Verifica incerta.
Esperienze di verità nella poesia europea e italiana del Novecento

di Pietro Russo

 

 

Nel 1965 i cineasti indipendenti Alberto Grifi e Gianfranco Baruchello, assemblando centocinquantamila metri di pellicola scartati dalla “fabbrica dei sogni” di Hollywood, realizzano Verifica incerta. È quello che in gergo cinematografico si chiama found footage film, ovvero un film montato a partire da un materiale audiovisivo preesistente. Il risultato è una narrazione filmica sgangherata e incoerente che demolisce i miti dell’immaginario americano degli anni Cinquanta-Sessanta portando alla luce la menzogna ideologica che lo costituisce e lo alimenta. In pieno stile situazionista, il détournement messo in opera dai due autori trova la propria ragion d’essere ‘poetica’ nella critica che, rivolge il mezzo audiovisivo contro sé stesso mediante la sintassi del linguaggio cinematografico.[1] Vedremo più avanti in che modo l’ossimoro di questo titolo esplichi il senso e il destino della poesia. Per ora ci limitiamo a constatare che esso, più che una dichiarazione estetica, si delinea come una progettualità che genera una direzione che l’opera poetica è chiamata a seguire. Apparteneva infatti alla temperie culturale dell’epoca l’idea che la poesia rappresentasse il momento rivoluzionario del linguaggio, vale a dire il culmine delle capacità umane di ‘fare il vero’ mettendo in atto una creazione finalizzata a trasformare la realtà dalle fondamenta: «Ogni rivoluzione è nata dalla poesia, si è fatta innanzitutto con le forze della poesia […]. Il programma della poesia realizzata non è niente di meno che creare contemporaneamente degli accadimenti e il loro linguaggio, inseparabilmente».[2]
La questione, rapportata all’opera di Grifi e Baruchello, è decisiva poiché da essa emergono due aspetti sui quali conviene indugiare per fare chiarezza sulla natura di ciò che chiamiamo poesia. Se da una parte si evince che il nesso poesia-linguaggio non implica necessariamente un’articolazione stricto sensu linguistica, cioè di quel dire che ospita il logos e che per questo è una prerogativa umana, dall’altra si impone l’evidenza che ‘poesia’ è, nel senso originario greco, un fare che fa accadere qualcosa nella realtà, e quindi accadimento esso stesso. In questi termini la poesia è un evento.
Su questo presupposto, e con l’avallo di Heidegger, è possibile affermare che tanto una cattedrale quanto una scultura, un dipinto o un passo di danza o un film sono, nella loro essenza, opere di poesia; laddove la poíesis indicherebbe l’apertura sul mondo generata dall’evento che ri-vela l’accadere della verità. Legittimando l’identità tra produzione artistica e poesia, ne consegue che quest’ultima viene riconosciuta come evento della verità.[3] Ma ciò evidentemente non convince del tutto il filosofo tedesco, se è vero che egli, subito dopo, sente la necessità di attribuire all’opera in parole, cioè all’ars dicendi, un primato su tutte le altre arti in quanto espressione della loquela umana:

 

è il linguaggio, è la loquenza stessa a condurre per la prima volta nell’aperto l’essente come un essente. Là dove non essenzia alcuna loquenza, come nell’essere della pietra, della pianta e dell’animale, non c’è neanche apertità dell’essente e, di conseguenza, neanche apertità del non-essente e del vuoto. Quando la loquenza nomina per la prima volta l’essente, tale nominare conduce l’essente alla parola e all’apparizione. Questo nominare nomina l’essente promuovendolo al suo essere in base al suo essere.[4]

 

La peculiarità insita nell’atto della nominazione, che distingue l’essere umano dagli altri ‘essenti’ animati e inanimati, autorizza a discernere la poesia come un evento che si concretizza pienamente nel linguaggio verbale e che al contempo realizza tale linguaggio. L’eco benjaminiana di questo assunto risuona molto forte. Poiché l’uomo nomina le cose, si legge in Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, egli arriva a conoscerle nella loro più intima essenza, sigillando così la creazione divina.[5] A specchio dell’originario fare verbale di Dio, l’uomo, animale loquente e, a questo punto, poetante, ripete quella stessa creazione. L’equazione instaurata tra verità del linguaggio umano e verità della poesia può essere pertanto ricondotta, non senza ragione, all’alba della civiltà occidentale scolpita icasticamente nel prologo del Vangelo giovanneo. Senza entrare nel merito della questione, occorre qui osservare che la traduzione del Logos nel Verbum latino, oltre a incarcerare l’ampio spettro semantico dell’originale greco,[6] causa il restringimento (e, in un certo modo, persino l’isolamento autistico) della natura divina. Se la ‘Parola’ parla, a meno di non voler ammettere l’assurdità e quindi l’inefficacia di questo atto comunicativo, lo fa perché rivolta a qualcuno. Essa non è un’entità aleatoria e irraggiungibile, chiusa nella sua solitudine parlante. A chi si comunica infatti l’uomo, si chiede il Benjamin del saggio appena citato, se non all’uomo stesso, cioè a un altro da sé, simile ma non identico.[7] Si arriva alla medesima conclusione indirizzando la domanda verso  il Logos dell’evangelista, che Simone Weil traduce infatti ‘mediazione’[8] per ritornare alla vera origine della parola che crea.
È il linguaggio, infatti, la mediazione che fa essere il mondo, cioè l’identità intuita dagli antichi Greci di pensiero ed essere, in un equilibrio che è sempre da verificare ed è sempre incerto rispetto all’esito. In forza di ciò il ‘greco’ Heidegger, muovendo dalle conclusioni dell’estetica hegeliana, può a buon diritto riconoscere la presenzialità del divino nella creazione artistica. L’arte, quando è vera, ospita sempre una presenza:[9] la poesia che nasce dal e nel logos è garante di un’esperienza autenticamente fondata.
Facendo propria questa tesi George Steiner si spinge ad affermare che il millenario «patto di fiducia» tra Logos e Kosmos, pilastro dell’intera cultura occidentale, è stato irreversibilmente infranto dalle forme storico-artistiche della modernità in quel lasso di tempo che la storiografia è solita circoscrivere tra il 1870 e il 1930.[10] A questa altezza cronologica sarebbe avvenuta infatti una cesura di proporzioni storiche che avrebbe determinato l’avvento di una nuova era, dell’epilogo o del «dopo la Parola», tuttora ravvisabile nelle forme dell’aisthesis a noi più prossime.[11] Per il critico statunitense sono due in particolare le esperienze che scardinano la relazione armonica tra segno linguistico e referente. Quella di Mallarmé, in cui la parola rimanda in absentia alla cosa, e perciò la «non-referenzialità […] implica il presupposto di una vera assenza»;[12] e quella di Rimbaud, che, decostruendo il principio d’identità (A=A) e di individualità (L’io è un altro), sancisce «la negazione della possibilità teologica e del concetto di Logos che fonda questa possibilità».[13]

Declinata in questi termini, la questione apre uno scenario teologico-estetico di grande rilievo ermeneutico. Se è la presenza di Dio (inteso come principio di mediazione) ad assicurare il «significato del significato» del discorso umano, allora risulta tanto più chiaro che la rarefazione della parola poetica in virtù di una presunta purezza trascendentale condanna il fare del poeta all’isolamento, all’autoesclusione dalla storia e dalla reale esperienza degli uomini. L’equilibrio tra suono e senso, svincolato dalla determinatezza sintattica, si riduce quindi alla celebrazione del lemma-monade in un culto dove il poeta è officiante e officiato, sacerdote e divinità. «Quante rose a nascondere un abisso», scriverà dalla sua sponda triestina l’appartato Saba, incidendo così l’epitaffio della ‘poesia pura’ che in Italia ha i lineamenti dell’ermetismo. Prima però di focalizzare l’attenzione su ciò che storicamente ha rappresentato questo indirizzo poetico nel nostro paese, e quindi sulle risposte fisiologiche che esso ha suscitato, ci sembra opportuno allargare la prospettiva in direzione di alcuni exempla europei che reagiscono, in tempi e spazi diversi, alla via estetica intrapresa da Mallarmé e seguaci.

Il primo viene dalla lontana Russia. Nel 1913 il ventiduenne Mandel’štam pubblica il suo primo libro di poesie, La pietra (Kamen´), e contestualmente Il mattino dell’acmeismo, uno dei tre manifesti di un nuovo movimento letterario sorto in antitesi alla lezione del simbolismo europeo. La contiguità tra i due momenti, quello prettamente creativo e quello critico-interpretativo, è segnata da una visione organica e fisiologica dell’atto poetico che trova compimento nella metafora architettonica della cattedrale. Santa Sofia («In fondo la tua cupola, parola di testimone, / è sospesa in cielo come avesse una catena») e Notre DameLabirinto delle forze naturali, incredibile foresta, / abisso razionale dellanima gotica […] / dal peso cattivo / un giorno anchio il Bello creerò»)[14] si presentano pertanto agli occhi del poeta quali espressioni concrete di quella tensione creatrice che ha riconosciuto nella realtà di una singola pietra-parola la futura compiutezza dell’opera.

La vista del matematico che senza pensarci su due volte eleva al quadrato un numero di dieci cifre ci lascia lievemente meravigliati, ma troppo spesso dimentichiamo che il poeta eleva i fenomeni alla decima potenza, e l’aspetto dimesso di un’opera d’arte ci trae talvolta in inganno rispetto alla realtà tremendamente compressa di cui è dotata. Questa realtà è, in poesia, la parola come tale. […] Il Logos esige solo la sua parità di diritti con gli altri elementi della parola. […] Per gli acmeisti, il significato cosciente della parola, il Logos, è una forma altrettanto splendida quanto la musica per i simbolisti. E se per i futuristi la parola come tale striscia ancora carponi, nell’acmeismo la vediamo assumere per la prima volta una posizione verticale più degna ed entrare nel secolo della pietra della sua esistenza. […] L’acmeismo è fatto per chi, invasato dallo spirito della costruzione, non rinuncia vilmente al proprio fardello, ma lo accetta anzi con gioia per risvegliare e utilizzare in senso architettonico le forze che vi dormono dentro. L’architetto dice: io costruisco, quindi ho ragione. In poesia il senso di aver ragione ci è più caro d’ogni altra cosa […]. Soltanto un folle si metterà a costruire se non crede nella realtà del materiale la cui resistenza è chiamato a vincere. Sotto le mani dell’architetto, un sasso diviene sostanza e non è nato per costruire chi nel rumore dello scalpello che frange la pietra non ode una dimostrazione metafisica […]. Ma la pietra di Tjutčev, che ‘rotolata dal monte, giace nella valle, staccatasi da sola o fatta precipitare da mano pesante’, è la parola. In questa caduta repentina, la voce della materia risuona come un discorso articolato, e per raccogliere la sfida occorre l’architettura. Gli acmeisti sollevano da terra con devozione la misteriosa pietra di Tjutčev e la pongono a fondamento del loro edificio.[15]

Da cosa scaturisce questa ‘devozione’, questa fede nel principio costruttivo se non dalla verità di una presenza che qui ci viene incontro, di un più insito nell’edificio eretto per mezzo della realtà del materiale? A vent’anni di distanza Mandel’štam amplierà vertiginosamente la portata semantica di questa metafora in un’ottava il cui cardine è la proporzione matematica che vede «il periodo senza pesanti glosse, / unito e uno nella notte interiore» stare al foglio di carta «come la cupola ai cieli vuoti».[16] Lo scarto intuito tra il concepimento perfetto del periodo sintattico e la sua formulazione sulla pagina bianca è allora lo spazio della relazione tra l’opera – il testo poetico nello specifico – circolarmente conclusa (peri-odos) e il fruitore.[17] Solo alla luce di tale evento l’essenza divina abbandona il cielo per riempire di sé la cupola – culmine dello slancio verticale dell’architettura-sintassi – e quindi per abitare la pienezza e la verità dell’incontro. La dimensione della poesia, ci ricorda Paul Celan nelle vesti di fine esegeta de La Pietra, è infatti «un luogo umano; un luogo nel Tutto, certo, ma qui, quaggiù, nel tempo», poiché è attraverso l’apertura dialogica che «si costituisce il soggetto cui è rivolto il discorso, esso si rende presente, si raggruma attorno all’io che gli rivolge la parola e lo nomina. Ma, in questa presenza, ciò che attraverso la nominazione e l’interlocuzione è diventato praticamente un tu introduce la propria alterità ed estraneità».[18]
Proprio il poeta rumeno di lingua tedesca, in occasione del conferimento del Premio Büchner nel 1960, pronuncia un discorso che vuole essere una presa di distanza da un modo di intendere l’Arte «come alcunché di dato e dincondizionatamente presupponibile» che porta «alle sue estreme conseguenze il pensiero di Mallarmé».[19] Il meridiano – così il titolo di questo testo – è una testimonianza ‘poetologica’ di estremo valore in cui il logos di Celan, non distante da quello scorto nell’opera dell’acmeista russo, si palesa come «una conversazione, la quale […] potrebbe essere continuata all’infinito; se non accadesse qualcosa. Qualcosa accade».[20] Se la poesia è davvero un incontro sono due allora gli attori implicati nel processo di verità che la determina: «qualcuno che ode e tende lorecchio e guardae poi non sa di che si è parlato; che, comunque, sente il parlante, lo vede parlare, ne ha percepito linguaggio, figura e, allo stesso tempochi potrebbe dubitarne, qui, nellambito di questopera? – allo stesso tempo anche: respiro, il che significa direzione e destino».[21]
Così concepita, la poesia non è un’astrazione concettuale; così come non può essere ricondotta esclusivamente alla sua facies letteraria.

Ma il poema parla, vivaddio! Esso non smarrisce il senso delle proprie date, eppure – parla. Certo, esso parla, sempre e soltanto, rigorosamente in prima persona. Ma io ritengo […] che da sempre tra le speranze del poema vi sia quella di parlare in tal modo anche per conto di estranei – no, questa parola ormai non posso più usarla – di parlare […] per conto di un Altro – chissà magari di tutt’Altro. […] Quindi non verbo in assoluto […]. Bensì linguaggio attualizzato […]. E allora il poema sarebbe – ancora più chiaramente – linguaggio, diventato figura, di un singolo individuo – e, nella sua più intima sostanza, presenza e imminenza. Il poema è solitario. Solitario e in cammino. Chi lo scrive gli rimane inerente. Ma allora il poema non si colloca, proprio per questa ragione, dunque già a questo punto, dentro l’incontro – dentro il mistero dell’incontro? Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica. […] Il poema […] diventa colloquio – spesso un colloquio disperato. È solo entro lo spazio di questo colloquio che si costituisce l’entità interlocutoria […]. Nell’hic et nunc del poema – il quale, di per sé, possiede sempre e soltanto codesto unico, irripetibile e puntuale presente –, ancora in questa immediatezza e contiguità il poema consente che abbia voce quanto, all’Altro, è più proprio: ossia il suo tempo.[22]

Nel suo distanziarsi come alterità temporale rispetto al lettore-interlocutore, il testo poetico non fa che esporre la sua ontologica contemporaneità, che è quella appunto dell’incontro-dialogo. La voce della poesia è inesauribile perché radicata nel tempo e, dunque, in un tradere a cui affida la sua storicità. Stando così le cose, Celan – forse interloquendo dialetticamente con la nota provocazione di Adorno secondo il quale la poesia dopo Auschwitz sarebbe un atto di barbarie – ribadisce che il senso del fare poesia non può venire mai meno.[23] Anche dinnanzi alle atrocità della Storia esso rimane custodito in virtù di questa ricerca vitale dell’Altro che porta il contrassegno inequivocabile di un’umanità mossa da un bene più grande.
La parola poetica, ormai è chiaro, in quanto plurale e aperta, rifiuta un’esistenza al di fuori della dimensione diacronica. La purezza pretesa dal simbolismo europeo non può che arenarsi al cospetto di tale evidenza. Affermare, sulla scorta di Gadamer, che la parola della poesia è «unica ed insostituibile» e perciò «sta salda in se stessa»[24] non implica infatti nessun arroccamento in una realtà astorica inconciliabile con la reale misura dell’essere umano. La peculiarità dell’ermetismo italiano sembra consistere proprio in questo rapporto ambiguo con la Storia. Se da un lato esso respinge le contraddizioni e le urgenze del presente per cristallizzarsi nello spazio della comunicazione letteraria, dall’altro diverge dal modello francese di fine Ottocento perché in fondo non recide il cordone ombelicale con il passato delle ‘belle lettere’. Da questa specola interpretativa si ha dunque modo di constatare che la ‘poetica della parola’ in Italia recupera, dopo le innovazioni linguistiche di Pascoli e di Gozzano, quel filo diretto con la tradizione lirica risalente, previa codificazione cinquecentesca, all’impareggiabile exemplum di Petrarca. L’assoluto di questa lingua viene a configurarsi allora come la ‘traduzione’ novecentesca del monolinguismo e del monostilismo del Canzoniere, secondo la vulgata critica di Contini.[25]
Sub specie Petrarce la temperie ermetica trova la terra promessa in un linguaggio che riconosce nel tempo della poesia l’«eterno confronto della nostra anima con il senso totale della verità».[26] Diventa perciò di grande interesse fare notare qui, a conferma di quanto appena detto, che il superamento dell’ermetismo negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso non comporta, nei fatti, una damnatio memoriae del nume tutelare trecentesco. A prevalere, in questi decenni, è semmai un atteggiamento più critico nelle forme e nei modi di ripensare la tradizione, anche in termini oppositivi o ideologici, quasi sempre orientato a un fine conoscitivo. In questo senso i percorsi di Vittorio Sereni e Pier Paolo Pasolini possono assurgere a esempio di come un rinnovato rapporto con le radici della poesia possa determinare una verifica più ‘certa’ dell’esperienza.
Rispetto all’esordio di Frontiera nel 1941, il Diario d’Algeria, pubblicato sei anni dopo per i tipi di Vallecchi, registra un tentativo di distacco dal retroterra ermetico. Nonostante la contiguità linguistica, ascrivibile a un’ascendenza marcatamente petrarchesca,[27] all’«esile mito» personale del primo libro di Sereni è qui contrapposta l’irruzione della Storia nelle contingenze del secondo conflitto mondiale. Nello specifico, la detenzione nei campi algerini, è vissuta dal poeta di Luino come un momento di estraneazione – limbo e allo stesso tempo discesa agli inferi – che nega l’esperienza fondamentale e formativa della lotta partigiana, forse ultimo catalizzatore nella nostra storia nazionale di valori riconosciuti e condivisi da una collettività. Con una certa fondatezza si potrebbe allora sostenere che questa prigionia coincide, sul piano letterario, con la torre d’avorio innalzata dalla poesia ermetica: «Lassù dove di torre / in torre balza e si rimanda / ormai vano un consenso» (Lassù dove di torre).[28] Non è un caso infatti che a questa altezza cronologica comincia a maturare in Sereni il seme di un nuovo modo di intendere, e si potrebbe anche dire di ‘vivere’, la scrittura poetica.
Le prose che accompagnano il Diario d’Algeria, e che in un certo senso ne divengono un contrappunto ermeneutico, testimoniano infatti una «esperienza della poesia» volta a recuperare una misura relazionale più consona all’esistenza umana. Il poeta, per questa via, non è adatto «a enunciare verità che escano da un ordine affatto personale ed entro certi limiti utili a lui solo e a lui solo necessarie» poiché le certezze in suo possesso «sono valutabili in base alla loro fecondità più che alla loro verità e incontestabilità obiettiva e assoluta». Alla stregua di un organismo vivente «alla poesia occorrono, per crescere, materia e spazio. Con questo non si dice niente di peregrino: si allude alla pazienza che un poeta deve sempre chiedere […] per quell’insieme di errori – se considerati momento per momento –, comunque di illusioni o di idoli che fanno la sua provvisoria e fluida verità».[29]

È qui bene in evidenza l’impronta fenomenologico-esistenzialista degli anni della formazione milanese; su queste basi Sereni identifica la verità della poesia in un movimento di continua verificazione dei dati esperiti:

Se l’idea di poesia che ogni poeta porta con sé fosse raffigurabile in uno specchio, noi vedremmo quello specchio assumere di volta in volta tutti i colori possibili, riflettere non un’immagine ma una battaglia di immagini. Si ripropone, con questo, il carattere dinamico di ogni meditazione sulla poesia: la sua estrema mutevolezza, il suo continuo essere chiamata in causa per scomporsi o ricomporsi, per accogliere o per rifiutare. La vista di un nuovo paesaggio, la lettura d’una pagina che il caso ha aperto un giorno sul tavolo, il suono d’una voce dalla strada bastano a volte per darle una direzione diversa; per costringerla a rivedere tutto quanto da capo.[30]

La ‘direzione’ della poesia è qui ancora una volta quella delineata da un incontro, cioè da un evento che si abbatte con esiti imponderabili sulla fortezza dell’io, il quale viene gettato in un territorio sempre nuovo e aperto per ridefinire di volta in volta un orizzonte di senso entro il quale è possibile collocarsi in qualità di individui storici. Se la poesia vuole ancora parlare al «cuore della vita individuale e collettiva»,[31] se si scrivono ancora versi, benché in negativo,[32] è necessario che il poeta sia «un credente che aspetta i segni della grazia, convinto esclusivamente della predestinazione e senza fiducia nel merito che l’operare potrà acquistargli; e che tuttavia non può fare a meno di operare sapendo che non le opere gli daranno la grazia ma che attraverso le opere soltanto egli potrà spiare l’avvento dei segni che aspetta».[33]
Solo in questo stare ‘attraverso’, cioè in una soglia tra l’operare e l’opera compiuta, il poeta può riscoprire il compito oneroso a cui è chiamato, che è quello di un servizio consacrato dalla comunità delle donne e degli uomini che con lui condividono il tempo presente della poesia: «tanto più apparterrò agli altri e tanto più gli altri si specchieranno in me, quanto più mi verrà fatto di tener fede alla mia scelta, a questa giustificazione che ho dato a me stesso del mio passaggio nel mondo».[34] Come è stato ampiamente rilevato dalla critica, il lievito della scrittura di Sereni è dato appunto da questa predisposizione etica e conoscitiva, la quale elegge il reale a luogo privilegiato dell’incontro.
Rientra nel sentimento del «passaggio nel mondo» del poeta lombardo anche la conversazione (e il termine non è peregrino!) tenuta a Lugano il 7 maggio 1974 in occasione del sesto centenario della morte di Petrarca, intitolata significativamente Petrarca, nella sua finzione la sua verità. Davanti allo specchio di Petrarca accadono infatti rifrazioni multiple che proiettano all’infinito il destino della poesia e la sua connaturata vocazione verso l’alterità dialogica.[35]

Non appena un’opera, grande o piccola che sia, prende corpo davanti al suo responsabile e fino a quando questi serbi l’illusione di un’udienza e di un destinatario, o di un interlocutore, non è raro che un colloquio s’instauri invece e si svolga tra autore e opera stessa. Dire colloquio è abbastanza improprio, ma non poi tanto. Nell’opera, in tali casi, l’autore si vede più a fondo, vorrei dire, e con maggiore continuità, o crede di vedersi meglio di quanto non riesca vivendo: la interroga e ne ottiene risposte, labili e incomplete fin che si vuole, ma pur sempre risposte.[36]

Ciò che si ha modo di ricavare da questo contesto è che la lettura sereniana di Petrarca mette in atto una strategia ermeneutica ben precisa. La comprensione di un’opera, ci dice il poeta di Luino, passa attraverso quella che Steiner chiama «ingestione» o «critica attiva», ovvero una introiezione del testo letterario nel tessuto aperto della vita. Posto di fronte all’opera d’arte, il vero interprete è colui che ne fa esperienza interrogandola e interrogandosi sul senso della sua esistenza, assumendosi quindi «il rischio dellimpegno, di una risposta che è, nel senso etimologico, responsabile».[37] Forse è proprio con l’intenzione di far ri-vivere la poesia del Canzoniere se Sereni apre Gli strumenti umani con il distico «Con non altri che te / è il colloquio» di Via Scarlatti, che è in fondo un recupero della stagione ermetico-petrarchesca del Diario d’Algeria.
La verità del Canzoniere è dunque quella del rapporto isotopico Laura/lauro, vale a dire del legame inscindibile tra la donna amata e la poesia:

Laura è il suo specchio e insieme lo specchio del creato. In luogo dell’irreale e semplicistico: “Amami come io ti amo”, Francesco, con la presunzione e l’egocentrismo anche inconscio del poeta che sempre vorrebbe essere visto presente nell’uomo, sembra dire a Laura: “Amati come io ti amo”. Cioè riconosciti, spècchiati nella rappresentazione che io faccio di te e di noi due insieme, condividine l’estasi o la febbre, sentiti accresciuta di quanto io ti accresco. Al cospetto dello specchio che è Laura, Petrarca ha lavorato a formare la propria immagine. È a questa che parla nel parlare con Laura. Il punto in discussione è qui. Ma se una eco può essere più vera del suono che l’ha prodotta, questo è il caso del Petrarca: nella sua inventiva, nella sua fictio, nella sua finzione sta la sua verità; e insieme la sua ossessione, la sua sofferenza, non inferiore e non meno vera di quella che può avere sofferto vivendo.[38]

Nello spazio e nel tempo della poesia la dialettica verità/finzione assume ben altri termini. Se è vero che il poeta è un mentitore, come voleva Pessoa e ancor prima di lui Platone, è perché nella sua opera non compare il mondo, bensì il nostro riconoscerlo in forma mimetica.[39] La parola poetica, in quanto fondata sul linguaggio, ha un’altra prerogativa: rispondere all’interrogazione di senso che le si rivolge. E fin qui si è già visto in che misura il linguaggio attesti contemporaneamente l’esserci dell’uomo che pone questa domanda e la presenza di un’alterità che risponde.
A tale risoluzione, intuita tramite il ‘fare’ della poesia, perviene anche il ventenne Pier Paolo Pasolini quando dà alle stampe, per i tipi della Libreria Antiquaria Landi di Bologna, le Poesie a Casarsa. Rispetto ai primi goffi esercizi di modulazione di una voce ‘in lingua’, calibrata sui modelli del pascolismo e della tradizione simbolista-decadente,[40] la plaquette d’esordio del 1942 si rivela sorprendente per molti aspetti. Su tutti spicca senz’altro la scelta linguistica del dialetto friulano di cà da l’aga, cioè di quella varietà particolare parlata sulla riva destra del Tagliamento che il giovane Pier Paolo riconosce più consona alla ricerca personale di un proprio spazio nel mondo. Il lettore si trova quindi di fronte al tentativo di appropriazione di una lingua (ancora incontaminata dalla scrittura e alla quale non è estraneo un forte sostrato idiolettale)[41] che va di pari passo con la Bildung del soggetto poetante.
Più che a un Eden linguistico in senso adamitico,[42] nelle intenzioni di Pasolini il dialetto punta verso una ri-fondazione di una lingua poetica che non si allontani troppo dalla lezione dell’ermetismo ungarettiano.[43] Ciò che avviene a Casarsa è dunque «un ben strano tramutarsi della lingua in linguaggio […]. Così la lingua stessa, la pura parlata dei Casarsesi, poté divenire linguaggio poetico senza tempo, senza luogo, tramutarsi in un vocabolario senza pregiudizi, e pieno invece di dolci violenze estetiche, giustificate da un clima poetico diffuso in tutta l’Italia, o meglio, in tutta l’Europa».[44] Se la tensione infinitiva verso una ‘terra promessa’, che comunque è un tratto innegabile delle Poesie a Casarsa, suggerisce il contrario è solo perché la ‘lingua’ della poesia è naturaliter una lingua ‘altra’, o per meglio dire una lingua che cerca sempre la relazione su un piano essenziale con l’Altro. Divenuta ‘linguaggio’ poetico, la ‘lingua’ casarsese, a dispetto della nota d’autore apposta in calce al libretto,[45] trova la propria legittimazione in una «interna traducibilità» in cui la funzione poetica prevale nettamente su quella comunicativa.[46]
Questo incontro (perché, ormai è chiaro, si tratta di questo) tra Pasolini e il dialetto di cà da l’aga è talmente decisivo per il destino del poeta che egli lo nobiliterà con una ricostruzione à rebours che, per quanto ricca di allusioni e depistaggi (anzi forse proprio per tale motivo), possiede uno spiccato valore in termini ermeneutici:

In una mattina dell’estate del 1941 io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico. Sulla mia testa di beatnik degli Anni Quaranta, diciottenne […] Comunque è certo che io, su quel poggiolo, o stavo disegnando (con dell’inchiostro verde, o col tubetto dell’ocra dei colori a olio su del cellophane), oppure scrivendo dei versi. Quando risuonò la parola ROSADA. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare. Un ragazzo alto e d’ossa grosse… Proprio un contadino di quelle parti… Ma gentile e timido come lo sono certi figli di famiglie ricche, pieno di delicatezza. […] Tuttavia Livio parlava certo di cose semplici e innocenti. La parola «rosada» pronunciata in quella mattinata di sole, non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito: questo fa parte del ricordo allucinatorio. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa a rendere grafica la parola ROSADA.[47]

In principio dunque era davvero la Parola: la parola della poesia che si manifesta nella chiamata,[48] che non è «mai stata scritta» e perciò esiste solo in quel limbo potenzialmente infinito tra la dimensione orale e il suo storicizzarsi sulla pagina. Questa trepidazione, questa soglia misteriosa tra l’esserci e il poter non esserci è il segno dell’evento che si incide nella carne. In quest’ottica, l’episodio di «ROSADA» suggerisce una fondamentale chiave di accesso all’esperienza che si svolge nelle Poesie a Casarsa. L’unzione poetica di Pasolini, sulla quale si chiude La domenica uliva e l’intera raccolta, ha infatti il chiaro sigillo di una vocazione, tanto più ‘scandalosa’ quanto più essa viene a collocarsi sotto le insegne della Croce, luogo per antonomasia della mediazione tra il Padre e il Figlio: «S’a plûf un fûc / scûr tal mè sèn, / tu clàmis, Crist, / E SÈNZE LUM».[49] È la verità ‘insanguinata’ dell’incontro con Cristo – Logos «anteriore a ogni stile», come scriverà in Bestemmia[50] – ciò che Pasolini, nell’orizzonte di una salvezza sempre anelata, perseguirà fino alla morte. Verità che, se non ci è possibile seguire fin nelle regioni insondabili della biografia, possiamo e dobbiamo fare, insieme all’autore, sulla via della poesia.

 

 

[1] Per un ulteriore approfondimento cfr. A. De Filippo, Ombre, Catania, Edizioni Aitnon, 2004, pp. 31-41.

[2] All King’s men, in Internazionale Situationniste, La critica del linguaggio come linguaggio della critica, Torino, Nautilus, 1992, pp. 6-8.

[3] Cfr, M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Id., Holzwege. Sentieri erranti nella selva, a cura di V. Cicero, Milano, Bompiani, 2002, pp. 3-89. «Che cos’è all’opera nell’opera? Il quadro di Van Gogh è l’apertura inaugurale di ciò che lo strumento […] è in verità. Questo essente esce nell’inascosità del suo essere. L’inascosità dell’essente i Greci la chiamavano αλήθεια. Noi diciamo ‘verità’, e non pensiamo a sufficienza cosa implichi questa parola. Se ciò che accade qui è un’apertura inaugurale dell’essente in ciò che esso è e nel modo in cui è, allora nell’opera è all’opera un accadere della verità. Nell’opera dell’arte si è messa in opera la verità dell’essente.» (p. 28); «Ogni arte, in quanto lasciar accadere l’avvento della verità dell’essente come essente, è nella sua essenza poesia» (p. 72); «L’arte, in quanto messa-in-opera della verità, è poesia» (p. 75).

[4] Ivi, p. 74 (corsivi nel testo).

[5] Cfr. W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2014, pp. 53-70.

[6] Cfr. S. Vecchio, Un prisma agostiniano di filosofia del linguaggio, Acireale-Roma, Bonanno, 2017. Si vedano in particolare le pp. 9-17.

[7] W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 56.

[8] Cfr. S. Weil, Quaderni. Volume terzo (Quaderno XII), a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 1988, p. 413: «Dio è mediazione, e in sé tutto è mediazione divina. Analogicamente, per il pensiero umano, tutto è rapporto, logos. Il rapporto è la mediazione divina. La mediazione divina è Dio; Id., Quaderni. Volume quarto (Quaderno XVI), a cura di G. Gaeta, cit., p. 288: «Il rapporto universale è il Logos, la Saggezza divina, il Verbo divino, al quale luniverso è conforme per amore».  

[9] L’opera d’arte «non è una copia […], ma è un’opera che lascia presenziare il Dio stesso, e quindi essa è il Dio medesimo» (Cfr. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 37).

[10] Cfr. G. Steiner, Vere presenze, Milano, Garzanti, 2014 (1989). In particolare, pp. 91-102.

[11] Ivi, p. 96.

[12] Ivi, p. 98.

[13] Ivi, p. 100.

[14] O. Mandel’štam, La pietra, trad. e cura di G. Lauretano, Milano, Il Saggiatore, 2014, p. 87 e p. 89.

[15] Id., Il mattino dell’acmesimo, in G. Kraiski, Le poetiche russe del Novecento, Bari, Laterza, 1968, pp. 62-66 (62-64).

[16] Id., Quasi leggera morte. Ottave, a cura di S. Vitale, Milano, Adelphi, 2017, p. 45.

[17] Cfr. S. Scribano, Ottave (che cos’è la poesia), in Poesia inChiostro, a cura di R. Castelli, Acireale-Roma, Bonanno, 2016, pp. 75-95. Con particolare riferimento alle pp. 78-79 dedicate al commento della sesta ottava.

[18] P. Celan, La poesia di Osip Mandel’štam, in Id., La verità della poesia. Il «Meridiano» e altre prose, a cura di G. Bevilacqua, Torino, Einaudi, 2008 pp. 49-50.

[19] Id., Il meridiano, in La verità della poesia, cit., p. 10.

[20] Ivi, p. 3.

[21] Ivi, p. 4.

[22] Ivi, pp. 14-17 (corsivi nel testo).

[23] Sull’argomento cfr. P. Gnani, Scrivere poesie dopo Auschwitz. Paul Celan e Theodor W. Adorno, Firenze, Giuntina, 2010.

[24] Cfr. H. G. Gadamer, Il contributo dell’arte poetica nella ricerca della verità, in Id., L’attualità del bello, a cura di R. Dottori, Genova, Marietti, 2016 (1986), pp. 159-169 (161).

[25] Cfr. G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, già in «Paragone», aprile 1951, poi in Id., Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-192.

[26] C. Bo, Letteratura come vita, a cura di S. Pautasso, Milano, Rizzoli, 1994, p. 711.

[27] Cfr. D. Isella, La lingua poetica di Sereni, in V. Sereni, Tutte le poesie, a cura di M. T. Sereni, Milano, Mondadori, 1986, pp. IX-XXVIII.

[28] Questa e le citazioni successive sono tratte da V. Sereni, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2013.

[29] Id., Esperienza della poesia, in Poesie e prose, cit., pp. 581-584 (581 e 582).

[30] Ivi, p. 582.

[31] Ivi, p. 583.

[32] Cfr. I versi ne Gli strumenti umani: «Se ne scrivono ancora. / Si pensa a essi mentendo / ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri / l’ultima ser dell’anno. / Se ne scrivono solo in negativo / dentro un nero di anni / come pagando un fastidioso debito / che era vecchio di anni. / No, non è più felice l’esercizio. / Ridono alcuni: tu scrivevi per l’Arte. / Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro. / Si fanno versi per scrollare un peso / e passare al seguente. Ma c’è sempre / qualche peso di troppo, non c’è mai / alcun verso che basti / se domani tu stesso te ne scordi».

[33] V. Sereni, Esperienza della poesia, cit., p. 583.

[34] Ivi, p. 584.

[35] Sull’argomento mi permetto di rimandare a P. Russo, La memoria e lo specchio. Parole del Petrarca nella poesia di Sereni, Acireale-Roma, Bonanno, 2013.

[36] V. Sereni, Petrarca, nella sua finzione la sua verità, in Id., Poesie e prose, cit., pp. 923-937 (929).

[37] Cfr. G. Steiner, Vere presenze, cit., pp. 21-5.

[38] V. Sereni, Petrarca, nella sua finzione la sua verità, cit., pp. 930-931.

[39] Cfr. H. G. Gadamer, Il contributo dell’arte poetica nella ricerca della verità, cit., p. 169: «[nella parola del poeta] non compare il mondo, ma la prossimità stessa, la familiarità stessa in cui ci intratteniamo. […] il messaggio religioso annuncia la salvezza, la sentenza giuridica dice che cosa è giusto e ingiusto nella nostra società, la parola poetica attesta la nostra esistenza, essendo esistenza essa stessa». E cfr. anche Id., Poesia e Mimesis, in L’attualità del bello, cit., pp. 170-176 (173-174): «Ogni rappresentazione trova il suo compimento genuino solo nel fatto che il rappresentato sia presente in essa nella sua autenticità. Quando Aristotele descrive come lo spettatore riconosca: ‘questo è il tale’, egli non intende che si sia individuato dietro al travestimento colui che si traveste, ma al contrario che si riconosca dietro il travestimento quel che il travestimento stesso vuol rappresentare. Conoscere vuol dire in tal senso riconoscere. […] Mimesis è la rappresentazione in cui ciò che viene ravvisato è solo il contenuto essenziale del rappresentato, ciò che ci sta dinanzi e che si ‘conosce’. […] Là dove qualcosa viene riconosciuto, esso si è allora già liberato dalla singolarità e casualità delle circostanze in cui venne incontrato. Non è più quello di allora e non quello di adesso, ma lo stesso e il medesimo».

[40] Cfr. le lettere agli amici nel biennio che precede la pubblicazione di Poesie a Casarsa, in P. P. Pasolini, Lettere (1940-1954), a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1986.

[41] Cfr. P. P. Pasolini, Dialet, lenga e stil, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, tomo I, a cura di Walter Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 61-67 (67): «Quando un dialetto diventa lingua, ogni scrittore adopera quella lingua conforme le sue idee, il suo carattere, i suoi desideri. Insomma ogni scrittore scrive e compone in maniera diversa e ognuno ha il suo “stile”. Quello stile è qualcosa di interiore, nascosto, privato, e, soprattutto, individuale. Uno stile […] è di quel poeta e basta».

[42] Id., Poesia d’oggi, già in «Le Panarie», XVII, 97, maggio-dicembre 1949; ora in ivi, pp. 322-336 (322-323): «Il mio friulano del 42 era qualcosa di diverso da un dialetto, in quanto io ambivo, per usare la mia terminologia di allora, a un mio linguaggio privato ed ermetico (non oscuro!) dove perseguire puri fantasmi poetici ossessionato da un sentimento solo: la nostalgia. Era daltre parte dialetto in quanto aveva richiesto da me una forma di regresso linguistico, verso un lessico turgido di vita inespressa, vergine, immediato e imprudente […]; dal regresso, dunque, a un recupero fin troppo fulmineo delle suggestioni letterarie più avanzate lintervallo era brevissimo».

[43] È Gianfranco Contini il primo a riconoscere come nelle Poesie a Casarsa sia in atto una «prima accessione della letteratura dialettale allaura della poesia doggi, e pertanto una modificazione in profondità di quellattributo» (G. Contini, Al limite della poesia dialettale, già in «Corriere del Ticino», 24 aprile 1943; poi in «Il Stroligut», 2, aprile 1946, pp. 11-13: 11).

[44] P. P. Pasolini, Volontà poetica ed evoluzione della lingua, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 159-161 (160).

[45] Cfr. Id., Poesie a Casarsa, Bologna, Libreria Antiquaria Mario Landi, 1942, p. 43: «Lidioma friulano di queste poesie non è quello genuino, ma quello dolcemente intriso di veneto che si parla nella sponda destra del Tagliamento; inoltre non poche sono le violenze che gli ho usato per costringerlo ad un metro e a una dizione poetica. Vorrei inoltre invitare il lettore non friulano a soffermarsi sopra certi vocaboli […] che io, nel testo italiano, ho variamente tradotti, ma che, in realtà, restano intraducibili». Da questa edizione sono tratte anche le citazioni seguenti.

[46] Cfr. G. Contini, Al limite della poesia dialettale, cit., p. 13.

[47] P. P. Pasolini, Dal laboratorio, in Empirismo eretico, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 1307-1342 (1316-1318).

[48] Cfr. A. Sichera, La consegna del Figlio. Poesia in forma di rosa di Pasolini, Lecce, Milella, 1997, pp. 43-44.

[49] «Piove un fuoco scuro nel mio petto: non è sole e non è luce. Giorni senza chiaro passano sempre, io sono di carne, carne di fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, tu chiami, Cristo, e senza luce» (Traduzione dello stesso Pasolini in Poesie a Casarsa, op. cit.).

[50] P. P. Pasolini, Bestemmia, in Id., Tutte le poesie, tomo II, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003, p. 1014.


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POESIA , LINGUAGGIO , letteratura , NOVECENTO


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