoscimento. Nelle parole riassuntive di Costanzo Preve, studioso del comunismo e critico di questo quadro economico proposto dallo storico americano, «la natura umana vuole ad ogni costo il riconoscimento della propria irriducibile differenza singolare» ed insieme «il soddisfacimento del proprio desiderio di potere, ricchezza e onori»; ed è proprio questa sincronicità che «risulta incompatibile con il livellamento socialista».[13] A questa massa di individui senza comunità, l’anziano poeta ricorda che «di bene un attimo ci fu, / una volta per sempre ci mosse».[14] In questi due versi, legati per asindeto, che condividono il medesimo soggetto che però nel secondo è sottinteso, assente e presente insieme, come se il «bene» fosse un fantasma in sussulto, si nota subito la ripetizione della particella «ci». Leggiamola con attenzione e vedremo come in poesia perfino la grammatica minima sia in grado di ridefinire un orizzonte alternativo di senso.
Nel primo dei due versi, infatti, «ci» ha senza dubbio un valore avverbiale, che all’interno però della trama del testo assurge quasi a paradosso. Infatti da un lato significa che “un bene fu qui”, dall’altro il “qui” del testo ambiguamente si situa sia nel tempo dell’io lirico (quindi per noi che leggiamo: nel passato) sia nel tempo del lettore, ovvero nel tempo dell’esecuzione del testo poetico (nell’adesso della lettura). Il testo poetico diventa quindi testimonianza – luogo – dove un bene si è dato a vedere, si è mostrato; meglio ancora: dove si dà a vedere, come apparizione fantasmatica di un passato; il quale però accade soltanto nel luogo che si fa presente del testo eseguito. È come se il testo ci dicesse “qui, nel passato, è stato un bene”; e noi lettori, esecutori del testo poetico, dobbiamo vedere contemporaneamente sia il luogo alluso nel passato, sia il gesto presente dell’indicare. Questo “bene” accade allora in un presente-passato: è un fantasma di un contro-presente. È un accadere qui, un adesso che però indica un momento remoto: il ritorno di uno spettro.
Questo spettro nondimeno «ci mosse», ovvero “mosse noi”. In questo secondo verso, la particella «ci» va invece interpretata come pronome personale e non può non apparire, in forza del parallelismo che guida la composizione del senso in una poesia,[15] legata a quella del verso precedente, essendo nella stessa posizione, penultima parola del verso, preceduta da due verbi che sono entrambi al passato remoto (mentre i precedenti, si badi, sono tutti al tempo indicativo presente).[16] La potenza di questo parallelismo risulta ancora più evidente, se la confrontiamo con la ripetizione del pronome di seconda persona plurale nei versi precedenti: «Ma voi», «e disfarvi», «fermatevi». È come se i due versi che chiudono la quarta strofa di questo componimento mostrino, sia ritmicamente (il verso 24 è tronco), che semanticamente, la volontà di far sì che il lettore si fermi e fermi la sua storia di disfacimento biologico, per inserirla in un altro tracciato. Infatti la particella «ci», così contrapposta a quella di seconda persona e proposta come il risultato della strofa, come luogo dove è necessario fermarsi, sembra più che separare un “noi” da un “voi”, aprire e includere, nella sua doppia valenza di locativo e pronome, in un rinnovato “qui”, un “noi” che ancora non c’è, ma che al contempo si dà a vedere come presente nel tempo dell’esecuzione del testo. Il «ci» è allora nella sua ambiguità sia il luogo, sia il soggetto che lo abita. Fra i due non c’è contraddizione, ma legame genetico: chi accetta di stare in questo luogo è già un “noi”. È come se Fortini ci stesse indicando che è la coabitazione originaria del luogo presente che produce e articola i soggetti e non viceversa. Sottolineare questo aspetto non è una sottigliezza, ma ha delle decisive implicazioni sul piano dell’ideologia politica e del ruolo che la poesia può avere in questo processo. Un conto è infatti considerare la poesia come espressione di un partito che già c’è: prima c’è la vita, poi la poesia che ne esprimerebbe le posizioni; un altro è considerare la poesia come luogo poietico, creazione di un tempo e di un luogo comune in cui i differenti possono essere riarticolati a partire da un’unità: dall’apparizione in un luogo comune e dal suo rovescio.[17]
Ecco perché nel v. 25 Fortini scrive «Una volta per sempre»: i verbi dei versi 24-25 sono infatti al passato remoto non tanto ad indicare una posizione in un’astratta cronologia, ma per indicare il valore perfettivo dell’azione che “fu” e che quindi “mosse”. Il modo in cui accadde il bene è un modo che ha trasformato invariabilmente chi lo indica, chi lo testimonia: il poeta è ormai trasformato da questo bene che “ci fu”; ed è di questa trasformazione che si vuole rendere partecipi i “voi”, includendoli nel “qui” del testo. Anzi: il bene è proprio l’accadere di questa compartecipazione. La congiunzione «ma» con cui si apre la seconda parte del componimento non è allora spia di un’avversione, di una lotta che il poeta compie contro qualcuno, sia esso un gruppo reale, un’ideologia precisa, o meno; è invece il segno sintattico di una proposta, il segno che mostra il vettore energetico che vorrebbe essere animato dalla parola della poesia. Parente più prossima della celebre avversativa dell’Infinito,[18] vorrebbe spingere e coinvolgere il lettore dentro un’altra forma del tempo, un tempo che ha nel “qui” e nel “noi” il suo valore. Tempo messianico è stato giustamente detto,[19] e sono noti i legami fra il pensiero di Benjamin e la poetica di Fortini. Si potrebbe aggiungere che quello di Fortini è un tempo in rivolta. Per dirla con le parole di un altro interprete del filosofo berlinese, Furio Jesi,[20] quello di Fortini è un tempo sospeso, attimo in cui ogni elemento feriale e individualistico è annullato e si realizza all’istante la partecipazione ad una collettività:

Usiamo la parola rivolta per designare un movimento insurrezionale diverso dalla rivoluzione. La differenza tra rivolta e rivoluzione non va ricercata negli scopi dell’una o dell’altra; l’una e l’altra possono avere il medesimo scopo: impadronirsi del potere. Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo. [...] si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale di per sé stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà o di perennità di cui consiste la storia.[21]

E più avanti aggiunge:

L’istante della rivolta determina la fulminea autorealizzazione e oggettivazione di sé come parte di una collettività. La battaglia fra bene e male, fra sopravvivenza e morte, fra riuscita e fallimento, in cui ciascuno ogni giorno è individualmente impegnato, si identifica con la battaglia di tutta la collettività: tutti hanno le medesime armi, tutti affrontano i medesimi ostacoli, il medesimo nemico. Tutti sperimentano l’epifania dei medesimi simboli: lo spazio individuale di ciascuno, dominato dai propri simboli personali, il rifugio dal tempo storico che ciascuno ritrova nella propria simbologia e nella propria mitologia individuali, si ampliano divenendo lo spazio simbolico comune a un’intera collettività, il rifugio dal tempo storico in cui un’intera collettività trova scampo.[22]

Solo a patto che il lettore sia presente in questo “attimo”, in questo tempo in rivolta, ovvero in questa frazione indivisibile, unità minima di condivisione e perciò unità di misura, e sia da questa incluso; solo se egli abbia trasformato il luogo/qui (il primo «ci») in una comunità (il secondo «ci»), allora è possibile comprendere i versi seguenti, che dichiarano che «non per l’onore degli antichi dèi / né per il nostro ma difendeteci».[23] Non si tratta infatti di difendere un onore che sia l’opposto di un altro, per amore di consorterie o di fazioni; né c’è alcun onore di vecchie ideologie da salvaguardare («degli antichi dèi»); si tratta invece di difendere la realtà di una comparizione: la verità di essere apparsi in un medesimo luogo, di esserci insieme.[24]
A questo in via di ricostituzione e problematico «noi», non si oppone infatti il «voi», ma il «tutto» dei versi che seguono. «Tutto è ormai un urlo solo» scrive il poeta; e aggiunge: «anche questo silenzio e il sonno prossimo».[25] Cos’è questo «tutto», questa enormità che si oppone ad ogni possibile noi? Che sostituisce l’urlo alla voce, che comprende nel medesimo orrore anche il sonno e il suo inviolabile gemello, il silenzio? Se è pur vero il mutamento di prospettiva, ben rilevato dalla critica,[26] rispetto ai celebri versi del Montale di Tramontana («[…] è un urlo solo, un muglio /di scerpate esistenze»),[27] che radica il travaglio esistenziale e generico di quell’urlo nella storia personale dell’uomo Fortini, prossimo alla fine della vita, è pur vero che quell’urlo appare un nemico senza volto, ostile e minaccioso contraltare del «noi» invocato dal poeta. È come se alla comunità in via di creazione attraverso l’accadere della poesia, una comunità fragile, che articola i propri membri e i propri istanti, comunità in divenire, metamorfica, dialettica, costruttiva e in dialogo fra i tempi nel tempo-evento dell’istante della pronuncia, Fortini opponesse l’orrore di un caos omogeneo, piatto, continuo e adialettico: la violenza uniformata di un «tutto» in atto, senza più residuo di potenza, senza più possibilità di esser altro. Una totalità che qui sembra intesa come strozzatura del divenire, che cancella proprio il rovescio di quella voce articolata in un “noi” («questo silenzio e il sonno prossimo»), che stava nascendo nel luogo comune. Un «tutto» e un «urlo» che elimina quel silenzio e quella consapevolezza della morte che producono lo spazio necessario per un «noi» da far accadere e che nega quella possibilità che era al centro di una straordinaria poesia di Fortini degli anni ʼ50: «Esiste nella poesia una possibilità / che, se una volta ha ferito / chi la scrive o legge, non darà / più requie».[28]
Molti anni dopo di questi versi e ancora molti prima di questi del 1994, in un’intervista ad Alfonso Berardinelli del 1973, invitato a chiarire il senso dell’oscurità nella propria poesia, Fortini rispondeva con queste parole:

[…] la difficoltà, l’oscurità, il fumo si accompagnano necessariamente ad ogni discorso che si rifiuta a dispiegarsi perché ha come proprio centro una proposta o una allusione di totalità. Hanno parlato di mistica. Un corno, come diceva Vittorini. Essere verso il comunismo, per me, ha voluto dire indicare, con uno stesso gesto, l’assenza di unità umana (o l’alienazione, come si dice) e l’ipotesi di quella unità (o la fine dell’alienazione). Ebbene, pensare e scrivere voleva dire, per me, vuol dire, un equivalente di quel gesto.[29]

Un medesimo «gesto» allora: da un lato quel «tutto» è condanna della totale alienazione del mondo reificato e totalizzato dal capitalismo avanzato, dall’altro è allusione e proposta di un’alternativa, di una nuova idea di azione comune. Quel «tutto è un urlo solo» è allora l’identificazione di un nemico, solo se è anche comune consapevolezza di una condizione. Siamo ancora nel processo di formazione di un «noi»; è come se il poeta dicesse: se siamo insieme, dobbiamo convenire che questo mondo, in cui stiamo scavando a fatica con questa scrittura un luogo in cui consistere, è la totalizzazione di un urlo e al contempo però possibilità di articolazione dell’urlo. E infatti i versi della strofa che segue, che ritorna significativamente al carattere tipografico normale dopo il corsivo delle strofe precedenti,[30] come se fosse una voce a parte che emerge da un tempo diverso, da un altrove obliquo, da un’intercapedine della storia, da un doppiofondo della storia dell’Europa e di Fortini uomo, rappresentano nell’economia del testo quella che può sembrare una proposta operativa: la presentazione di un modo di stare insieme. Una volta costituito il nesso genetico fra il testo, il luogo e il «noi», e individuata l’ostile e fertile duplicità del «tutto» che ci circonda, il poeta, come un lampo da un altrove – lampo di dolore, forse – offre un modello di comunità. Rileggiamo i versi:

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.

«Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.

Abbiamo Mosca alle spalle».

Si chiamava Klockov.

Torna qui un’antica ossessione, già oggetto della «triste ironia» di Pier Paolo Pasolini.[31] L’idea che «tutte le poesie di Fortini hanno l’aria di essere scritte durante una “sosta della lotta”».[32] Si sa che proprio su questa diversa interpretazione della storia e dei movimenti giovanili che in quegli anni si agitavano in Italia e in Europa, si consumò la rottura della loro amicizia. Fortini è nel 1969 come nel 1994, come nel 1945: dominato da un ritorno compulsivo all’esperienza bellica, all’idea, sempre nelle parole di Pasolini, «che ha attualmente Fortini della situazione, come di una situazione di emergenza: in cui il poeta si deve trasformare in uno stratega, in un soldato».[33] I versi della poesia infatti fanno riferimento ad un episodio celebre della resistenza al nazifascismo da parte della Russia comunista. Fortini stesso, nella nota in fondo a Composita solvantur:

 

Klockov è il nome del commissario politico che, insieme ai «ventotto» eroi di Panfilov, fino alla propria morte volontaria, contrastò vittoriosamente fanterie e carri armati tedeschi all’incrocio fra lo stradale di Volokolàmsk e quello di Duboskovo, nel giorno e nel luogo dell’estrema vicinanza della Werhmacht alla capitale sovietica. Pare avesse detto: «La Russia è grande ma non abbiamo più dove ritirarci perché dietro di noi c’è Mosca».[34]

 

Queste sono, tra l’altro, le estreme parole che concludono il volume. Fortini sembra ribadire quella che già 25 anni prima Pasolini gli aveva rinfacciato, ovvero la «metastoricità» dell’atto poetico, che avviene sempre «in una sosta, in un angolo fuori dall’azione, in una piega segreta della storia»; e acquista valore soltanto se è «ripensamento della lotta».[35] Per il poeta di Casarsa, Fortini ha un’ossessione per la «guerra guereggiata», che gli deriva infine dalla necessità di trovare un senso al proprio agire: «Ma Fortini, io penso, ha bisogno di sentirsi in guerra, perché solo in tal caso egli esiste, e trova una necessità al proprio esistere». E così continua Pasolini, con parole sempre più affilate: «la pace (la “religione della vita quotidiana”) è una cosa ch’egli non ha avuto in sorte»; per Fortini infatti la pace è degna di interesse «solo come nostalgia, che attanaglia durante la tregua della lotta». Pasolini conclude, e siamo già oltre ogni ricomposizione possibile delle parti:

 

Come ebreo per necessità, come politico per scelta, Fortini non ha diritto alla pace. E questo me lo rende fratello e caro. Ma la sua cecità di fronte alla realtà, e il fanatismo che non può non derivarne, mi spinge a polemizzare con lui. Non siamo in guerra.[36]

 

Al netto della polemica fra questi due grandi poeti e intellettuali, che ha le sue precise coordinate storiche e che sappiamo non troverà nemmeno una vera e propria ricomposizione con l’ultimo lavoro saggistico di Fortini, Attraverso Pasolini,[37] dedicato proprio al drammatico e ricchissimo rapporto con l’amico poeta e che si apre con l’incipit fra i più memorabili «Aveva torto e non avevo ragione»,[38] l’osservazione di Pasolini è acuta e veritiera nei fatti, forse meno nel giudizio. L’ossessione per la resistenza come dimensione etica del tempo umano e il costante stato di guerra che sente presente nella sua vita, è innegabile; e spinge Fortini a porre quasi al termine della sua poesia più testamentaria, un fatto eroico del 1941. Ecco allora che Klockov, bisillabo che schiocca sonoramente al termine della strofa,[39] è il protagonista, l’ambiguo modello il cui ricordo entra violentemente nella situazione della poesia: «la strofa allude proprio alla condizione di estrema difficoltà e necessità, alla situazione irrimediabile di un momento catastrofico, di una assenza di una sia pur labile protezione: allegoria di una condizione esistenziale e storica, individuale e collettiva».[40] Klockov e i celebri ventotto uomini al comando del generale Ivan Panfilov che, secondo la leggenda propalata dal regime di Stalin, difendono Mosca fronteggiando ben 56 carri armati tedeschi e distruggendone 16 prima di morire eroicamente, entrano all’improvviso nella tessitura di questa poesia e aprono ad una dimensione che sembra porsi sia come modello, sia come sprofondo storico. Fortini qui sembra proporre per la comunità che si sta creando nel testo il modello della resistenza perinde ac cadaver, dove alla Provvidenza gesuitica è sostituito qualcosa di ancora più sfuggente. Il paragone implicito fra la comunità in cammino nel testo e i celebri eroi a cui Klockov è rafforzato ancora di più dalla ricomparsa del pronome personale «ci» prima del verbo «disse»:[41] è proprio a noi, a noi che fummo testimoni di quel bene presente-passato che «ci fu» e «ci mosse», che sono rivolte le parole di questo spettro russo.
Le parole con cui Fortini prosegue, più che una risposta, più che rassicurarci sul senso di questa apparizione improvvisa, sembrano essere una costatazione dolorosa. La poesia si chiude dunque e lascia aperte molte vie di lettura:

 

Rivolgo col bastone le foglie dei viali.

Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.

Proteggete le nostre verità.

 

Ritorna il corsivo, ritorna la maschera del «fatuo vecchio» che abbiamo incontrato nei primi versi. Siamo in un parco, all’aperto, in un oggi privo di connotazioni, l’anziano poeta cammina rivolgendo le foglie dei viali. Questo gesto, da un lato sembra alludere alla necessità di indagare l’enigma,[42] dall’altra è un’azione vana, priva di scopo apparente. Inutile e vana come quella dei due ragazzi che «mesti» allontanano con un calcio noncurante qualcosa che trovano per strada e di cui non riconoscono più funzione né senso. Infine appare quel verso, lapidario, tremante: «Proteggete le nostre verità». E ancora ci domandiamo: quale verità? Come una verità può essere «nostra»?

 

3. Cosa proteggere?

L’episodio di Klockov e dei ventotto di Panfilov è un falso storico.[43] È ormai largamente noto che la leggendaria resistenza degli eroi semplicemente non fu: è quello che oggi diremmo una fake news. Lo si sapeva fin dalla fine della guerra, quando già nel 1948 Stalin promosse una commissione di indagine per accertare i fatti realmente accaduti; indagine su cui, una volta stabilita la natura non veritiera del racconto, fu poi posto il sigillo di segretezza. Solo nel 2015 le autorità russe hanno sciolto il vincolo, lasciando così che – non senza polemiche – la verità emergesse. Oggi è noto che l’episodio nacque dalla troppo solerte penna di un giornalista sovietico, Krasnaia Zvezda, che gonfiò in un suo articolo le dichiarazioni raccolte dall’ancora vivente Ivan Panfilov che, se qualcosa raccontò, fu qualcosa certamente di meno eroico. Il regime di Stalin decise però di preservare l’accadimento così come la stampa l’aveva proposto e il sentimento del popolo lo aveva acclamato; e lo inserì fin da subito nei manuali scolastici e innalzò il fatto come esempio nobile del sacrificio tutt’altro che simbolico del popolo russo nell’ardua impresa di sconfiggere il nazifascismo tedesco.
Nel 1994 Fortini non sapeva nulla di tutto ciò; eppure non riusciamo a credere che non potesse immaginare una cosa simile: Fortini, l’autore del saggio del 1963 Le mani di Radek,[44] conosceva bene le strategie del regime comunista. Al di là del fatto che Fortini sapesse, non sapesse, immaginasse o non immaginasse, immaginasse e preferisse nascondere a sé la verità, a noi interessa un altro elemento di questa vicenda, il quale – in fondo – è già oltre Fortini e la sua poesia: siamo in questione noi. È nondimeno innegabile che, alla luce di questa acquisizione storica, il verso «proteggete le nostre verità» subisca una torsione. Fortini stesso aveva scritto «la storia ha un modo di ridere che è ripugnante»;[45] e qui davvero noi sentiamo nei suoi bassi corridoi il ghigno affilato di Calliope. La nostra attuale duplice consapevolezza – e della falsità del fatto, e che si sia trattato di mera propaganda – indubitabilmente fa sì che il significato di questo verso non possa più essere lo stesso: il significato si sposta, si decostruisce, vira. Come la patina cromatica degli affreschi di Cimabue nella chiesa inferiore di Assisi, grazie al tempo, ne scorgiamo il negativo: dal pathos del sacrificio eroico, scivoliamo verso il grottesco ritornello del regime. Ironicamente, ora ci chiediamo: caro Fortini, cosa dovremmo proteggere? Dovremmo forse proteggere il vero della Storia, e dichiarare falso questo mito nato e propalato da un regime? O dovremmo accettare il falso della storia, cioè il vero contenuto mitologico e morale di quel verso, a cui lo stesso Fortini si appigliava, evidentemente affidandosi ad una fabula picta di cui nulla sapeva da testimone? Quel verso sembra ora volerci trascinare in una trappola. Capite bene che qui è in gioco non solo il valore documentale di un testo, ma quale sia il valore di un testo che si vorrebbe illocutivo: la poesia di Fortini, infatti, con l’uso manifesto dell’imperativo e dei pronomi che abbiamo mostrato, si propone come concreta possibilità di azione, funziona come sprone, come innesco di un mondo in cui siamo – come lettori, come esecutori del testo – immedicabilmente coinvolti.
Le soluzioni che ci appaiono subito all’orizzonte sono sconfortanti. Proviamo ad enumerarle. La prima che si affaccia alla mente è quella sì, di accettare il testo, ma come documento di un tempo che fu, rifiutandone il contenuto, in quanto ormai ne riconosciamo la falsità storica. E così concludiamo che la poesia, se resta, resta come feticcio del tempo. Al pari di un’urna, di un osso, di un frammento architettonico, vale soltanto per il tempo che in essa si è accumulato, reliquia del tempo trascorso. In questo modo la poesia come specifico tessuto verbale inesorabilmente trascolora e se ne sancisce il valore al di là della sua leggibilità: ammettere che la poesia diventi reperto equivale a dichiararla uguale a mille altri frammenti del mondo, prescindendo da quello che quel tessuto significa. Il testo, come un reperto, è posto di fronte ad una misurazione oggettiva e ha valore – se qualcosa ne resta – solo in quello specifico contesto che è il museo, luogo dove tutte le ombre della storia convergono di fronte al mostruoso giudice razionale Kronos. Sentiamo che questa possibilità è “vera”: possiamo farlo, già lo facciamo, possiamo leggere ogni testo come documento di un’epoca e attribuirgli valore esclusivamente per la sua testimonianza di qualcosa che è scomparso. E possiamo farlo anche se il testo che abbiamo di fronte ci è divenuto illeggibile: così nel Museo Archeologico di Candia è conservato il Disco di Festo, reliquia di un mondo il cui linguaggio ci è tuttora incomprensibile. Eppure il testo di Fortini, per noi che ancora lo leggiamo, sembra impedire questa pacificazione: ci chiede qualcosa, imperiosamente. Non ci chiede di archiviarlo come una bizzarria del passato. Anzi, se facessimo così, ci sembrerebbe di tradirlo: di non “proteggere” quella verità.
E allora ci viene alla mente una seconda posizione. Possiamo invece accogliere la sua falsità; farne il perno per un’interpretazione allegorica. Possiamo fare come i primi padri della chiesa davanti alla IV Ecloga di Virgilio: di fronte all’inarrestabile marea del cristianesimo, pur di non perdere nella risacca le migliaia di versi di cui avevano imparato a vedere la grandezza di un capolavoro, s’ingegnarono di leggere altro da quello che la storia vi aveva impresso. Dunque potremmo leggere questi versi in tralice: leggere attraverso quelle parole altre parole e dire che Klockov qui è e non è il generale storicamente esistito, ma figura d’altro. Possiamo allora dire che Klockov in questa poesia è come Catone alle soglie del Purgatorio: non è di certo il Catone storico, il cui suicidio gli avrebbe meritato l’Inferno, eppure lo è, perché se non ci fosse nota la sua verità storica ci sarebbe proibito l’accesso alla sua verità ultraterrena. In quest’intercapedine fra le due, infatti, si apre uno spazio in cui Catone, come Klockov, è accettabile, è pienamente vero. Certo, lo è soltanto in uno sguardo ispirato, che tiene insieme «cielo e terra»[46] ed è dunque capace di rivelare il significato profondo del tempo della storia, snudandone il tempo della verità. Eppure Catone si è veramente suicidato, mentre Klockov non ha mai compiuto l’atto eroico a cui si accenna in quei versi. Ci accontenta dunque questa lettura? Corrisponde alla nostra dimensione di interpretanti del 2019? Se da un lato accoglie il nostro senso storico e lo conforta, dall’altro rende il testo vero in uno spazio al di là della storia, in un tempo morale che ci sembra sì promesso, ma verso cui sembra necessaria una fede di cui molti fra noi sembrano aver dimenticato il senso. Accettare questo secondo corno non ci porterebbe forse al paradosso che, ad essere da proteggere, non sono allora le verità storiche (quelle sono appunto transeunti, trascurabili, mutano), ma quelle verità morali che sulla storia poggiano soltanto? Su quale fondamento dovrebbe poggiare il piede l’interprete per spiccare il grande balzo? Questa idea mi ripugna: la storia della vittima ridotta a scalino dove poggia il grande piede morale dell’interpretante...
Eppure, mentre enumeriamo i nostri fallimenti e rimuginiamo l’amaro, continuiamo a scrivere: come se ci dovesse essere una via alternativa. Sentiamo oscuramente che la poesia di Fortini dice la verità. Quando leggiamo le sue parole, quando leggiamo senza riserve e infine arriviamo al verso conclusivo, qualcosa di noi sente che è tutto chiaro: che quello che animava Fortini è lo stesso che anima l’esecutore di quel testo, sebbene certamente non sia il medesimo: cosa è allora? Cosa ritorna ad essere vero, pur non essendo più la verità che fu per Fortini? Se riflettiamo con attenzione, ci rendiamo conto che, in maniera del tutto inconsapevole, ereditiamo un’idea di verità ben precisa: la verità è separazione, la verità è divisione. Dire il vero, per noi, significa escludere qualcosa: significa indicare che qualcos’altro è falso, che non è nel vero. Essere nella verità allora suona, alle nostre orecchie, inesorabilmente come un essere separato: come un essere diviso. Dire il vero è allora facoltà soltanto di alcuni, facoltà diairetica per eccellenza, di chi sceglie, di chi contrappone, di chi conosce la giusta divisione: e quindi scarta, separa, divide.
Eppure la poesia che abbiamo letto sembrava indicare un’altra idea di verità. La poesia di Fortini sembrava poterci parlare proprio in quanto aveva costruito uno spazio per noi, in cui noi eravamo apparsi: in quel «ci» eravamo convocati, eravamo chiamati ad essere partecipi, ma non in vista di un nemico comune, e neanche di una verità come possesso. Ci era sembrato di essere accolti, perché la poesia non dava per scontata la nostra presenza, ma proprio ci segnalava e ci dava la possibilità di apparire prima di tutto a noi stessi. Ci è stato chiesto o no, di fermarci? Infine di fronte a quella «nostra verità» eravamo coinvolti proprio perché divenuti responsabili: qualcosa dipendeva da noi, da tutti noi, presenti e assenti, minerali e animali, vivi e morti, falsi e veri. A quell’imperativo dobbiamo rispondere. È come se Fortini chiamasse a raccolta persino l’indifferente. Nell’immagine evocata dal verso «Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia» è come se anche l’indifferente fosse chiamato a differire, a farsi presente nella sua differenza. L’idea di verità che ci si fa incontro attraverso la poesia allora è un’idea di verità come inclusione, come armonia: vero, come ci ricorda Agamben,[47] è ciò che tiene insieme i tronchi di una zattera alla deriva, non ciò che li divide, non ciò che li separa.

 

4. Un’informità dissimile

Giunti qui, ci sembra di vedere qualcosa; qualcosa che non è una via d’uscita, non è una interpretazione risolutiva, ma è forse il suggerimento di uno spostamento, di una via alternativa tutta ancora da percorrere. Questa via ci è suggerita da qualcuno con la vista molto più ampia e forte della nostra: Agostino di Ippona. Infatti a conclusione del XII libro delle Confessiones, il filosofo si trovò ad affrontare una questione simile alla nostra: l’esistenza di interpretazioni dei primi versetti del libro di Genesi fra loro in contrasto, sebbene autorevoli. Agostino scrive:

Due specie di dissenso possono sorgere sopra un messaggio riferito per iscritto da messaggeri veraci: il primo sulla verità dei fatti, il secondo sull’interpretazione del messaggero.[48]

Agostino sostiene che quando si ama un’interpretazione, la sia ama in quanto vera; e quando la si ami vera, quella verità non è più un possesso, ma un «bene comune di tutti gli amanti della verità»:[49]

La tua verità non appartiene né a me né a chiunque altro, a tutti noi, e tu ci chiami pubblicamente a parteciparne, con questo terribile avvertimento, di non pretenderne il possesso privato per non esserne privati.[50]

Chi dice il falso, allora, dice «del suo».[51] Il vero è dunque vero, proprio in quanto è spazio di condivisione, in cui non c’è possesso, ma semmai spossessamento del proprio, oltre la capacità di leggervi dentro una logica che è sempre logica di una divisione:

Se entrambi vediamo la verità della tua asserzione ed entrambi vediamo la verità della mia, dove la vediamo, di grazia? Certo non io in te, né tu in me, ma entrambi proprio nella verità immutabile, che sta sopra le nostre intelligenze.[52]

Agostino ci propone una via che, se da un lato ci sorprende, dall’altro ci provoca. Infatti parte dal presupposto che le interpretazioni che si sommano su di un testo, quand’anche siano avverse, non sono fra loro in contraddizione, perché la verità non è un luogo determinato che si debba raggiungere, separato dagli altri, a cui soltanto alcuni possono accedervi; ma è la creazione di uno spazio di condivisione, in cui ognuno porta ciò che è, dove il passato e il presente sono convocati nella loro differenza e “graziati” per ciò che sono. Allora, davanti alla parola, c’è chi si comporta come un «bambino sensitivo»[53] che si fa condurre dal senso letterale delle parole, e altri che invece trovano fra i segni una opaca fruteta, un «ombroso brolo»[54] ricolmo dei frutti di rimandi a significati passati e futuri; ma tutti si ritrovano nella verità perché essa non è «una immagine quale forma di tutte le cose» a cui ciascuno deve aderire, ma «un’informità dissimile», tale per cui ciascuno può ricevere una forma conformandosi alla somiglianza come può, così come la riconosce.[55]
Prendendo spunto da queste parole del filosofo di Ippona, possiamo dire che l’idea di verità che la poesia ci mostra è assai simile a questa apertura; apertura che avviene per ciascuno, in ciascuno, secondo la singolarità di ciascuno. Non esclude e non divide: verità è anzi quella condivisione che per essere vera è fondata sulla carità reciproca, sul fatto cioè che si desidera e si vuole condividere quello che si è. Agostino con la sua inconfondibile e vibrante prosa, arriva a sostenere:

Io, lo dichiaro intrepidamente dal fondo del mio cuore, se giungessi al vertice dell’autorità e dovessi scrivere qualcosa, vorrei senza dubbio scrivere in modo che nelle mie parole echeggiassero tutte le verità che ognuno potesse cogliere in quella materia, anziché collocarvi con discreta chiarezza un solo pensiero a esclusione di tutti gli altri.[56]

Qui Agostino ci sembra indicare una strada. Dovremmo, attraverso la poesia, provare a tenere insieme le molte verità, ovvero la verità come molteplicità. Attraverso la poesia dovremmo pensare la verità come quella forza che permette di far aderire alle parole e conservare il maggior numero di interpretazioni possibili così che possano rivivere tutte nell’esecutore. Nel verso «proteggete la nostra verità», allora, dobbiamo riuscire a tenere insieme sia la fede di chi in quell’episodio storico credette, con tutto ciò che questa fede comportava, sia la consapevolezza che oggi abbiamo della sua falsità e il disincanto verso quella stessa fede. Amare come Fortini amava e, contemporaneamente, vedere lucidamente, così come adesso vediamo. La poesia sembra chiederci l’esercizio di un doppio sguardo, che però si mantenga il più aperto possibile per accogliere con ardore il maggior numero possibile di verità particolari. La poesia ci chiede di aderire al nostro tempo, eppure di prenderne distanza, di calarci paticamente, in tutto e per tutto in esso, e di distanziarcene lucidamente, in un esercizio di sistole e diastole che apre il cuore al trapasso del sangue: affinché in esso qualcosa scorra. Inardescimus et imus, scrive Agostino, «noi ardiamo e ci muoviamo»;[57] siamo nel movimento dei corpi, siamo prede di un vortice che porta ogni cosa verso la propria mutazione, verso la propria ombra. La poesia mi appare allora sempre più come lo strumento per sapere e sentire insieme, condividere questo trapasso.

 

 


[1] F. Fortini, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2014, p. 562. Questo saggio non avrebbe potuto esistere senza il dialogo prezioso e l’amicizia fraterna con Bernardo De Luca, a cui è dedicato.

[2] F. Rappazzo, «...e questo è il sonno». Temi, montaggio, figuralità, in L’ospite ingrato, 2009, articolo consultabile online al seguente indirizzo: http://www.ospiteingrato.unisi.it/e-questo-e-il-sonno-temi-montaggio-figuralita/.

[3] Ibidem.

[4] È il celebre v. 3 del sonetto incipitario dei Rerum vulgarium fragmenta: «in sul mio primo giovenile errore / quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono».

[5] Così al v. 5, in F. Fortini, Tutte le poesie, cit.

[6] Ivi, vv. 8-9. Sulle complesse ascendenze classiche e bibliche di questi versi, si veda sempre F. Rappazzo, «...e questo è il sonno», cit.

[7] Ivi, v. 16.

[8] Ivi, v. 17.

[9] F. Rappazzo, «...e questo è il sonno», cit.

[10] Si veda F. Fortini, Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, IV.I, a cura di A. A. Rosa, Torino, Einaudi, 1995. Fortini commenta così l’origine dell’uso e dell’abuso dell’avversativa in Rebora: «all’origine, al moto di avvio, di quasi tutte le composizioni sta un’attitudine di aggressivo antagonismo, di combattimento esacerbato. Di qui l’abuso del “ma” avversativo nei Frammenti: alla disgregazione di cui la città moderna (rispecchiata e duplicata dalla disgregazione del soggetto) è immagine dominante si oppone un gesto di volontà e di positività, un “nonostante tutto”, ben diverso, aggiungiamo, dal “ma” concessivo e limitativo che sarà in Sereni»; nella nota 49 aggiunge: «Mentre in Sereni le negazioni modulano le affermazioni, le alterano, in Rebora sono di pari forza e si aggrediscono, come draghi, a vicenda».

[11] Sempre si legga F. Rappazzo, «...e questo è il sonno», cit.

[12] F. Fukuyama, The end of history and the last man, New York, Free Press, 1992; trad. it., La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.

[13] C. Preve, Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Pistoia, Vangelista, 1993, p. 219; nelle pagine che seguono il filosofo decostruisce analiticamente le tesi dello storico americano.

[14] Sono i vv. 24-25, in F. Fortini, Tutte le poesie, cit.

[15] Si veda, fra i moltissimi, il classico Jakobson: «l’equivalenza del suono, proiettata nella sequenza come suo principio costitutivo, implica inevitabilmente l’equivalenza semantica», da R. O. Jakobson Linguistica e poetica, 1960, in Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 205.

[16] Si veda L. Lenzini, L’appuntamento. Sull’eredità di Fortini, articolo apparso su leparoleelecose.it, disponibile online a questo link: .

[17] Mi riferisco naturalmente ai celebri versi di V. Sereni, Situazione, in Gli strumenti umani, Milano, Mondadori, 1965: «Sono io tutto questo, il luogo / comune e il suo rovescio», vv. 15-16; ora in Poesie, Mondadori, Milano, p. 138.

[18] È il celebre v. 4 dell’Infinito: «Ma sedendo e mirando».

[19] Si veda appunto L. Lenzini, L’appuntamento, cit.

[20] F. Jesi, Spartakus, simbologia della rivolta, Torino, Bollati e Boringhieri, 2002, p. XXX.

[21] Ivi, p. 19.

[22] Ivi, p. 34.

[23] Sono i vv. 26-27, in F. Fortini, Tutte le poesie, cit.

[24] Fondamentale su questo aspetto il lavoro di J. L. Nancy, Essere singolare plurale (1996), trad. it. di D. Tarizzo, intr. di R. Esposito, Torino, Einaudi, 2001.

[25] Sono i vv. 28-29 in ibidem.

[26] Sempre l’ottimo F. Rappazzo, «...e questo è il sonno», cit., che qui cita e riprende R. Luperini, Il futuro di Fortini, Lecce, Manni Editore, 2007, p. 86.

[27] Sono i vv. 10-11 di E. Montale, Tramontana, secondo momento della sequenza L’agave su lo scoglio: «Ogni forma si squassa nel subbuglio / degli elementi; è un urlo solo, un muglio / di scerpate esistenze: tutto schianta / l’ora che passa: viaggiano la cupola del cielo / non sai se foglie o uccelli - e non son più».

[28] F. Fortini, Altra arte poetica (1957), da Poesie e errore, in Tutte le poesie, cit., p. 206.

[29] Id., Dell’oscurità, in Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Torino, Bollati e Boringhieri, 2003, p. 141.

[30] Il corsivo si interrompe significativamente soltanto nei versi 7-9 (la seconda strofa), v. 16 (il verso scalettato), vv. 30-33.

[31] P. P. Pasolini, Le ossessioni di Fortini, in Il Caos, 1969, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1189-1192.

[32]  Ibidem.

[33] Ibidem.

[34]  F. Fortini, Tutte le poesie, cit. p. 582.

[35] P. P. Pasolini, Le ossessioni di Fortini, cit.

[36] Ibidem.

[37] F. Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993.

[38] Ivi, Introduzione, p. I.

[39] Si veda F. Rappazzo, «...e questo è il sonno», cit.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Ibidem.

[43] Nel Giugno del 2015, il direttore dell’archivio di stato russo, Sergei Mironenko, poi rimosso dal suo incarico, rese noti i documenti dell’indagine che promosse Stalin nel 1948 che attestano la falsità del mito dei “Ventotto di Panfilov”. Il documento è ancora consultabile qui: http://statearchive.ru/607. La notizia ha fatto il giro del mondo. Si possono consultare i seguenti quotidiani: https://www.wsj.com/articles/old-doubts-about-a-cherished-soviet-war-legend-resurface-unleashing-firestorm-1439250220; http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2015/07/20/ARoTdeBF-armata_propaganda_inventati.shtml; https://www.rferl.org/a/russian-minister-says-authenticity-of-war-legend-beyond-dispute-amoral-to-dig-further-/29635477.html; https://www.themoscowtimes.com/2015/07/09/russian-archives-cast-doubt-on-legends-of-soviet-war-heroes-a48026; https://eurasianet.org/soviet-wwii-legend-of-panfilov-guardsmen-debunked-as-fiction.

[44] F. Fortini, Verifica dei poteri, Torino, Einaudi, 1989 (1965), p. 91.

[45] Id., 27 Aprile 1935, da Paesaggio con serpente, in Tutte le poesie, cit., p. 405.

[46] Dante, Paradiso, XXV, vv. 2-3: «...’l poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra».

[47] G. Agamben, Il sacramento del linguaggio, Bari, Laterza, 2008, p. 46.

[48] Agostino d’Ippona, Le Confessioni, XII, 23.32, a cura di C. Carena, Milano, Mondadori, 1984, p. 368: «duo video dissensionum genera oboriri posse, cum aliquid a nuntiis veracibus per signa enuntiatur, unum, si de veritate rerum, alterum, si de ipsius qui enuntiat voluntate dissensio est».

[49] Ivi, 25.34, p. 370: «Si autem ideo ament illud, quia verum est, iam et ipsorum est et meum est, quoniam in commune omnium est veritatis amatorum».

[50] Ibidem: «Ideoque, Domine, tremenda sunt iudicia tua, quoniam veritas tua nec mea est nec illius aut illius, sed omnium nostrum, quos ad eius communionem publice vocas, terribiliter admonens nos, ut eam nolimus habere privatam, ne privemur ea».

[51] Ibidem: «Qui enim loquitur mendacium, de suo loquitur».

[52] Ivi, 25.35: «si ambo videmus verum esse quod dicis et ambo videmus verum esse quod dico, ubi, quaeso, id videmus? Nec ego utique in te nec tu in me, sed ambo in ipsa quae supra mentes nostras est incommutabili veritate».

[53] Ivi, 27.37, p. 372: «In quibus adhuc parvulis animalibus, dum isto humillimo genere verborum tamquam materno sinu eorum gestatur infirmitas, salubriter aedificatur fides, qua certum habeant et teneant Deum fecisse omnes naturas, quas eorum sensus mirabili varietate circumspicit».

[54] Ivi, 28.38, p. 373: «Alii vero, quibus haec verba non iam nidus, sed opaca fruteta sunt, vident in eis latentes fructus et volitant laetantes et garriunt scrutantes et carpunt eos. Vident enim, cum haec verba legunt vel audiunt tua, Deus aeterne, stabili permansione cuncta praeterita et futura tempora superari».

[55] Ibidem, 28.38: «non de te similitudinem tuam formam omnium, sed de nihilo dissimilitudinem informem, quae formaretur per similitudinem tuam recurrens in te».

[56] Ivi, 31.42, p. 377: «Ego certe, quod intrepidus de meo corde pronuntio, si ad culmen auctoritatis aliquid scriberem, sic mallem scribere, ut, quod veri quisque de his rebus capere posset, mea verba resonarent, quam ut unam veram sententiam ad hoc apertius ponerem, ut excluderem ceteras, quarum falsitas me non posset offendere».

[57] Ivi, XIII, 9.10, p. 389: «Dono tuo accendimur et sursum ferimur; inardescimus et imus. Ascendimus ascensiones in corde et cantamus canticum graduum. Igne tuo, igne tuo bono inardescimus et imus, quoniam sursum imus ad pacem Hierusalem, quoniam iucundatus sum in his, qui dixerunt mihi: In domum Domini ibimus. Ibi nos collocabit voluntas bona, ut nihil velimus aliud quam permanere illic in aeternum».


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